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4 Settembre 2013

Un generale scettico per la guerra di Obama
di Guido Moltedo

Il capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey, si oppone da mesi all'intervento in Siria. Toccherà a lui ora guidare il possibile attacco contro Assad

È un mondo alla rovescia a Washington, con un presidente democratico anti-war che si trasforma in falco e che rischia di vedere i suoi artigli spuntati da un Congresso nel quale le colombe sono i repubblicani dell’estrema destra. Ma in questo bizzarro campo di battaglia, dove la posta in gioco è una nuova guerra mediorientale che potrebbe diventare anche un conflitto mondiale, il più clamoroso scambio delle parti vede protagonisti, da un lato, due pluridecorati reduci del Vietnam, un ex-prigioniero di guerra e un ufficiale poi diventato leader pacifista, e, dall’altro, il numero uno delle forze armate statunitensi.

Ed è lui, il generale Martin Dempsey, che con dati, ragionamenti, scenari, grafici, e soprattutto con la forza della sua esperienza sul campo – tra l’altro, quattro durissimi anni a Bagdad –, con la sua indiscussa autorevolezza, cerca di arginare la spinta all’intervento alimentata da due vecchie volpi della politica, che si sono sempre trovati su fronti opposti. Uno democratico, l’altro repubblicano, uno del nordest liberal, l’altro del profondo sud conservatore, ma uniti dalla comune giovinezza in divisa, quando fare il soldato era obbligatorio e finire nell’inferno vietnamita una certezza. Con l’alta probabilità di essere ammazzati o, dopo essere torturati, essere rinchiusi in un’orribile cella vietnamita (il pilota John McCain) o, se si era fortunati, tornare a casa impazziti di dolore e di sensi di colpa, feriti nell’anima e nel corpo (il marinaio John Kerry)

Il generale Martin Dempsey, che ha qualche anno in meno di Kerry e McCain, non aveva l’età per essere arruolato in Vietnam. A quell’epoca era alla Duke University, ottimo ateneo, dove studiava letteratura irlandese e imparava la lingua gaelica in vista di un dottorato, e poi – diversamente da Kerry e McCain, soldati per scelta ma poi passati alla politica – avrebbe indossato l’uniforme per sempre e intrapreso una brillante carriera militare, fino a raggiungere l’apice, diventando nel 2011 chairman of the Joint Chiefs of Staff, il capo di stato maggiore delle forze armate americane. Come molti militari di alto rango, Dempsey ha maturato negli anni una lucida consapevolezza dell’uso della forza, dei suoi limiti e delle sue conseguenze. E come molti suoi colleghi è favorevole a un suo ricorso moderato e motivato e sempre e solo come extrema ratio, diversamente da molti politici che parlano spesso con grande disinvoltura di interventi armati, perché poi non sono loro e i loro uomini ad andare al fronte.

«Dal Vietnam in poi – osserva il politologo Sidney Blumenthal – i militari sono sempre stati una forza di contenimento. Colin Powell rappresenta meglio di tutti questo punto di vista nel periodo storico che va dal Vietnam a oggi». Indubbiamente, la scena di Colin Powell, segretario di stato, che mostra “prove”, che si sarebbero dimostrate fasulle, dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, è stata una ferita di indicibile dolore, mai cicatrizzata, per i militari americani, che allora hanno trovato conferma di quanto possa essere cinico il calcolo di certi politici ansiosi di andare in guerra e di come un soldato come Powell possa essere strumentalizzato a tal fine, fino all’imbroglio. Poi la tragedia irachena, i tanti ragazzi americani caduti, hanno fatto il resto.

Per questo, da allora, gli alti militari hanno iniziato a mettere in chiaro che il loro parere conta e che il loro parere si basa su fatti. In particolare, il predecessore di Dempsey, l’ammiraglio Mike Mullen, è stato un capo militare misurato e cauto nell’uso della forza e, al tempo stesso, senza remore nel rendere pubblico il punto di vista degli alti gradi su questioni che li vedono protagonisti. Sulla scia di Mullen si muove Dempsey, che sulla Siria più volte ha detto la sua, entrando in aperto e ruvido contrasto sia con il senatore McCain sia, in riunioni infuocate nella situation room della Casa Bianca, con John Kerry.

Al pilota McCain che considera i bombardamenti aerei risolutivi, Dempsey oppone la considerazione che la distruzione dell’aviazione siriana darebbe un duro colpo ad Assad, ma non lo metterebbe fuori giuoco. Inoltre, non basterebbe una breve offensiva aerea (peraltro pericolosa per i piloti americani), come pure la Casa Bianca lascia intendere, ma occorrerebbero più giorni, con il conseguente crescente coinvolgimento degli Stati Uniti in un conflitto ancor più complesso e pericoloso di quello iracheno. A Kerry, presente Obama, ha spiegato che ci vorrebbero diverse missioni per neutralizzare il sistema integrato di difesa aerea siriano, un’operazione che richiederebbe almeno 700 sortite.

In una lettera al deputato Eliot Engel, che all’inizio di agosto gli chiede un parere su un eventuale intervento aereo limitato contro Damasco, Dempsey scrive: «Oggi in Siria non si tratta di scegliere tra due parti ma piuttosto tra molte parti. È mia convinzione che la parte che scegliamo debba essere pronta a promuovere i suoi come i nostri interessi nel momento in cui l’equilibrio del potere dovesse pendere a suo favore. Oggi quella parte non c’è».

Dempsey mette in guardia da tempo la Casa Bianca e il Congresso. Nel marzo 2012, di fronte alla commissione difesa del senato, dice: «Non si tratta di chiedersi: possiamo farlo? Ma, dovessimo farlo, quali sarebbero i costi?». Nelle diverse audizioni al Congresso, Dempsey è sempre stato più incline a mettere in evidenza le conseguenze negative di un intervento armato in Siria che i suoi vantaggi. Con grande irritazione di John MCain, che ha fatto di tutto per impedirne la conferma per un secondo incarico, poi ottenuto, lo scorso giugno.

Grande conoscitore del Medio Oriente, Dempsey è assillato dalle conseguenze di un intervento armato non meditato. Al deputato Engel scrive: «Abbiamo imparato dagli ultimi dieci anni che non basta alterare l’equilibrio del potere militare senza un’attenta considerazione di ciò che è necessario al fine di preservare uno stato funzionante. Dobbiamo prevedere ed essere preparati alle conseguenze non volute della nostra azione. Dovessero franare le istituzioni del regime in assenza di un reale opposizione, potremmo inavvertitamente conferire il potere a estremisti o scatenare proprio le armi chimiche che cerchiamo di controllare».

Tutto questo prima del 21 agosto, la giornata dell’eccidio di 1400 persone vicino Damasco con l’impiego del sarin che ha portato all’escalation di questi giorni. Dopo quella data si è perfino parlato di sue possibili dimissioni, in polemica con la decisione di intervenire. Poco fa, in un’audizione alla camera, Dempsey si è trovato nella strana posizione di difendere l’intervento militare: l’attacco del 21 agosto, ha detto, «è legato alla nostra sicurezza nazionale». Ma qualsiasi sarà la dinamica degli eventi dei prossimi giorni, la su figura resterà quella del militare onesto e sincero, in evidente contrasto con quella “catastrofica” di John McCain, che si fa pizzicare dal fotografo mentre gioca a poker con il suo iPhone nel bel mezzo dell’audizione in senato decisiva per l’intervento militare in Siria.

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