THE GUARDIAN LONDRA
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23 agosto 2013

Delitto senza castigo

Il presunto bombardamento chimico del 21 agosto ha provocato le reazioni sdegnate di alcuni governi occidentali. Ma le prospettive di un intervento restano ancora distanti e complicate. Le opzioni per una risposta sono tutte pessime

Non ci sono quasi dubbi: a Ghouta, nella zona orientale di Damasco, sono state utilizzate armi chimiche e, a differenza dei bombardamenti chimici finora solo presunti, esse hanno provocato una strage. A prescindere che il bilancio sia di centinaia o di oltre un migliaio di vittime, come affermano i ribelli, questo è uno degli attacchi con armi chimiche più devastanti da quello di Saddam Hussein contro i curdi a Halabja 25 anni fa, ed è oltretutto una sfida evidente alla promessa fatta dal presidente americano Barack Obama, secondo cui se si dimostrasse l’uso di armi chimiche o biologiche egli “cambierebbe i suoi calcoli”.

Del resto, non ci sono dubbi neppure su chi ha commesso questa atrocità. Il governo siriano ha ammesso di aver lanciato un’offensiva importante in quella zona e si tratta dell’unico combattente di questo conflitto in grado di utilizzare armi chimiche su questa scala. Le agenzie occidentali d’intelligence hanno quantificato che sarebbe necessaria una forza d’invasione di 60mila soldati per mettere al sicuro i dodici arsenali di armi chimiche di cui dispone Bashar al Assad. Per sterminare un tale numero di persone occorre un bel po’ di gas sarin, se quello è l’agente chimico utilizzato. L’attentato con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo provocò 13 vittime.

Tutto ciò porta a chiedersi il perché di questo bombardamento. La Russia ha definito il bombardamento una montatura pianificata in anticipo, dato che si è verificato a soli otto chilometri dall’albergo nel quale gli ispettori delle Nazioni Unite sono arrivati per svolgere inchieste su altri presunti episodi del genere. Quattro potrebbero essere le motivazioni principali: un commando siriano che ha agito di propria iniziativa, eventualità improbabile; un ordine diretto partito da Assad, nella consapevolezza che Obama non reagirà; un’escalation della potenza di fuoco utilizzata contro i ribelli che, malgrado abbiano subito perdite a Qusair e Homs, hanno ancora il controllo di circa metà del paese. La quarta ipotesi è che questo bombardamento sia andato a finire male, e abbia provocato la morte di molte più persone rispetto alle intenzioni.

Le opzioni per una risposta sono tutte pessime

Le opzioni per una risposta sono tutte pessime. Francia e Turchia stanno esercitando pressioni per un intervento militare e il Regno Unito non lo esclude: si parla di bombardamenti aerei ai depositi dei missili e dell’aviazione che Assad non amerebbe di sicuro perdere. Non c’è alcuna possibilità che egli permetta alle unità di ispettori dell’Onu di allargare l’area delle loro indagini a più dei tre siti individuati finora. Oltretutto, con la protezione di Russia e Cina, non è nemmeno probabile che il Consiglio di sicurezza lo obblighi a farlo. Il compito del governo siriano è chiaro: prendere tempo, impedire al team di ispettori dell’Onu di andare in giro e poi lasciare che le prove concrete svaniscano, il che è presto fatto in una zona di combattimento.

Ci sono dubbi sull’eventualità che i bombardamenti possano fungere da deterrenti. Il generale Martin Dempsey, presidente dello stato maggiore congiunto, ha riferito al Congresso che quando gli Stati Uniti potevano intervenire nel conflitto non c’era alcun gruppo di ribelli moderati pronto a riempire il vuoto che si sarebbe creato. Tutto ciò fa sì che una guerra regionale sia in caduta libera. E questo bombardamento chimico potrebbe non essere l’ultimo.

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