12 settembre 2013

Il Martirio e il Sabotaggio
di Alfonso Navarra
obiettore alle spese militari e nucleari

Ha scritto con grande ed azzeccata ironia Jacques Prévert: “Non bisogna lasciare giocare gli intellettuali con i fiammiferi (…) Se lo si lascia solo/Il mondo mentale/Mente/Monumentalmente”.

Ho infatti la sensazione nettissima che certi intellettuali farebbero molto meglio a darsi una calmata nelle loro esternazioni dalle venature dannunziane, allo stesso modo che i movimenti di lotta dovrebbero dimostrare la maturità di non ricorrere al facile e comodo fascino della sirena mediatica. Alla fine - se scatta il meccanismo "apriamo il dibattito tra scrittori e filosofi (e giornalisti)" - nell’agone mediatico verrà – dovremmo esserne consapevoli - sempre fatto parlare il personaggio noto al posto nostro - organizzazione di base - e non è quello che - mi pare - dovremmo volere, cioè che qualcuno, per quanto famoso, parli al nostro posto in qualsiasi posto, anche se si dichiara a nostro favore. Perché il tritacarne dei media assocerà per sua stessa struttura ideologica e conformazione di apparato - al di là delle intenzioni del singolo protagonista e giornalista - contenuti e problemi reali e seri alle “strane pensate” dell'artista folkroristico di turno, cui la follia e l’eccesso vengono alla fine perdonati.

Per entrare nel merito dei sabotaggi in Valle di Susa,


che tante polemiche stanno suscitando anche per l’intervento dei vari Vattimo, De Luca, Cacciari, etc, penso che, nonostante cotanti illustri pareri, sarebbe meglio, comunicativamente e politicamente, ascrivere il sabotaggio mirato sulle cose alla nonviolenza pragmatica e non alla violenza necessaria.

Il taglio delle reti è quindi da considerare non violenza ma azione diretta nonviolenta; ma anche lo spargere chiodi sulle strade per forare gomme o il mettere zucchero nei serbatoi dei camion che lavorano al cantiere (quando sia garantita l’incolumità degli autisti)...

Naturalmente dietro la forma (“loro”, sia i pro che i contro, parlano di violenza e non di nonviolenza) c'è, in modo molto significativo, la sostanza.

Ma sarebbe meglio – chiamare in causa la nonviolenza al posto della violenza - a patto che nella lotta NO-TAV in questione siano garantite delle condizioni in buona parte attualmente assenti.

Una strategia nonviolenta per un movimento popolare  (traduco: una unità popolare che si conduce e gestisce con intelligenza) pianifica e coordina unitariamente tutte le azioni che vengono portate avanti nel corso di una resistenza o di una campagna; quindi le rivendica apertamente perché si assume ogni responsabilità in modo convinto e ragionato per quello che fa.

Pertanto non esiste il discorso che sentiamo ripetere da certi leader di movimento: "non so chi abbia fatto ciò (= non siamo stati “noi”, intesi non come soggetto penale bensì come soggetto politico collettivo) - ad es. sabotare delle betoniere-, ma lo comprendo, ed in ogni caso questa violenza è nulla rispetto alla violenza del potere"...
E' inoltre triste che di una qualche azione si debba dire: "forse è nostra - maturata nel nostro ambito, ma forse è stata una provocazione della ditta che incassa una cospicua assicurazione"...
La strategia nonviolenta - sinonimo di unità popolare con direzione intelligente, ripeto - richiede una organizzazione seria, disciplinata, che conosce e controlla quello che fa, e sa inserire le forme dure, azioni dirette anche riservate compiute da gruppi selezionati, e persino da singoli coraggiosi, nelle più articolate forme di disobbedienza civile diffusa e massiva, alla fine molto più efficaci e determinanti (vuoi mettere uno sciopero fiscale generalizzato?), sapendo anche programmare una escalation dei mezzi.
Se questo non c'è - se c'è invece un peso eccessivo dello spontaneismo che si affida a gruppi che fanno quello che gli va quando capita - l'esperienza di tante lotte passate insegna che la china è aperta e quasi fatale verso la degenerazione e verso la strumentalizzazione da parte dei provocatori al servizio del potere.
Succede di solito, nelle situazioni confuse e senza direzione, che i piccoli gruppi disperati “alzano il tiro” nel vuoto di masse che si passivizzano sempre più, perché è proprio più intelligente, in questi casi, da parte delle persone comuni, sottrarsi alla spirale repressiva.


