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12 marzo 2013

La Siria tra Indifferenza ed Omertà
di Germano Monti

Nel secondo anniversario dell’inizio della rivolta popolare siriana, ho scritto questo intervento spinto da una duplice esigenza: riflettere – denunciandola – sulla latitanza generale dell’informazione sulle rivoluzioni arabe e sulla crisi siriana in particolare, ed esprimere il mio punto di vista sulla “perversione della controinformazione” messa in atto dai sostenitori italiani del regime del clan Assad.
Il disinteresse dei media mainstream sul genocidio in atto riguarda il pessimo stato di salute del mondo dell’informazione italiano, viziato da almeno un ventennio da un profondo provincialismo, e non solo. La campagna di disinformazione messa in atto dalla inedita convergenza fra organizzazioni ed individui di estrema destra e di “sinistra” è invece un elemento nuovo, che testimonia della crisi della sinistra in un Paese che – non moltissimi anni fa – aveva espresso momenti altissimi di analisi, consapevolezza e mobilitazione. Come cittadino, il primo aspetto mi preoccupa molto. Come militante di sinistra e internazionalista, la seconda questione mi amareggia nel profondo.
Sono consapevole che non saranno queste righe a determinare ripensamenti in chi – per vizio ideologico o per semplice pigrizia mentale – preferisce rifugiarsi nella sicurezza di certezze e di abitudini consolidate, anche a dispetto di quel principio di realtà che dovrebbe essere alla base di ogni razionalità e di ogni materialismo. Chi ha abdicato ad ogni analisi marxista, in nome di una visione “geopolitica” da osteria, non può permettersi alcuna autocritica. Spero, invece, che questo modesto contributo possa essere di qualche utilità per nuove generazioni di attivisti per la trasformazione della società, per un mondo più libero e più giusto.

La crisi siriana è la tragedia più ignorata e più mistificata dall’informazione italiana nella storia recente.


E’ la più ignorata: due anni di manifestazioni, scioperi, repressione bestiale, combattimenti, massacri, esodi biblici e rischi di regionalizzazione del conflitto non meritano che saltuari articoli, perlopiù comodamente elaborati dai lanci di agenzia, senza nessuna verifica in loco. I giornalisti italiani che, in questi due anni, hanno avuto il coraggio di sfidare il blocco e la ferrea censura imposti dal regime del clan Assad, si contano sulla punta delle dita, e si tratta quasi esclusivamente di free lance. L’eccezione più significativa a questa regola sconcertante è stata rappresentata dall’inviato di RAI 2 Amedeo Ricucci, autore, insieme al collega Cristiano Tinazzi, di un reportage sulla battaglia di Aleppo, girato in prima linea e – sia detto senza retorica – con grande coraggio personale e professionalità. Tuttavia, anche quel servizio, che in qualunque Paese normale sarebbe stato messo in onda in ore di massimo ascolto e con la maggiore evidenza possibile, dalla nostra TV pubblica è stato mandato poco prima di mezzanotte.
Quali sono i motivi di questo disinteresse? Probabilmente, ha ragione lo stesso Ricucci, quando nota che il problema non riguarda solo la crisi siriana, ma investe l’arretratezza dell’informazione italiana in generale, ormai da anni autocentrata sulle vicende casalinghe e politicizzata nel senso peggiore del termine, vale a dire nel senso del totale asservimento del giornalista a questo o a quell’altro padrinato di lobby o di partito.
L’informazione sulla crisi siriana sconta la subordinazione dei giornalisti italiani, accentuata dalla precarizzazione della loro condizione lavorativa: la maggior parte degli operatori dell’informazione, infatti, oramai lavora “a cottimo” ed un articolo viene retribuito con una manciata di euro. Nel caso della Siria, poiché a nessun partito la questione sta particolarmente a cuore, l’informazione se ne disinteressa a sua volta, preferendo documentare i tormentoni del teatrino della politica nazionale. Come già detto, le eccezioni non mancano, ma il loro spazio è molto limitato, trovando espressione quasi esclusivamente sulla rete.

