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http://wagingnonviolence.org/
October 31, 2013

Può funzionare il peacekeeping non armato in Siria? Ha funzionato in Sud Sudan
di Stephanie Van Hook

Negli ultimi mesi ci sono state molte discussioni sulle alternative alla guerra e all'intervento militare armato alla luce della crisi in corso in Siria. Coloro che si oppongono all’uso della forza militare hanno fatto proposte alternative che includono il lavoro e il mantenimento di un corpo civile di pace disarmato. Per capire meglio che cosa questo possa significare, ho parlato con due peacekeepers, civili disarmati che lavorano con l'organizzazione Nonviolent Peaceforce, Lisa Fuller e Tiffany Easthom.

Fuller è una team leader di settore per la Nonviolent Peaceforce. Il suo lavoro come inerme peacekeeper civile l'ha portata in Sri Lanka e, più di recente ad Abyei, l'area compresa tra il Sudan e il Sud Sudan, nello stato di Jonglei in Sud Sudan. Attualmente sta lavorando ad un progetto di raccolta fondi per esplorare l'invio di caschi blu disarmati in Siria. Easthom è Direttore Nazionale del progetto Nonviolent Peaceforce Sud Sudan.

Per cominciare, ci raccontaci di Nonviolent Peaceforce e cosa fai.

LF : Nonviolent Peaceforce è un'organizzazione umanitaria internazionale che è stata avviato nel 2002 con l'idea che ci fosse un'alternativa tra il non fare nulla o andare in guerra. Abbiamo iniziato in Sri Lanka, con l'idea che la presenza internazionale sarebbe stata un modo per scoraggiare la violenza e per proteggere i civili che si trovavano in pericolo. Nello Sri Lanka, c’era una guerra civile che durava da 26 anni, ma ad entrambe le parti importava molto dell’opinione internazionale. Quindi, se ci fosse un civile o una comunità in pericolo, e se avessimo messo gli internazionali accanto a quelle persone, esse sarebbero state generalmente sicuro, perché nessuna delle due parti voleva essere accusato di aver attaccato degli internazionali.

Da dove provengono gli internazionali?

LF : Noi cerchiamo di avere un insieme di forze di pace differenziate il più possibile possibile. vengono letteralmente da tutto il mondo, dai sei continenti. Io lavoro con persone provenienti da Africa, Asia, Sud America e dall’Europa, nonché con persone provenienti dal Nord America.

Senza la protezione delle armi, come si fa a stare al sicuro?

LF : Non andiamo in qualsiasi paese per iniziare un nuovo progetto a meno che non abbiamo ricevuto un invito da un'organizzazione della società civile. Questo ci fornisce le basi per entrare nel paese. Per quanto riguarda l'apertura di diversi campi in diverse comunità, facciamo una valutazione in anticipo. Ci incontriamo con tutti i soggetti coinvolti. Spieghiamo loro chi siamo, chiediamo se credono che potremmo essere utili o di valore e se ci vogliono lì. Ed è solo se confermano le loro richieste, e se pensiamo di poterle affrontare, che entriamo nel contesto del conflitto. L’accettazione da parte della comunità garantisce la sicurezza. Ma per essere in grado di lavorare, abbiamo bisogno di farci conoscere da tutti gli attori coinvolti o colpiti dal conflitto. Non ci devono piacere necessariamente, ma loro devono accettare il nostro lavoro, vederci noi con rispetto e capire che stiamo apportando qualcosa di prezioso.

Nella mia esperienza, la maggior quasi tutti fanno come noi. Nonostante il fatto che noi non siamo di parte, mi sento più sicura a lavorare per Nonviolent Peaceforce di quanto, credo, mi sentirei con alcune altre organizzazioni.

Di recente ho lavorato in Abyei, un territorio conteso tra il Sudan e il Sud Sudan. E c'erano zone in cui nessun'altra organizzazione internazionale avrebbe voluto andare perché quando l’hanno fatto hanno ricevuto minacce. Noi non abbiamo mai ricevuto minacce, ed è perché avevamo fatto il lungo e faticoso lavoro di costruzione delle relazioni con gli attori sul campo. Quei rapporti hanno fornito la base per permetterci di essere abbastanza sicuri di andare dove volevamo andare.

Perché Nonviolent Peaceforce è in Sud Sudan e ad Abyei?

