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http://wagingnonviolence.org
Maggio 14, 2013

La repressione violenta non può fermarci - in qualsiasi parte del mondo
By George Lakey

Lo script tramandato dalla saggezza convenzionale è abbastanza chiaro: quando alcune persone si alzano per protestare contro un'ingiustizia, e la polizia o i soldati li bastonano o li uccidono, il movimento è schiacciato. La violenza ferma la protesta non violenta, giusto?

Però ancora, molti di noi hanno testimoniato il contrario; la violenza spesso può stimolare il movimento a diventare più grande e più potente.

Non è del tutto chiaro perché la repressione violenta possa avere tali esiti diversi. Una possibile spiegazione potrebbe essere che una piccola quantità di violenza stimola la crescita del movimento e una grande quantità la spegne - ma questo non è vero. Alcuni movimenti nonviolenti prosperano quando vivono una pesante violenza repressiva e altri regrediscono a fronte ad una piccola quantità di violenza repressiva.

Sì, ci sono un sacco di volte in cui la violenza riesce a fermare un movimento. Ma nella maggioranza dei casi che sono pubblicati nel Global Nonviolent Action Database (quasi 800 ad oggi), la maggioranza degli esempi che vediamo di repressione sono di stimolo al movimento per la vittoria.

Le persone negli Stati Uniti hanno più probabilità di conoscere le campagne per i diritti civili che fiorirono di fronte alla violenza, come a Birmingham, Alabama, nel 1963, una delle 50 e più lotte per i diritti civili contenute nel database. Ma prima degli anni 50 e 60, ci sono stati brillanti strateghi che vedevano attraverso la saggezza convenzionale.

I ricercatori stanno cercando di capire ciò che permette ai movimenti non solo di resistere alla repressione violenta, ma di utilizzarla per la propria crescita. Uno studioso australiano, Brian Martin, chiama repressione che non funziona il ritorno di fiamma, mentre Lee Smithey e Les Kurtz lo chiamano il paradosso della repressione. Nel mio libro Verso una rivoluzione vivente, identifico le cose che gli attivisti possono fare per rendere la repressione un boomerang nei confronti di coloro che cercano di fermarci.

Molti paesi, molte culture

Ciò che mi ha colpito quando ho letto il database è quanto sia diffuso questo fenomeno. Si presenta in molti paesi, in diversi decenni, nei movimenti guidati da contadini e studenti, lavoratori e professionisti. Ecco un esempio del loro impegno, da tutti i continenti.

A San Pietroburgo il massacro dei cosacchi di contadini non violenti, che manifestavano cntro lo zar, durante la famosa insurrezione nonviolenta del 1905, gettò le basi per il rovesciamento dello Zar nel 1917.

Nel 2010, il tentativo del governo del Quebec di reprimere la campagna degli studenti per fermare gli aumenti dei tasse scolastiche, ha comportato una battaglia, a livello provinciale, che ha mobilitato anche i non studenti, tra cui il movimento operaio. Gli studenti hanno vinto.

Nel 1952 il governo sudafricano ha colpito una piccola campagna anti-apartheid non violenta con arresti, pestaggi e sparatorie, che rapidamente hanno aumentato le dimensioni del movimento e mobilitato i suoi alleati bianchi.

In Bangladesh nel 1987 la dittatura finì per uccidere molti attivisti, ma non fu in grado di fermare la campagna pro-democrazia. Quando il governo chiuse le università per privare gli studenti della loro organizzazione di base, più studenti si unirono al movimento di protesta. Avvocati e medici uniti ai lavoratori già in strada. Il movimento di opposizione si moltiplicò, e dal 1990 la polizia si rifiutò di sparare sulla folla inerme. Il regime cadde.

Una storia simile si svolse in Iran durante la campagna del 1977 contro lo Scià, che guidava una delle più potenti forze militari nel mondo, nonché un’odiata polizia segreta specializzata nella tortura. La campagna fu aperta dagli studenti su piccola scala. Poi la Polizia uccise due studenti di teologia durante una dimostrazione. Questo per respingere il movimento nella paura. Invece, molte più persone si unirono alla protesta, anche non studenti. Drammaticamente, il ritmo della campagna venne guidato da cicli di 40 giorni in cui i servizi funebri nelle moschee onoravano il crescente numero di morti. Omicidi e torture spinsero le proteste nonviolente su scale sempre più grandi fino a quando anche i lavoratori del petrolio, l’aristocrazia della forza lavoro, scesero in sciopero.

Lo scià, sperando ancora che la violenza si sarebbe rivelata più forte della nonviolenza, ordinò ai suoi generali di degenerare, con il conseguente Venerdì nero, quando gli elicotteri volteggiarono sopra gli iraniani disarmati intrappolati nelle piazze di Teheran, scatenando su di loro una tempesta di proiettili. Nel bagliore della pubblicità globale del bagno di sangue, il presidente Jimmy Carter sostenne lo scià, ma in Iran la repressione fu il punto di svolta. Alcuni comandanti erano ancora disposti a rotolare i loro carri armati sopra i dimostranti nelle strade, ma i soldati divennero visibilmente meno disposti a continuare a sparare al popolo. Allo scià non restò che andare in esilio.