L’informazione sulla Siria è anche la più mistificata. La mia generazione politica è cresciuta con la cultura della “controinformazione”. Consapevoli dell’importanza del consenso in una democrazia capitalista avanzata ed altrettanto consapevoli della capacità di occultamento e manipolazione della verità che il potere è in grado di dispiegare, intere leve di militanti hanno imparato ad essere essi stessi cacciatori di verità e persecutori delle bugie di regime. La storia de “La strage di Stato”, dei militanti e dei giornalisti democratici che riuscirono a smantellare l’edificio della “strage anarchica” e del mostro sbattuto in prima pagina (il ballerino anarchico Pietro Valpreda), ha rappresentato uno dei momenti più alti della vita politica e culturale del Paese, aprendo la strada alla stagione dei giornali, delle riviste e delle radio di movimento.


Caratteristiche fondanti della controinformazione sono la ricerca della verità e la demistificazione, il disvelamento della menzogna e delle ragioni che vi sottendono. Quando muore un operaio, la notizia ufficiale è che si è trattato di un “tragico incidente”; la controinformazione rivela che l’azienda non rispetta le misure di sicurezza, e non le rispetta perché il suo interesse non è la tutela della vita e della salute dei lavoratori, ma la realizzazione del maggior profitto possibile. Analogamente, i disastri ambientali e le guerre non avvengono quasi mai per i motivi che i media ci propongono e con le modalità che ci vengono presentate. Per rimanere agli ultimi venti anni, chi non ricorda le bugie profuse a piene mani sulle “operazioni di polizia internazionale”, poi diventate “guerre umanitarie”? Per attaccare, distruggere ed infine occupare l’Iraq, si diceva che Saddam Hussein era un tiranno sanguinario, un pericolo per il proprio popolo, per gli altri Stati, per il mondo… ma non lo era, quando gli U.S.A. lo foraggiavano per contenere l’Iran, mentre sostenevano sottobanco anche il regime degli ayatollah, in modo che i due avversari si dissanguassero a vicenda.
Dopo l’Iraq, è toccato alla Jugoslavia, all’Afghanistan, fino all’intervento N.A.T.O. in Libia, finalizzato non certo all’abbattimento di un tiranno omaggiato fino al giorno prima ed ospite fisso ai vertici del G 20, ma alla spartizione delle risorse petrolifere fra le grandi compagnie angloamericane, francesi, italiane e russe (Gasprom e Tatneft)[1], con queste ultime che hanno beneficiato della non opposizione della Russia all’intervento, mentre gli investimenti della Cina (altra potenza che non si è opposta all’intervento) si sono concentrati sulla ricostruzione: “La China Railway Construction Corporation detiene da anni il monopolio delle linee ferroviarie di nuova edificazione, la China Civil Engineering Construction sta lavorando ad un mega progetto di irrigazione nel Sahara orientale; nel sudest del paese stanno sorgendo 5 nuove città dai cantieri del China Gezhouba Group. Non solo cemento, però: la China Communication Constrution e la Huawei Technologies stanno realizzando le infrastrutture per la telefonia mobile e fissa. Miliardi di dollari e 36 mila tecnici (…)[2]. Negli ultimi dieci anni, infine, la controinformazione è stata l’arma più efficace del movimento di solidarietà con il popolo palestinese, riuscendo – pur nella enorme disparità di mezzi a disposizione – a contrastare la “Hasbara”, la poderosa macchina propagandistica israeliana che promuove nel mondo un’immagine positiva di Israele e tenta di mettere a tacere (solitamente, con l’arma dell’accusa di antisemitismo) le voci critiche. Ora, in relazione alla tragedia siriana, abbiamo assistito ad una vera e propria perversione nel campo della controinformazione. Attivisti “no war” e “antimperialisti” hanno completamente rovesciato il senso ed il significato della controinformazione, mettendosi a disposizione della propaganda di un regime fascista e mafioso, per il semplice fatto che questo regime non è sostenuto dal nemico di sempre (l’imperialismo U.S.A. e occidentale), ma da altre potenze, considerate “antagoniste” a quel nemico. In sostanza, la Russia, l’Iran e – in misura minore – la Cina sarebbero il contrappeso regionale all’imperialismo capitalista, con la conseguenza che il regime siriano è un baluardo della resistenza e va sostenuto contro quella che non è una rivoluzione popolare, ma una sedizione eterodiretta dall’imperialismo di cui sopra e dai suoi alleati, lo Stato sionista e le petromonarchie del Golfo. Gli agenti sul terreno di questa sedizione sono i gruppi armati di mercenari, i fondamentalisti islamici e le loro organizzazioni politiche, su cui l’imperialismo punta per ridisegnare a proprio favore la geopolitica dell’intera regione. Questo schema prescinde completamente dalla condizione concreta delle masse, anzi, la rimuove. A due anni di distanza dall’inizio delle rivolte arabe, questi gruppi “no war” ed “antimperialisti” non hanno prodotto una sola riga di analisi del contesto sociale e dei rapporti di classe all’origine delle rivolte stesse, viste come il risultato di un grande complotto, orchestrato dagli U.S.A. e dai loro alleati, per installare al potere interlocutori più adeguati ed affidabili dei vecchi tiranni.