Un esempio recentissimo di quanto detto è proprio la degenerazione della prima protesta democratica in Siria, che - non valutando bene la risposta repressiva del regime (bisognava evitare di creare occasioni che offrissero carne per massacri!) - ha cominciato a chiedere un sostegno non meditato alla protezione armata di gruppi esterni - fino a venire subissata e cancellata da questi ultimi. A proposito la situazione siriana, è vero che la conosco molto superficialmente, ma credo tuttavia abbastanza da poter affermare che non esista lì nessun Gandhi collettivo che goda della fiducia della maggioranza della popolazione. In questa situazione ritengo a maggior ragione che la strategia nonviolenta (l'intelligenza, il buon senso popolari!) abbia ben altro da fare che non "condividere la situazione dei bombardandi".

La mia scarsa conoscenza storica e fantasia mi porta, in proposito, ad avanzare le seguenti domande. Visto che qualcuno ci propone di fare lo “scudo umano”, immagino solo contro eventuali raid USA, quali persone dovremmo proteggere interponendo il nostro corpo?

Forse i soldati delle basi siriane controllate da Assad, violando tra l’altro una convenzione internazionale che proibisce la pratica dell'utilizzo di civili a protezione di obiettivi militari? Forse i burocrati dei Palazzi del regime?  O la gente che vive a ridosso di queste basi, o impianti, o centri o palazzi? Ed in quale città o località? E come ci si occuperebbe degli altri “ora e sempre bombardati” anche adesso? O non rientrerebbero tra le nostre preoccupazioni?

Mi sembra francamente, per quanti sforzi di comprensione faccia, e proprio pensando alle mie stesse "sparate mediatiche" del 1990 sull'Iraq (lanciai con Francesca Piatti un appello per fare gli “scudi umani” contro l’incombente l’intervento americano), per fortuna poi evolutesi, grazie ad Alberto L'Abate e Silvano Tartarini, nel prezioso lavoro dei "Volontari di Pace in Medio Oriente", un discorso demagogico e senza senso, se lo scopo è quello di “testimoniare contro il flagello della guerra”;  una idea che, nella migliore delle ipotesi, mi pare solo frutto di romantici esaltati alla ricerca del gesto bello ed eroico (nel racconto, non nella vita vera).

Il loro paradossale destino comunque non è quello di essere presi sul serio, se guardiamo alle esperienze passate: vengono di solito utilizzati come “utile idioti” per la propaganda del regime che, volta per volta, vanno generosamente a difendere. Si veda questo resoconto sull’esperienza a Bagdad del 2003, a firma di Blanche Petrich e tradotto dal Comitato Chiapas di Torino: “Iraq: ultimatum agli scudi umani. O proteggono i bersagli designati dalle autorità o devono andarsene dal paese”. (Vai alla URL: http://www.ipsnet.it/chiapas/2003/020303j1.htm).

Lo “scudo umano”, che di fatto offre la sua vita in cambio di quella di Assad e dei suoi collaboratori, con ogni probabilità non darà una bella immagine del “pacifismo”; almeno, vivrà una esperienza umana autentica dal punto di vista soggettivo, troverà finalmente sé stesso? Boh! Chi vivrà vedrà!

“Condividere la condizione di, fare la parte di qualcun altro”, e non la propria “nel modo giusto”, mi pare, direi oggi a differenza che nel 1990, una “trovata” che, a conti fatti, ha contribuito parecchio a rovinare l’umanità. Mi vengono in mente alcuni esempi. Ma veramente si crede che dormire una notte per strada in agosto renda la condizione del “barbone”? O, da padrone, passare qualche settimana alla catena di montaggio ti renda più operaio? O, fare il giornalista su un fronte, con il sogno di imitare John Reed, ti faccia entrare nello spirito di una guerra tra gruppi umani che si odiano?