Il dittatore del Guatemala Jorge Ubico, ammirava apertamente Hitler, e lo dimostrò nel 1944 quando il suo regime militare venne contestato. Quando le donne hanno formarono una silenziosa marcia pacifica, i soldati spararono su di loro, uccidendo un’insegnante, Maria Chinchilla Recinos, che divenne la prima martire di quella campagna. I lavoratori e le persone della classe media organizzarono uno sciopero generale che spinse la capitale ad un punto morto. Il carattere non violento del movimento fu sottolineato con lo slogan "Brazos Caidos" (Braccia al nostro fianco) Ubico era finito.

L'anno scorso in Cina una campagna guidata da studenti delle scuole superiori portò a fermare la costruzione di un impianto per la lavorazione del rame nella provincia dello Sichuan, che era pronta a inquinare l’intera città di Shifang. Le prime manifestazioni sono state represse. La polizia ha picchiato gli studenti, ha usato gas lacrimogeni e granate stordenti, e sparato contro di loro. Ogni manifestazione è cresciuta nei numeri, e ben presto decine di migliaia di persone sono arrivate sul posto delle manifestazioni. Di fronte a una situazione fuori controllo il governo cedette e accettò di non finire di costruire la fabbrica.

In Giappone i contadini Sunagawa guidarono una rivolta nel 1956 per impedire il previsto ampliamento di una base militare degli Stati Uniti. Quando la polizia picchiò gli abitanti dei villaggi con i randelli, ferendone più di 200, 4.000 persone si presentarono il giorno successivo a rafforzare la dimostrazione. La brutalità della polizia, mobilitò anche membri del Parlamento giapponese, che si unirono all'azione diretta. Questo non impedì alla polizia di calpestare, prendere a calci e colpire agli occhi i manifestanti, ferendone oltre 700 compresi medici e giornalisti.

Invece di scoraggiarsi, raddoppiarono, migliaia di giapponesi si unirono all'azione di protesta contro la base aerea. Questo è stato il punto di svolta. L'esercito americano annullò il programma di espansione della base.

Chi imparerà per primo dalla storia?

Come dimostrano gli esempi di repressione senza successo raccolti da ogni parte, l’1% degli esecutori, così come gli attivisti, stanno cercando di capire questo mondo capovolto e la visione che rapresenta. Che fine ha fatto il detto di Mao che - il potere politico nasce dalla canna di una pistola? - Quella vecchia ipotesi diffusa che è ancora parte della cultura popolare, e di tutto lo spettro politico, dalla vecchia sinistra fino al Presidente Obama e alla destra oltranzista. Tuttavia, alcuni detentori del potere statale riflettono su questo tema.

Ho notato che già in alcune città degli Stati Uniti non è facile per gli attivisti farsi arrestare dalla polizia che attua strategie sempre più sofisticate. Come disorientarli! Invece di sviluppare tattiche più creative o escalando il conflitto ad un nuovo livello, però, alcuni attivisti semplicemente ricorrono a cose folli per costringere gli arresti – anche come sembrare pazzi.

Ma la storia è piena di esempi da cui possiamo imparare, di come i movimenti hanno mantenuto la loro attenzione e combattuto attraverso la repressione violenta fino alla vittoria. Su ogni lato, i diversi attori – sia i responsabili della giustizia incaricati di fermare gli attivisti, sia quelli di noi che costruiscono quei movimenti - hanno l'opportunità di imparare dalla storia dei popoli in lotta. Vedremo chi impara di più.


http://wagingnonviolence.org
May 14, 2013

Violent repression can’t stop us — anywhere in the world
By George Lakey

The script handed down by conventional wisdom is fairly clear: When a few people stand up to protest against an injustice, and police or soldiers hurt or kill them, the movement is crushed. Violence stops nonviolent protest, right?

Then again, many of us have witnessed the opposite: Violence can often spur the movement to become larger and more powerful.

It’s not fully clear why violent repression can have such different outcomes. One possible explanation might be that a small amount of violence stimulates movement growth and a large amount shuts it down — but that’s simply not true. Some nonviolent movements thrive when experiencing heavy repressive violence and others subside in the face of a small amount.

Yes, there are plenty of times when violence does shut down a movement. But the more cases that are published in the Global Nonviolent Action Database (almost 800 now), the more examples we see of repression propelling the movement to victory.

People in the United States are most likely to know about the civil rights campaigns that flourished in the face of violence, like in Birmingham, Ala., in 1963, one of the database’s 50-plus civil rights struggles. But before the 1950s and 1960s there were intuitively brilliant strategists who saw through conventional wisdom.