Il ruolo dei popoli e delle classi nella dinamica storica viene assolutamente ignorato. Siamo arrivati al paradosso che debba essere un intellettuale borghese come Lucio Caracciolo ad avvertire che “Le categorie euristiche occidentali, impiegate a sproposito in altri campi, potrebbero utilmente applicarsi alla radice socio-economica della rivoluzione egiziana, come di altre “primavere”. Qui possono soccorrerci le teorie di un pensatore iperoccidentale come il renano Karl Marx: le insurrezioni tunisina ed egiziana sono anche lotta di classe. E’ la tesi del geografo Habib Ayeb, per il quale « in entrambi i casi si è potuto osservare il rifiuto di una popolazione emarginata di continuare a vivere nella marginalità ». Rivolta degli oppressi e degli affamati (…)[3].
Rimossa una lettura marxista e di classe, non resta che la geopolitica, intesa rozzamente come una sorta di Risiko in cui contano solo i carri armati a disposizione dei diversi giocatori. Su questo terreno, la convergenza con analisi e conseguenti politiche di matrice fascista e comunitarista è un passaggio naturale, ed infatti in Italia abbiamo assistito ed assistiamo ancora a manifestazioni a sostegno del regime siriano che vedono la partecipazione di vecchi e nuovi arnesi dell’estrema destra insieme ad esponenti “no war” ed “antimperialisti”. Su questo inquietante fenomeno esiste già una vasta documentazione, e presto saranno prodotti altri interventi. Quel che interessa in questa sede, è l’aspetto che riguarda la “perversione” operata nel campo della controinformazione, rovesciata nel suo contrario: la diffusione di bugie, l’occultamento della verità e – dulcis in fundo – la diffamazione di chi esprime tesi e fornisce informazioni diverse.