LF : Il Sud Sudan è il nuovo paese del mondo. E' diventato indipendente nel gennaio 2011, dopo oltre 50 anni di guerra civile. La stragrande maggioranza della popolazione ha valutato questo come una grande vittoria, qualcosa che avevano desiderato per lungo tempo. Ma dopo che l'indipendenza è stata acquisita, le divisioni interne sono emerse sempre più evidenti. Nel Sud Sudan ci sono 64 tribù, e tutti hanno culture uniche e linguaggi unici. Anche se ci sono state divisioni e conflitti tra di loro in passato, le tribù generalmente le hanno messo da parte per combattere uniti contro il comune nemico, il Sudan. Ma una volta che il nemico comune è scomparso, hanno iniziato a concentrarsi sulle differenze tra loro, e sono scoppiate le violenze inter-tribali. E' difficile descrivere un conflitto in particolare, perché il fatto triste è che, in una forma o nell'altra, la maggior parte di quelle tribù sono ora in conflitto tra loro. Perché il governo è così nuovo e il paese è grande, ci sono luoghi così impervi in cui stato di diritto non è davvero disponibile, e questo consente ai conflitti armati di continuare.

Puoi descrivere il coinvolgimento delle donne nelle comunità in cui hai lavorato?

LF : Non sono coinvolte come combattenti effettivi. Non ho mai sentito di una donna con un arma o che abbia attaccato qualcuno. Esse sono principalmente le vittime, soprattutto nelle zone dove il conflitto è diventato particolarmente acuto. A volte le donne e i bambini sono presi di mira come tattica di guerra. Ma non sono mai quelli che fanno i combattimenti.

Abbiamo 10 squadre in campo in Sud Sudan, che fanno lavori diversi. Ci sono stati alcuni team che hanno creato squadre di peacekeeping tra le donne separate. Nella mia squadra abbiamo lavorato a stretto contatto con un leader donna nella nostra zona. Una delle cose che abbiamo fatto, quando i civili sono stati presi di mira, era quello di organizzare incontri sulla sicurezza, in modo che la comunità potesse incontrarsi con i diversi attori della sicurezza, come forze di pace delle Nazioni Unite e di polizia e militari, per raccontare i loro problemi di sicurezza. In questo modo gli attori della sicurezza sul campo, potevano quindi adattare le proprie strategie per mettere i civili al sicuro.

Ai primi due incontri sulla sicurezza nessuna donna si presentò. C’erano solo uomini. Così abbiamo parlato con un capo donna. Le abbiamo chiesto se potevamo avere una riunione di sicurezza in particolare per le donne. Le abbiamo chiesto se c'era qualcosa che potevamo fare per aiutare a organizzare questo incontro. Ci disse “non preoccupatevi, basta presentarsi in questo giorno in questo momento”, lo abbiamo fatto. Quasi ogni donna di quella comunità si presentò alla riunione, erano perfino più degli uomini che si presentarono. E' stato un incontro di notevole successo. Le donne hanno detto che questa era la prima volta in assoluto che avessero ottenuto di parlare insieme con un attore della sicurezza della loro sicurezza. Anche i militari e la polizia confermarono che era la prima volta che avessero mai parlato con le donne circa la loro sicurezza, e hanno scoperto molto di più su ciò che era necessario in quelle comunità, perché sono le donne che trascorrono più tempo in casa. Sanno cosa le minacce sono meglio degli uomini che vanno fuori in diverse aree per il lavoro. Queste riunioni di sicurezza, in combinazione con altre strategie che abbiamo sviluppato con il capo locale e la donna leader, erano notevolmente efficaci. L'incidenza di stupro e violenze sessuali, e anche di tutti gli altri tipi di violenza, sono stati completamente eliminati dalla zona, non appena sono state attuate le strategie. L'impatto è stato confermato sia dai consulenti di polizia delle Nazioni Unite che della polizia locale, così come dalla stessa comunità.

Come fa un corpo civile di peacekeeping a ripristinare le relazioni tra gli attori di un conflitto locale?

