Ansa
6 luglio 2013
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7 luglio 2013

Ricomporre le realtà siriane. Dall’interno è possibile
di Lorenzo Trombetta

Non si erano mai visti e parlati prima, nemmeno via Skype. Eppure sembrano parte di un gruppo affiato di giovani attivisti, provenienti da quasi tutte le regioni siriane e intenzionati, in modo concreto e lontani dalle ideologie politiche, a rimettere insieme i pezzi del loro Paese precipitato nel pozzo nero di una guerra intestina sempre più ostaggio di equilibri regionali e internazionali.

A Gaziantep, principale centro della Turchia meridionale nel settore centrale della frontiera con la Siria, circa venti siriani, con età compresa tra i 25 e i 38 anni, hanno superato zone disastrate dalla guerra, numerosi posti di blocco di milizie e almeno un confine internazionale per partecipare a tre giorni di incontri incentrati sul tema della riorganizzazione di piattaforme di società civile e della riconciliazione interna.

Ospiti di programmi finanziati da donatori europei, i membri di questo primo nucleo di attivisti già lavorano da tempo ciascuno nel proprio territorio di provenienza: fornendo aiuto umanitario agli sfollati; promuovendo campagne per la denuncia e la documentazione di violazioni dei diritti umani; sostenendo la nascita e la crescita di media locali indipendenti, inesistenti durante il mezzo secolo di dominio del regime baatista, da 42 anni impersonificato nella famiglia presidenziale degli Assad.

“Sono arrivata stanchissima qui a Gaziantep. Una stanchezza non fisica ma mentale. E’ difficile mantenersi ottimisti mentre assisti ogni giorno all’aggravarsi della situazione”, confessa Nohad, 27enne, damascena, con una tesi di dottorato in fisica che aspetta solo di esser discussa. “L’ho finita più di due anni fa… ma poi tutto si è fermato”.

Nella primavera del 2011, inedite manifestazioni popolari anti-regime, scoppiate sull’onda delle altre proteste delle capitali arabe, furono represse nel sangue dagli Assad, scatenando col passare dei mesi una rivolta che si è via via armata. E che è degenerata in una guerra interna dove diversi attori regionali svolgono un ruolo da protagonisti. “Il mio lavoro a Damasco è di portare sostegno ai bambini dei sobborghi colpiti ogni giorno dai bombardamenti aerei del regime. Ma a volte vengo ostacolata dagli stessi ribelli, sempre più integralisti, che si lamentano perché non indosso un foulard che copre maggiormente il volto”, racconta Nohad.

“Più passa il tempo e più la situazione si radicalizza”, commenta Jaber, 36 anni, di Raqqa, nel nord, l’unico capoluogo di regione a esser stato completamente evacuato dalle forze del regime. “E’ vero, siamo liberi, ma i media occidentali parlano di Raqqa solo in relazione alla presenza della Jabhat an Nusra”, afferma riferendosi al gruppo qaedista inserito, sia da Damasco che da Washington, nella lista dei gruppi terroristici.

“A Raqqa noi attivisti non violenti ora siamo liberi di esprimere il nostro dissenso contro la Nusra e ci confrontiamo con loro. E’ un passo in avanti enorme”, afferma Jaber. A Gaziantep, con i suoi compagni di Aleppo, Swueida, Daraa, Hama e Qamishli Jaber condivide non solo la critica a un’”Occidente che sa solo parlare”, ma soprattutto l’accusa alle opposizioni in esilio di “non esser capaci di fare altro che incontrarsi all’estero e diramare comunicati”.

Ma non si parla solo di tragedie personali o collettive negli incontri di Gaziantep. Ci si scambiano anche storie di vita quasi normale, di aspirazioni e progetti “per quando potremo ricominciare”. “Soltanto stare assieme ed esserci incontrati è per me una fonte di ottimismo. Mi dà forza”, afferma Rim, 31 anni, della regione di Hama.

“Sono stata arrestata due volte, a Damasco. Sono stata in cella di isolamento per 43 giorni, ma non sono mai stata torturata”, riprende Nohad, dottoranda in fisica. “Era però il 2011. Ora so che anche le ragazze attiviste subiscono tortura. Non ci sono più linee rosse…”. C’è anche chi non ce l’ha fatta a venire a Gaziantep. Un paio di attivisti di Damasco sono stati bloccati perché il loro nome era inserito in una lista di ricercati dai servizi di sicurezza. “Li avrebbero attesi al confine”, spiega Fawzi, 28 anni, redattore di uno dei “quotidiani della rivoluzione” distribuito clandestinamente.

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