La diffusione di bugie, cioè il rovesciamento del concetto stesso di demistificazione. Nel luglio 2012, un articolo di Thierry Meyssan affermava che “40-60000 Contras, soprattutto libici, sono arrivati in pochi giorni nel paese, il più delle volte dal confine giordano”. Una cifra abnorme, un’affermazione non sostenuta da alcun riscontro e, anzi, palesemente incredibile, se non altro perché un tale movimento di uomini ed armi non sarebbe potuto passare inosservato ai satelliti militari russi e cinesi che monitorano continuamente l’area, analogamente a quelli statunitensi. Nonostante si trattasse di una evidente montatura, agenzie e siti “di sinistra” non si fanno scrupolo nel riprenderla e diffonderla, dopo la sua pubblicazione sul sito di estrema destra Syrian Free Press: in un articolo intitolato “I jihadisti accorrono in massa in Siria”, citando come fonte genericamente “La stampa e le agenzie internazionali”, Nena News scrive che  “altre migliaia di jihadisti stanno affluendo in Siria, passando tra Turchia, Iraq e Giordania”. L’articolo viene a sua volta ripreso e diffuso da Contropiano, rivista on line della Rete dei Comunisti. Megachip, il blog di Giulietto Chiesa, fa di peggio: affida a Thierry Meyssan una rubrica settimanale, definendo l’autore francese, notoriamente legato all’estrema destra ed al Front National di Le Pen, “una voce importante, informata su questioni altamente controverse, e sulle quali il mainstream occidentale mente sistematicamente o agisce distorcendone i significati”. Un altro esempio di come operi la disinformazione è quello che riguarda i video amatoriali con cui gli attivisti siriani, sin dai primi giorni della rivolta, mostrano al mondo quello che avviene nel loro Paese. In questo caso, lo schema adottato è quello dell’insinuazione: si tratta di video contraffatti, girati e montati altrove, allo scopo di fomentare l’opinione pubblica internazionale e spingerla a sostenere quell’intervento armato in Siria che, a detta degli “antimperialisti”, è il vero obiettivo dell’imperialismo. I video diffusi sulla rete sono migliaia, perlopiù girati con i telefonini, per cui la maggior parte è di pessima qualità. Quelli pubblicati dal Coordinamento dei Comitati Locali sono sempre accompagnati da indicazioni precise sulla località in cui sono stati girati e, quando mostrano le vittime, indicano i nomi e cognomi dei “martiri” e le circostanze in cui sono stati uccisi. Tutto questo non ha impedito ai gruppi che sostengono il regime di Assad di martellare la convinzione che si tratti di fakes, di falsi manipolati, specialmente in occasione di eventi particolarmente efferati, come i bombardamenti aerei su interi città o villaggi: qui, si ricorre alla domanda retorica “Ma come potrebbe un governo bombardare indiscriminatamente il suo stesso popolo?”. La storia recente abbonda di precedenti in tal senso, dal bombardamento di Managua da parte dell’aviazione del dittatore Somoza a quelli ordinati da Putin su Grozny e le altre città della Cecenia, ma basta andare qualche anno indietro per ricordare che il bombardamento di Guernica venne sfacciatamente negato dai fascisti spagnoli, “sostenendo che la città era stata distrutta dagli stessi Repubblicani in fuga, per lasciare “terra bruciata” (Guernica fu infatti occupata dai falangisti due giorni dopo il bombardamento)”[4] . Per soprammercato, una volta occupata la cittadina basca, i falangisti distrussero i registri parrocchiali, per impedire il conteggio delle vittime. I bombardamenti, comunque, sono una tradizione di famiglia del clan Assad, inaugurata sulla città di Hama nel 1982 da Hafez Assad, l’allora dittatore, padre dell’attuale dittatore.
La procedura della disinformazione adottata dagli assadisti italiani è molto simile al cliché inaugurato dai fascisti spagnoli e dai loro camerati italiani e tedeschi: quando non è proprio possibile insinuare che i video siano falsi o contraffatti – per esempio, nel caso delle bombe cadute sulla fila di persone davanti ad una panetteria o dei missili che hanno colpito l’università di Aleppo – si sostiene che  le azioni siano state compiute dai ribelli, per poi scaricarne la responsabilità sul regime. In alternativa, ci si attesta sulla “mancanza di informazioni certe”, per cui l’attribuzione della responsabilità di tali atti alle forze del regime rientra nella campagna mediatica volta a legittimare un’aggressione militare straniera “come in Libia”, sorvolando sul fatto che questa aggressione “come in Libia” non è ancora avvenuta, nonostante i nostri “no war” la stiano evocando quotidianamente da due anni.
Altro must della disinformazione assadista dei nostri “no war” è quello che riguarda le forniture di armi ai mercenari-terroristi, come chiamano i ribelli siriani. L’Esercito Siriano Libero si approvvigiona in gran parte sul mercato delle armi (sempre molto florido da quelle parti) e sicuramente riceve equipaggiamenti anche da parte degli altri attori regionali interessati al conflitto, ma resta il fatto – incontrovertibile –  che le forniture di armi più massicce siano di gran lunga quelle che il regime siriano riceve dai suoi alleati Russia ed Iran, cosa che i nostri “no war” si guardano bene dal denunciare.

Seconda parte

“Il silenzio è irrazionale, perché chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie (o, se preferite, nascondere la testa sotto la sabbia) non serve a nulla. Le lacerazioni ci sono e sono destinate a divenire ancora più profonde, perché la realtà è più forte di qualunque altra considerazione. Il silenzio è anche ingiustificabile: i Palestinesi assassinati dal regime fascista e mafioso di Assad gridano vendetta tanto quanto quelli assassinati dallo Stato sionista”.