Dobbiamo fare i conti innanzitutto con noi stessi, cioè anche con la causalità sociale che è parte essenziale di noi, e da cui sarebbe bene che partissimo, per andare poi oltre, senza però tentare di fingerci qualcun altro, sfuggendo di fatto alle nostre responsabilità. Vuoi diventare “proletario”? non basta che ti vesti di stracci per un po’, devi evangelicamente vendere i tuoi averi e metterli tutti nella causa della rivoluzione, se ci credi. Ma tu non ci credi. Come, alla resa dei conti, - l’ho dovuto constatare - non ci credeva l’aristocrazia palermitana che, nel 1970, udite udite, fondò “Avanguardia Operaia” a Palermo!

Ma lasciamo perdere questo tasto e torniamo al punto. Il “nonviolento” (la persona tendenzialmente pacifica, di buona volontà e di buon senso che lotta per la vita promuovendo la vita) è pronto a rischiare di persona ai massimi livelli, ma i pericoli non se li va certamente a cercare con l'obiettivo e nella speranza (insensata) del martirio.

Lo stesso concetto cattolico di “martirio”, imperniato sull’esempio di Cristo che si immola per salvare l’umanità, è in via di revisione nella direzione che sto indicando (e che, ovviamente, si staglia con massiccia evidenza a prescindere dal mio modestissimo dito). Si veda quanto scrive in proposito (e sono convinto che anticipi sviluppi ufficiali) Leonardo Boff, il teologo della liberazione: “Gesù non cercò la morte, né essa fu desiderata dal Padre. Gesù voleva vivere e si aspettava la realizzazione del suo sogno, il Regno. Ciò che il Padre voleva non era la morte del Figlio, perché Dio non è crudele, ma la sua fedeltà, che poteva comportare la morte violenta. Tra lacrime, angosce e grida di disperazione, Gesù mantenne fino alla fine la fedeltà a sé stesso, al sogno, agli uomini e donne umiliati e offesi e al Padre. Pur amando la vita, dovette consegnarla e accettare la morte, caratterizzata come un'esecuzione giudiziale…”("Ecco il mio cristianesimo", di Leonardo Boff, in “Il Sole 24 Ore” dell' 8 settembre 2013).

Ovviamente, proprio come il Cristo, di solito questo tipo di “nonviolento”, animato da sereno spirito di giustizia ed anche, diciamolo, da amore per l'umanità, finisce “disgraziatamente” ammazzato: ma non per responsabilità di sue scelte stupide. La sua morte “scandalosa” diventa, nelle circostanze "inevitabili" per le quali si verifica, denuncia e condanna inappellabile per la crudeltà e stupidità della violenza che lavora per il Potere (o per il contro-Potere che aspira a sostituirsi ad esso)...

Il digiuno gandhiano non era "sciopero della fame". Non voleva dire ricattatoriamente: "O fate questo o mi uccido".  Tante cose di Gandhi non mi convincono, non ho santini da appendere al muro, ma diamo al Mahatma quello che era del Mahatma!

Il suo messaggio era: "Non riesco a sopravvivere in un mondo in cui vedo accadere queste vergogne. Voglio che la mia meditazione sia contagiosa, che tutti riflettiamo su di esse - vergogne- e che da questa meditazione nasca l'astensione a commetterle".

Credete che quella di Gandhi sia solo una forma più ipocrita per ribadire la stessa sostanza ricattatoria? Io non lo penso. Proprio perché ragiono su come certo esporsi al martirio, al pari di certe pratiche di sabotaggio, sia inscindibilmente legato a disperazione, delirio, debolezza ed incapacità di guardare a reali movimenti collettivi.

Pensare al sabotaggio come forma di violenza (deve essere invece eventualmente incardinato come strumento della nonviolenza) è la negazione, non la prosecuzione dell’impegno partecipativo e della presa di coscienza. Né, allo stesso modo, la messa in gioco pura e semplice dei corpi fisici può sostituire una strategia politica che, parliamoci chiaro, non c’è.

Qui rinvio, ad esempio, ma non si tratta solo di questo, ai miei interventi da “Grillo parlante” per mettere in guardia dal non riproporre per la Siria lo stesso schema della Libia. Mi sembra che da questo abbaglio tantissimi non siano ancora guariti, ed è tutto dire! Mi ripropongo di tornarci su. Con un ultimo invito: non parliamo più di una unica Siria, per favore, ormai le Sirie sono almeno tre…

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