Researchers are seeking to understand what enables movements not only to withstand violent repression but to use it for their own growth and power. Australian scholar Brian Martin calls repression that doesn’t work “backfire,” while Lee Smithey and Les Kurtz call it “the paradox of repression.” In my book Toward a Living Revolution, I identify things activists can do to make repression boomerang against those trying to stop us.

Many countries, many cultures

What strikes me when I read the database is how widespread this phenomenon is. It shows up in many countries, in diverse decades, in movements led by farmers and students, workers and professionals. Here is a sample of them, from across continents.

In St. Petersburg, the Cossacks’ massacre of nonviolent peasants petitioning the czar in 1905 famously set off a nationwide nonviolent insurrection. The protests laid the groundwork for the overthrow of the czar in 1917.

The 2010 attempt by the Quebec government to quell the students’ campaign to stop tuition hikes resulted in a province-wide battle that mobilized non-students, including the labor movement. The students won.

In 1952 the South African government hit a small nonviolent anti-apartheid campaign with arrests, beatings and shootings, which quickly increased the size of the movement and mobilized its white allies.

In Bangladesh in 1987 the dictatorship ended up killing many but was unable to stop a pro-democracy campaign. When the government closed the universities to deprive students of their organizing base, more students joined the movement. Lawyers and doctors joined the workers already in the streets. The opposition movement mushroomed, and by 1990 police were refusing to fire on the unarmed crowds. The regime fell.

A similar story played out in Iran in the 1977 campaign against the shah, who led one of the most powerful military forces in the world as well as a hated secret police corp skilled in torture. The campaign began on a small scale with students. Police killed two theology students in a demonstration. That’s when the movement should have shut down in fear. Instead, far more people joined, including non-students. Dramatically, the rhythm of the campaign became driven by 40-day cycles in which mosque services honored the increasing numbers of the dead. Killings and torture propelled the nonviolent protests on ever-larger scales until even the oil workers — the “aristocracy” of the labor force — went on strike.

The shah, still hoping that violence would prove more powerful than nonviolent force, ordered his generals to escalate, resulting in “Black Friday,” when helicopter gunships hovered above unarmed Iranians packed into Tehran city squares, raining bullets upon them. In the glare of global publicity of the bloodbath, President Jimmy Carter issued a statement backing the shah, but inside Iran the repression was the tipping point. Some commanders were still willing to roll their tanks over demonstrators in the streets, but the soldiers became visibly less willing to keep shooting the people. The shah had no alternative but to go into exile.

Guatemala’s dictator Jorge Ubico openly admired Hitler, and he proved it when his long-established military rule was challenged in 1944. When women formed a silent, peaceful march, soldiers fired on them, killing schoolteacher Maria Chincilla Recinos, who became the campaign’s first martyr. Workers and middle class people brought the capitol city to a standstill. The movement’s nonviolent character was underlined with the slogan “Brazos Caidos” (Arms at Our Sides); Ubico was finished.

Last year in China a high school student-led campaign shut down a copper plant in Sichuan province that was poised to pollute the city of Shifang. The first demonstrations were repressed: Police beat up the students, used tear gas and stun grenades, and shot at them. Each demonstration grew in numbers, and soon tens of thousands of people arrived at the site of the demonstrations. Faced with a situation spiraling out of control, the government gave in and agreed not to finish building the factory.

In Japan the Sunagawa farmers took the leadership in 1956 to defeat the planned expansion of a U.S. military base. When police beat villagers with clubs, injuring over 200 of them, 4,000 people showed up the next day to reinforce the demonstration. The police brutality mobilized even members of the Japanese Parliament, who joined the direct action. This did not prevent the police from trampling, kicking and poking at the eyes of demonstrators, injuring over 700 including medics and reporters.

Instead of being deterred by the brutality, thousands more Japanese joined the action at the air base, doubling the number. That was the tipping point. The U.S. military canceled the expansion program.

Which side will learn from history first?

As the examples of unsuccessful repression pile up from all over, the 1 percent’s enforcers as well as activists are trying to understand the upside-down world coming into view. Whatever happened to Mao’s dictum that “political power grows from the barrel of a gun?” That old assumption is still believed widely in popular culture, and across the political spectrum, from the Very Old Left to President Obama to the right wing. However, some thoughtful wielders of state power are questioning it.

I notice that already in some cities in the United States it’s not easy for activists to get arrested by increasingly sophisticated police forces. How disorienting! Rather than developing more creative tactics or escalating the conflict to a new level, though, some activists simply resort to crazy stuff to force arrests — and make themselves look, well, crazy.

But history is full of examples we can learn from of how movements have kept their focus and fought through violent repression to victory. Each side — those responsible for stopping movements for justice and those of us building those movements — has an opportunity to learn from the rapidly-growing people’s history of struggle. We’ll see who learns the most.

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