Un aspetto ancora più spregevole della disinformazione “no war” è quello rappresentato dalla vicenda dei rifugiati palestinesi in Siria: sono mezzo milione, circa 150.000 dei quali residenti nel campo damasceno di Yarmouk, il più grande. Dall’inizio della rivoluzione, la maggior parte delle organizzazioni palestinesi hanno tentato di tenere i rifugiati al di fuori della contesa, ad eccezione del Fronte popolare – Comando Generale, organizzazione inesistente nei Territori del 1948 e del 1967 e la cui ultima azione contro Israele risale al lontano 1987. Il Fp – Cg costituisce, di fatto, una milizia palestinese al servizio del regime siriano, al quale garantiva il controllo nei campi dei rifugiati.
Alcuni rifugiati palestinesi – in prevalenza, giovani non legati alle organizzazioni, anzi, fortemente delusi da queste – hanno preso parte alle manifestazioni contro il regime, e gli ospedali palestinesi hanno offerto assistenza ai feriti. La risposta del regime e delle sue milizie – compresi i collaborazionisti del Fp-Cg – è stata immediata e brutale, spingendo altri Palestinesi a solidarizzare con i rivoltosi.
Il primo grave episodio di violenza del regime contro i rifugiati risale all’agosto del 2011, quando almeno 60 persone, la maggior parte delle quali palestinesi, vengono uccise dal bombardamento navale di Latakia, avvenuto dopo una piccola dimostrazione pacifica contro Assad. Le agenzie palestinesi riportarono che “Le forze siriane si sono affrettate a distruggere le prove della sanguinosa repressione a Latakia, che ha ucciso decine di Palestinesi ed ha costretto i rifugiati alla fuga, come hanno riferito gli attivisti ai funzionari dell’ONU arrivati a Damasco. Le forze di sicurezza sono state viste lavare il sangue dalle strade e dai muri del campo dei rifugiati di Al Ramel, prima del previsto arrivo della missione nella città portuale (…)”. Nessuna associazione od organizzazione del movimento italiano di solidarietà con la Palestina mosse un dito, nessun sito ne diede notizia, e questo fu solo l’inizio della lunga ed ignobile stagione di omertà che continua tuttora.
Con l’aumento della repressione e l’inizio della lotta armata, la situazione dei rifugiati palestinesi si è fatta sempre più grave. I combattimenti hanno investito i campi, particolarmente quello di Yarmouk, ma anche Daraa, Huseineh ed altri. Nemmeno gli ospedali, le moschee e gli uffici dell’UNRWA sono stati risparmiati dalle bombe di Assad, nonostante i ripetuti appelli dell’OLP e di tutte le fazioni palestinesi a rispettare la neutralità dei campi.
In questo momento, i Palestinesi assassinati in Siria dalle forze di Assad sono più di 1000, gli sfollati decine di migliaia e le distruzioni subite dai campi sono incalcolabili.
La politica palestinese manifesta nella vicenda siriana la stessa debolezza ed assenza di progetto riscontrabili nella sua azione generale: a parte i doverosi appelli al rispetto della neutralità dei rifugiati, le organizzazioni appaiono molto lontane dal diffuso sentimento popolare di solidarietà con i rivoltosi siriani, non diverso da quello che i Palestinesi manifestano verso le altre rivoluzioni arabe. Tuttavia, la reticenza mostrata dalle organizzazioni palestinesi non è priva di motivazioni concrete, prima fra tutte il timore di esporre i rifugiati ad ulteriori violenze e rappresaglie da parte del regime, a cui vanno aggiunti quello di perdere il sostegno iraniano e quelli relativi all’incertezza delle prospettive. Alle organizzazioni palestinesi non sfuggono le implicazioni internazionali della questione siriana e, se Hamas ha potuto riposizionarsi senza grandi difficoltà (nel quadro del generale riposizionamento della Fratellanza Musulmana di cui è parte), per altri la situazione non è così lineare. La sinistra palestinese, in particolare, si trova in una posizione estremamente scomoda e difficile, con le sedi delle principali organizzazioni ancora ospitate ufficialmente a Damasco ed una dialettica complicata fra vecchi dirigenti ancorati al passato e nuove leve – militanti ed intellettuali – che manifestano interesse o aperto sostegno alla rivoluzione siriana.