LF : Abyei è probabilmente il miglior esempio. In questa zona le tribù nomadi e i Dinka sono in conflitto da sempre. Quando si parla di loro, è come se queste due tribù abbiano sempre lottato tra loro e non hanno nulla in comune, e non c'è speranza di pace. Ma se effettivamente si parla con la gente vi diranno il contrario. Vi diranno: "Ho conosciuto queste persone per tutta la mia vita. Ogni anno ci sediamo a prendere un tè e a farci visita l’un l'altro, e l'unica volta che questo viene impedito è quando c'è una conflitto più grande intorno a noi, in cui le persone sono troppo imbarazzate per vedersi l'un l'altra o troppo spaventate per vedersi l'un l'altro. Ma in realtà, alla fine, vogliamo solo sederci e prendere un tè o un caffè insieme".

Dal momento in cui entrambi questi gruppi hanno avuto fiducia in noi, sono stati in grado di sedersi e bere un caffè se anche noi eravamo lì. A volte era sufficiente. In una piccola comunità di nomadi, lo stare insieme dava loro la consapevolezza che si trattava di persone che avrebbero conosciuto per tutta la loro vita, per cui si sono resi conto non c'era motivo di difendersi da loro.

Come ci si avvicina al conflitto in modo diverso rispetto ad altre forme di intervento internazionale? E il conflitto in Siria, per esempio?

TE : E' davvero importante illustrare la complessità del conflitto in generale, e in particolare di un conflitto come quello dentro ed intorno alla Siria. Quelli al di fuori tendono a vedere la questione come una cosa, del tipo il governo contro i ribelli. Ciò che è importante sottolineare è che in ogni conflitto ci sono più livelli. Una guerra crea le condizioni per cui la violenza sorge in modo opportunistico; rancori di vecchia data emergono durante la confusione e vengono coperti dalla guerra, e poi lo spostamento degli sfollati crea vulnerabilità enormi per la popolazione civile. Ci sono anche gli accordi di pace e il cessate il fuoco in piccole comunità su tutto il territorio del conflitto che non raggiungono mai veramente il grande pubblico, e questi fatti sono spesso il modo più efficace per realizzare una maggiore sicurezza per i civili che sono in attesa di una soluzione politica. Sulla base dell'esperienza precedente, la Siria è una zona dove Nonviolent Peaceforce potrebbe essere molto efficace.

Pensi che un corpo disarmato di peacekeeping civile possa essere limitato in alcun modo?

LF : Assolutamente si, ci sono dei limiti. Ci sono luoghi in cui civili disarmati riescono ad essere efficaci e ci sono posti dove, probabilmente, non sarebbero al sicuro ne efficaci. Nonviolent Peaceforce dispone di 24 criteri che usiamo per analizzare la situazione prima di andare in un paese, per aiutarci a decidere se sia o non sia appropriato e sicuro, e se saremo in grado di proteggere le persone, oppure no. Nel mese di maggio abbiamo iniziato un processo di definizione dell’ambito in Siria. Seguiremo con ulteriori visite nel mese di ottobre e novembre, quando ci incontreremo con potenziali partner e discuteremo e analizzaremo le possibilità.

Nella visita di maggio, ci siamo incontrati con una varietà di persone compresi funzionari governativi, leader religiosi, attivisti nonviolenti, membri dell'Esercito siriano libero, rifugiati, sfollati interni e rappresentanti della Mezzaluna Rossa Araba e siriana, e anche dell’Onu. La maggior parte ha convenuto che un corpo civile disarmato di peacekeeping era necessario, ma non vi era un ampio disaccordo sul quando. Qualcuno ha detto: "Vieni adesso". Altri hanno detto che mandare la gente ora sarebbe un suicidio. La maggior parte ha convenuto che il momento di iniziare l'organizzazione e la formazione è ora.

Quali tipi di attività si svolgerebbroe in Siria se si decidesse di assumere questa missione?

LF : Le attività potrebbero includere gli accompagnatori di persone in pericolo a causa del loro impegno per la pace e il loro lavoro per i diritti umani, o anche la presenza di una protezione in zone di pace circoscritte, come scuole e ospedali. Potremmo essere in grado di lavorare con le comunità nella creazione di meccanismi di allerta e risposta rapida. Inoltre, abbiamo avuto numerose richieste di formazione dei formatori per un corpo civile disarmato di peacekeeping.

Il progetto sembra certamente scoraggiante. Come si fa a superare quella sensazione?

