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22/04/2013

Adnan: una diserzione sofferta e la fuga in Turchia
di Tamas Almos

Mi chiamo Ahmed Muhammad Adnan Sheir, vengo dalla Siria e sono nato ad Aleppo all’inizio del 1986. Dopo il liceo scientifico ho completato i miei studi presso l’Università di Aleppo, studiando matematica e laureandomi nel 2010. Dopo aver lavorato per un anno, ho dovuto svolgere il servizio militare. Ho iniziato questo periodo il primo dicembre 2010 e dopo quattro mesi la rivoluzione è cominciata nella città di Deraa.

A quel tempo mi trovavo a Suwayda nel sud della Siria, nelle vicinanze di Damasco. Secondo i regolamenti militari, non si ha il permesso di avere un cellulare, ma ci sono molti militari nell’esercito e così ho avuto l’opportunità di tenere con me il telefonino e nasconderlo, e con il telefonino potevo sapere tutto quello che succedeva.

Nei mesi della leva i capitani venivano da noi per comunicarci cosa stesse accadendo, ma non ci raccontavano i fatti, ci dicevano solo quello che volevano. Ogni mattina arrivavano e ci dicevano le stesse cose: quello che trasmetteva la televisione e le stesse dichiarazioni dei ministri e del regime.

Ci dicevano: “Loro i manifestanti sono un gruppo di terroristi, non sono siriani, sono stranieri, sono criminali.” E tu come soldato sai che questo non è vero, ma te lo ripetono ogni giorno, finché non ci credi. Questa era la norma nei ranghi dell’esercito, ma potendo lasciare il campo di tanto in tanto potevamo sapere più cose e avere maggiori informazioni su quello che accadeva realmente.

Il 18 maggio 2012 erano ormai sei mesi che non vedevo la mia famiglia. Ho avuto così il permesso per recarmi ad Aleppo. Quando ho visitato la mia città, ho potuto vedere che tutto era diverso. In quel momento non c’erano battaglie, la vita era simile a quella che ho qui; ma la gente era tesa e dopo la preghiera del venerdì sono scesi nelle strade per protestare contro il regime. Ho parlato con molte persone e mi hanno raccontato come stavano le cose. Mi hanno detto che per tutto quello che era accaduto avrei dovuto disertare.

Nell’esercito però tutti hanno paura di disertare, perché se la polizia o l’esercito ti scoprono, possono ucciderti. Ho deciso quindi di tornare a Suweyda. Dopo tre giorni lì ho cominciato a pensare sempre di più alla diserzione. Ho telefonato a mio fratello, che era a sua volta nell’esercito di stanza nella cittadina di al Hasaka, nel nord della Siria. Abbiamo deciso assieme di lasciare l’esercito, perché i soldati uccidevano e venivano uccisi.  Inoltre in caso di guerra un soldato deve rimanere nell’esercito fino alla fine del conflitto e non soltanto fino al compimento dei 18 mesi di leva.

Nella mattina del 31 maggio ho preso alcuni libri e mi sono diretto verso la biblioteca – nel corso del servizio militare studiavo francese. L’ufficiale mi ha chiesto dove stessi andando e gli ho risposto che mi stavo recando presso l’ufficio postale per spedire quei libri a mio fratello. Con la sua autorizzazione sono potuto andare. Sono andato a Damasco, a un’ora di autobus. Arrivato a Damasco sono andato alla stazione dei pullman extraurbani per raggiungere Aleppo. La via principale era inutilizzabile perché l’autostrada era per metà controllata dall’esercito e per metà dall’Esercito Siriano Libero (ESL). Ho dovuto viaggiare verso est, su un percorso più lungo. Dopo 12 ore di viaggio, sono arrivato ad Aleppo.

Due giorni dopo ha disertato anche mio fratello. E dieci giorni più tardi le forze governative hanno cominciato a bombardare il mio villaggio, nel nord di Aleppo. La maggior parte delle persone dopo il bombardamento è scappata ad Aleppo, ma io e mio fratello, essendo disertori, non potevamo andarci: sarebbe stato troppo pericoloso. In quel momento abbiamo deciso di venire in Turchia.

Sono arrivato in Turchia il 14 giugno 2012, con una valigia e un po’ di soldi. Non c’erano molti profughi al confine, ho passato la frontiera a Kilis, che era già controllata dall’ESL, e il soldato turco non ha sollevato alcun problema. Abbiamo ricevuto la nostra tessera identificativa e siamo andati nel campo profughi di Sanliurfa, perché quello di Kilis era già pieno. Dopo tre giorni ce ne siamo andati: la vita in quel luogo era molto dura, soprattutto nei mesi estivi. Ci siamo spostati ad Antakya per quindici giorni, ma lì non conoscevo nessuno ed era molto distante dalla mia famiglia: abbiamo deciso quindi di trasferirci a Kilis. Quest’ultima cittadina è piccola e non offre molte possibilità. Il numero di profughi andava aumentando e con esso diminuivano le occasioni di trovare un lavoro. Lì abbiamo trascorso due mesi e poi, quando la nostra famiglia ci ha raggiunto, ci siamo trasferiti a Gaziantep.

Qui abbiamo potuto affittare un appartamento, dove viviamo tutti assieme, ed io ho trovato lavoro come insegnante nella scuola siriana, con un salario pagato dal governo turco. Uno dei miei fratelli lavora come idraulico e l’altro in una fabbrica. Mio padre non può lavorare e rimane a casa. Mio fratello più giovane ha poi deciso di ritornare e di combattere in Siria. Lo abbiamo perso lo scorso anno.

Questo è solo un estratto dell’intervista realizzata. Esso si focalizza sugli effetti immediati del conflitto sulla vita di una persona.

intervista realizzata nel sud della Turchia, marzo 2013

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