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Inutile cercare traccia di tutto questo, anche nella sua complessità, nei siti delle organizzazioni “filopalestinesi” italiane. Ancora più inutile tentare di rintracciare una qualche iniziativa di solidarietà da parte delle stesse organizzazioni. Il motivo di questa immorale omertà non è di difficile individuazione. Alcune delle associazioni e delle organizzazioni “storiche” della solidarietà con i Palestinesi hanno un’impostazione culturale distortamente “antimperialista”, per cui sostengono il “legittimo governo siriano”, parte integrante di quell’asse della resistenza al sionismo che identificano nel triangolo Iran – Siria – Hezbollah. Fino a qualche mese fa, il triangolo era un quadrilatero, perché comprendeva anche il movimento palestinese Hamas, che però ha “disertato”, trasferendo i suoi uffici da Damasco al Cairo ed a Doha, pur senza interrompere i suoi legami con Teheran. Moltissimi attivisti italiani non sono ascrivibili a quelle organizzazioni ed, anzi, la maggior parte è culturalmente lontana da esse. Ai loro occhi, però, il bene supremo è “l’unità”: le spaccature e le divisioni li mettono profondamente a disagio e, quindi, cercano di ignorarle. Si tratta di un atteggiamento comprensibile, anche alla luce delle difficoltà oggettive che incontra il sostegno alla causa palestinese. Comprensibile, ma irrazionale ed ingiustificabile. Il silenzio è irrazionale, perché chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie (o, se preferite, nascondere la testa sotto la sabbia) non serve a nulla. Le lacerazioni ci sono e sono destinate a divenire ancora più profonde, perché la realtà è più forte di qualunque altra considerazione. Il silenzio è anche ingiustificabile: i Palestinesi assassinati dal regime fascista e mafioso di Assad gridano vendetta tanto quanto quelli assassinati dallo Stato sionista. Quanto a quel che resta del movimento pacifista, è a sua volta diviso fra chi sostiene le ragioni della rivoluzione e chi agita il timore dell’intervento straniero come priorità da affrontare (questi ultimi sono, in buona sostanza, gli stessi “antimperialisti” di cui sopra). Il risultato, anche qui, è un assordante silenzio sulla tragedia dei rifugiati palestinesi in Siria. Questo desolante panorama di complicità ed omertà è, fortunatamente, segnato anche da tendenze ed iniziative diverse. Fra queste, è confortante poter segnalare, sul piano della solidarietà con i rifugiati, quelle dell’Associazione Zaatar, di Un ponte per… e di una parte dell’Associazione per la Pace, oltre alle iniziative intraprese autonomamente da gruppi di attivisti italiani e palestinesi. Il resto è silenzio. Vergognoso e vile silenzio.

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Un silenzio vergognoso e vile come quello che copre la sorte di centinaia di attivisti siriani per i diritti umani e la democrazia. Giornalisti, intellettuali, avvocati e artisti uccisi, torturati, desaparecidos o, nel migliore dei casi, costretti all’esilio. In Italia, sono state ben poche le voci che si sono levate per denunciare prima l’arresto arbitrario, poi le torture e, infine, la sparizione di Mazen Darwish e degli altri attivisti del Centro Siriano per l’Informazione e i Diritti Umani. Non si parla, in questo caso, di combattenti armati o di “jihadisti”, ma di uomini e donne come quelli che qui si impegnano nella controinformazione sui casi di violenza di Stato, come a Genova nel 2001 o come le oscure morti di cittadini per mano di esponenti delle forze dell’ordine. Nei confronti di queste situazioni (che non possono certo essere rappresentate come manifestazioni dell’aggressione imperialista e sionista contro la Siria!) la scelta è, come per i rifugiati palestinesi, quella dell’omertà. E le organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International o Human Rights Watch – le stesse che vengono citate ed enfatizzate quando denunciano i crimini israeliani contro i Palestinesi – nel momento in cui si occupano dei crimini del regime siriano, diventano agenzie al servizio dell’imperialismo, gente che (per usare il gergo di un anziano ex giornalista molto devoto ad Assad ed alla buonanima di Gheddafi) “lubrifica i cingoli dell’intervento NATO”.