TE : Il conflitto è complicato, e la comunità internazionale diventa spesso così ipnotizzata da questa complessità che l'inazione diventa più comune dell’azione. Ma la realtà è che ci sono sempre punti di ingresso per la riduzione della violenza, se si è disposti a cercarli per farne l'analisi e per scoprirli. Dobbiamo sfondare la falsa dicotomia che le opzioni sono o di non fare nulla o inviare i bombardieri e i missili da crociera. Ci sono sempre delle alternative. Un corpo civile disarmato di peacekeeping può essere una di queste.


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October 31, 2013

Can unarmed peacekeeping work in Syria? It has in South Sudan
By Stephanie Van Hook

Over the past few months there have been many discussions about alternatives to war and armed military intervention in light of the ongoing crisis in Syria. Those opposing military force have made alternative proposals that have included the work of unarmed civilian peacekeeping. In order to better understand what this might mean, I spoke with two unarmed civilian peacekeepers with the organization Nonviolent Peaceforce, Lisa Fuller and Tiffany Easthom.

Fuller is a field team leader for Nonviolent Peaceforce. Her work as an unarmed civilian peacekeeper has taken her to Sri Lanka and, most recently to Abyei, the area between Sudan and South Sudan, and the state of Jonglei in South Sudan. Currently she is working on a fundraising project to explore sending unarmed peacekeepers to Syria. Easthom is country director of the Nonviolent Peaceforce South Sudan project.

To start off, tell us about Nonviolent Peaceforce and what you do.

LF: Nonviolent Peaceforce is an international humanitarian organization that was started in 2002 with the idea that there was an alternative to either doing nothing or going to war. We started in Sri Lanka with the idea that international presence would be a way to deter violence and to protect civilians who were under threat. In Sri Lanka there was a 26-year civil war, but both sides cared very much about international opinion. So if there was a civilian or community under threat, and if you put internationals next to that person or those people, they would generally be safe because neither side wanted to be seen as attacking them.

Where are the internationals from?

LF: We try to have as diverse a collection of peacekeepers as possible. They are literally from all over the world — from six continents. I work with people from Africa, Asia, South America and Europe, as well as with people from North America.

Without the protection of weapons, how do you stay safe?

LF: We won’t go into any country to start a new project unless we have an invitation from a civil society organization. So that provides the basis for entering the country. As far as opening different field sites in different communities, we do an assessment beforehand. We meet all of the parties involved. We explain who we are, we ask them if they think that we would be useful or valuable or if they even want us there. And it’s only if they do, and if we think we can help, that we go in.

Community acceptance keeps you remarkably safe. But in order to be able to work, we need all of the actors involved in or affected by the conflict to know who we are. They don’t necessarily have to like us, but they do have to accept our work, view us with respect and understand that we are adding something valuable. In my experience, most parties do like us, despite the fact that we’re non-partisan. I actually feel safer working for Nonviolent Peaceforce than I think I would working for some other organizations.

Most recently I worked in Abyei, a disputed territory between Sudan and South Sudan. And there were areas where no other international organization would go because when they did they would receive threats. We never received any threats, and it’s because we had done the legwork in terms of building relationships. Those relationships provided the basis to allow us to be secure enough to go where we wanted to go.

Why is the Nonviolent Peaceforce in South Sudan and Abyei?

LF: South Sudan is the world’s newest country. It became independent in January 2011 after over 50 years of civil war. The vast majority of the population assessed this as a huge victory — something that they had wanted for a long time. But after independence was gained, internal divisions became apparent. South Sudan has 64 tribes, and they all have unique cultures and unique languages. Although there were divisions and conflicts among them before, the tribes generally put those aside and united against the common enemy of Sudan. But once that common enemy disappeared, they started to focus on the differences between themselves, and inter-tribal violence broke out. It’s hard to describe one particular conflict, because the sad fact is that most of those tribes are now involved in some conflict in one form or another. Because the government is so new and the country is large, there are places so inaccessible that rule of law really isn’t available, which allows armed conflicts to continue.

Can you describe the involvement of women in communities where you worked?

LF: They’re not involved in terms of being the actual fighters or combatants. I’ve never heard of a woman having a weapon and attacking someone. They are involved mainly as victims, especially in areas where the conflict has gotten particularly acute. Sometimes women and children are targeted as a tactic of war. But they’re never the ones that do the fighting.

We have 10 field teams in South Sudan, and different field teams do different work. There were some teams that created separate women’s peacekeeping teams. On my team  we worked closely with a woman leader in our area. One of the things we did was when civilians were being targeted was to set up security meetings so that the community could meet with different security actors — like U.N. peacekeepers and police and the military — and to tell them about the security situation. Those security actors could then adapt their strategies to make those civilians safe.

At the first two security meetings we had no women showed up. It was only men. So we spoke to a woman leader. We asked her if we could have a security meeting for women specifically. We asked her if there was anything we could do to help her organize that. She said don’t worry, just show up at this day on this time, and we did. She had almost every single woman in that community at that meeting, which was more than a number of men who would show up. It was a remarkably successful meeting.

The women said this was the first time they had ever gotten together to talk to a security actor about their security. Even the military and police said it was the first time they’d ever talked to women about their security, and they found out so much more about what was needed in those communities, because it’s the women who spend more time at home. They know what the threats are better than the men who go off to different areas for work. These security meetings, in combination with other strategies that we developed with the local chief and the leading woman, were remarkably effective. The incidences of rape and sexual assault, and actually of all other types of violence, were completely eliminated from the area as soon as the strategies were implemented. This impact was confirmed both by police and U.N. police advisors, as well as by the community itself.

How does unarmed civilian peacekeeping restore relationships among actors in a local conflict?

LF: Abyei is probably the best example. In this area the nomadic tribes and the Dinka are often in conflict. When people talk about them now, it’s as if these are two tribes that have always fought and have nothing in common, and there’s no hope for making peace. But if you actually talk to the people on the ground they’ll tell you the opposite. They’ll tell you, “I’ve known these people my entire life. Every year we sit down and have tea and visit with each other, and the only time this stops is when there’s a greater conflict around us in which people are too embarrassed to see each other or too scared to see each other. But really, in the end, we just want to sit down and have tea or coffee together.”

Since both of those groups trusted us, they were able to sit down and drink coffee if we were there. Sometimes that was enough. In a small community, for the community and the nomads to get together and realize that these were people they’d known all their lives, they realized there was no reason to defend themselves at all.

How do you approach the conflict differently than other forms of international intervention do? What about the conflict in Syria, for example?

TE: It is really important to illustrate the complexity of conflict in general and particularly a conflict like the one in and around Syria. Those on the outside tend to see the issue as one thing — the government against the rebels. What is important to highlight that in every conflict there are multiple layers. A war creates conditions whereby opportunistic violence arises; long-standing grudges are meted out during the confusion and cover of war, and displacement creates massive vulnerabilities for civilians. There are also peace and ceasefire agreements in communities throughout the conflict that are never really noticed by the general public, and these are often the most effective ways of bringing about increased security for civilians who are waiting for a political solution. Based on previous experience, this is an area where Nonviolent Peaceforce could be quite effective.

Do you think that unarmed civilian peacekeeping is limited in any ways? 

LF: Absolutely there are limits. There are places that unarmed civilian peacekeeping is effective and there are places that it probably wouldn’t be safe or effective. Nonviolent Peaceforce has 24 criteria that we analyze before going into a country to help us decide whether or not it is appropriate and safe, and whether or not we will be able to protect people. In May we began a scoping process in Syria. We will follow that up with additional visits in October and November, when we will meet with potential partners and discuss and analyze possibilities.

We met with a variety of people on the visit in May including government officials, religious leaders, nonviolent activists, members of the Free Syrian Army, refugees, internally displaced people and representatives from the U.N. and Syrian Arab Red Crescent. Most agreed that unarmed civilian peacekeeping was needed but there was wide disagreement as to when. Some people said, “Come now.” Others said to send people now would be suicide. Most agreed that the time to start organizing and training is now.

What kinds of activities would you carry out in Syria if you decide to take on this mission?

LF: Activities could include accompanying people under threat because of their peace and human rights work or providing a protective presence in zones of peace, schools or hospitals. We might be able to work with communities in setting up early warning and early response mechanisms. Also, we have had numerous requests for training of trainers in unarmed civilian peacekeeping.

The project certainly seems daunting. How do you overcome that feeling?

TE: Conflict is complicated, and the international community often becomes so hypnotized by this complexity that inaction becomes more common than action. But the reality is that there are always entry points for violence reduction if you are willing to look for them and do the analysis to see them. We must break through the false dichotomy that the options are either to do nothing or to send in the bombers and cruise missiles. There are always alternatives. Unarmed civilian peacekeeping may be one of them.

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