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L’ultimo aspetto della campagna di disinformazione, infatti, consiste nella sistematica diffamazione di chi esprime un punto di vista diverso da quello “antimperialista”, cioè gli incaricati di lubrificare i cingoli imperialisti. Quelli che hanno proposto una visione della crisi siriana diversa e più articolata rispetto a quella del complotto sionista-imperialista-petromonarchico, si sono ritrovati automaticamente arruolati nella CIA o nel Mossad, o in tutti e due. Of course, non poteva mancare l’accusa di essere agenti prezzolati, in particolare dal ricchissimo Emiro del Qatar.
L’imputazione più forte è stata quella di essere a favore di un intervento NATO in Siria “come in Libia”. La mancanza di prove ed anche del minimo indizio a sostegno delle loro affermazioni, non ha impedito ai tardi epigoni del procuratore Vyshinsky di ribadirle in ogni occasione. Nemmeno la limpidezza degli appelli sottoscritti a sostegno della rivoluzione popolare e contro ogni intervento esterno è servita ad evitare il proliferare di articoli, interventi radiofonici e – soprattutto – un frenetico gossip telematico che li ha additati come venduti al nemico sionista e imperialista. Questa metodica campagna diffamatoria è stata avviata con una serie di interventi molto violenti su alcuni blog e siti di estrema destra (alcuni dei quali grossolanamente camuffati da “pacifisti”), nonché da alcuni individui, come l’anziano devoto a Gheddafi e Assad che ho già citato. La singolare convergenza fra fascisti e “antimperialisti” si è realizzata anche sul terreno della denigrazione degli avversari, definiti comunemente “ratti”.
Anche qui, non c’è da stupirsi: la convergenza sui contenuti non può che comportare una condivisione metodologica: le bugie e la disinformazione sui fatti rendono necessaria la delegittimazione di chi vuole conoscere e far conoscere la verità.
E’ interessante notare come questo modus operandi non produca alcuna aggregazione. Dal punto di vista della partecipazione, le iniziative della Rete No War contro il megacomplotto sionista-imperialista non hanno prodotto che risultati alquanto miseri, “manifestazioni” che potrebbero agevolmente essere contenute in una cabina telefonica. Ma non è l’aggregazione l’obiettivo degli assadisti italiani, piuttosto il suo esatto contrario.
C’è del metodo in questa follia, direbbe il Bardo: consapevoli dell’impossibilità di aggregare un movimento sul sostegno ad un regime criminale, i “no war” puntano ad ostacolare l’aggregazione di un movimento solidale con la rivoluzione siriana e, più in generale, con le rivoluzioni arabe. Di qui, la disinformazione ed il terrorismo ideologico, la rappresentazione delle rivolte popolari come sedizioni eterodirette, dominate da fondamentalisti islamici al servizio dell’imperialismo. La saldatura con la consueta retorica fascista del complotto demo-pluto-giudaico-massonico è completa.

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A due anni di distanza dall’inizio delle manifestazioni contro il regime di Assad, i morti in Siria sono ben oltre 70.000, i desaparecidos, gli arrestati e torturati almeno 200.000, i profughi sfollati nei Paesi vicini quasi un milione e mezzo, le distruzioni materiali incalcolabili, soprattutto a causa dell’impiego da parte del regime degli aerei da bombardamento e dell’artiglieria contro i centri abitati controllati dai ribelli. Fra l’altro, è ormai ampiamente dimostrato l’utilizzo contro la popolazione – sempre da parte del regime – di cluster bomb e munizioni al fosforo. In un contesto del genere, non sorprende il fatto che ai ribelli siriani si siano aggiunti combattenti provenienti da altri Paesi arabi, e che gran parte di questi combattenti siano estremisti islamici. E’ altrettanto naturale che, in una situazione ove la parola è ormai alle armi, si moltiplichino gli spazi di intervento per forze e Paesi esterni, quali l’Arabia Saudita ed il Qatar, che vanno a contrapporsi ai Paesi esterni già installati a sostegno del regime, come Russia ed Iran. Un grand jeu giocato tutto sulla carne viva di un popolo che chiede soltanto democrazia e dignità. Ringrazio chi ha avuto la pazienza di leggere questo lungo intervento. Come ho scritto in premessa e poiché “Presuppongo naturalmente lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé”, questo intervento non servirà a smuovere le granitiche certezze di chi è convinto che le rivoluzioni arabe siano state sollecitate e dirette da un complotto internazionale e che il regime fascista del clan Assad sia vittima di un’aggressione imperialista “come in Libia”. Mi auguro, al contrario, di aver stimolato in qualcuno la voglia di sapere, di conoscere e, magari, di interrogarsi, perché quello che sta avvenendo sull’altra sponda del nostro mare ci riguarda tutti, e tutti noi, un giorno non lontano, saremo chiamati a rispondere della nostra indifferenza e del nostro cinismo.

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