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06/06/2013

Quel che resta della Siria
di Francesca Borri

Marzo è marzo anche in Siria, leggero, è colline appena mosse, ricamate di primule e violette, il bianco in fiore dei rami di mandorlo, l’arancio dei tulipani, e questo vento mite, gentile, carico di luce e gelsomino. Poi invece nella casa alla tua sinistra, ieri, Asma si è suicidata. Un proiettile in testa – marzo non è marzo, in Siria. Aveva 13 anni.

Jabal al-Zawiya, provincia di Idlib, è una riserva naturale costellata di tombe romane e bizantine, è stralci di prato tra rocce chiare e brulle. Poi però intravedi uno scintillio, nel buio, sotto un arco in pietra nascosto tra i cespugli, ed è il metallo di una teiera, tra l’erba un libro fradicio, uno straccio di camicia, vedi un riflesso d’argento. E non è una delle tante rocce, ma un telo di plastica. E’ una porta.

Ti sbucano da sottoterra, a decine. Magri, scalzi, lo sguardo stravolto e sdrucito. Si sono rifugiati qui, ad attendere la fine della guerra in quest’aria umida e rancida, le volte delle tombe annerite dal monossido delle stufe a legna. Dormono sui sepolcri. E tossiscono, tossiscono ininterrotti di tubercolosi come Nader Khaled al-Badwy, 26 anni, e sua moglie Sanaa, 22, in braccio Omar, un anno e sette mesi. Si rigira tra le mani una scatola di medicine, sono le uniche che ha trovato, in farmacia, il bugiardino è in inglese – “meglio di niente”, dice: sono medicine per la meningite. Non hanno che pane e tè, l’acqua che è acqua piovana, e in Turchia un’altra figlia, sette mesi, ogni tanto cercano di inviarle con un contrabbandiere una bottiglia di latte materno. Sono qui da settembre, e da settembre qui non è passato nessuno. Una ONG, la Mezzaluna Rossa, un medico senza frontiere: nessuno. Non hanno la minima assistenza. Né la minima aspettativa, ormai. Chiedo cosa chiederebbero, se potessero, alla Coalizione Nazionale, il coordinamento delle forze di opposizione che ha sede a Istanbul, rispondono solo: zucchero.

Perché sembra la campagna di sempre, poi guardi questi alberi, alti, emaciati, e come infilzati nel terreno, distanziati gli uni dagli altri, e non capisci: questi alberi strani – poi ti accorgi: non sono che tronchi: mancano i rami. Per riscaldarsi, hanno segato tutte le frasche. “Ma gli alberi no. Questo è un parco protetto”. Vivono compressi in ventidue, in queste due tombe, la più piccola si chiama Malaki, ha due mesi e nella sua culla a dondolo fa capolino a stento tra le mosche. Sono le famiglie di Ahmad Omar al-Yahya, 45 anni, e Basam al-Amnou, 42. Le ossa erano ancora lì, quando sono arrivati, in quell’infossatura in cui ora sono impilate le coperte. Hanno seppellito tutto sotto un ulivo. E si sono trasferiti qui: a testa piegata, le volte troppo basse, la luce che è un accendino, l’unica latrina segnalata non tanto da un muro di mattoni e un rivolo di liquami, quanto una nebbia di insetti. Gusci di scarafaggi, e quando piove, le tombe che si allagano, bisogna stare fuori. Un ragazzino ha il volto pesto, un polso spezzato: ci si infila dentro attraverso cunicoli scoscesi, pertugi di fango, è scivolato una settimana fa. Le loro case, nella vicina al-Bara, sono state spazzate via da un attacco aereo, undici famiglie incenerite. Fino a oggi su al-Bara, 5.000 abitanti, si sono abbattuti 6 missili e 275 colpi di mortaio. Quello che sentiamo adesso è il numero 276. Ci guardiamo un momento, un’alzata di sopracciglia, ci diciamo: un mortaio – e torniamo a parlare.

I rifugiati della guerra di Siria, che il 15 marzo ha compiuto due anni, sono oltre un milione. Ma le statistiche delle Nazioni Unite si riferiscono ai profughi dei campi allestiti in Giordania, in Libano in Turchia, in Iraq. Non registrano gli sfollati rimasti qui. E che si stima siano 4 milioni. Senza niente: neppure l’acqua. Le ONG internazionali sono ancora in rodaggio, quelle locali spesso non sono che sigle improvvisate di siriani tornati qui a rastrellare denaro dopo anni all’estero. E le Nazioni Unite, per statuto, operano attraverso il governo di Damasco: gli aiuti, così, vengono distribuiti solo nelle aree sotto il controllo del regime. “Ma raggiungere la Turchia costa”, spiega Mariam al-Mohamad, 57 anni. Un’altra esplosione. “Da una parte non vogliamo andare via perché questo è il nostro paese. E perché temiamo i saccheggi. Dall’altra, la verità è che un’auto fino alla frontiera costa 300 dollari: due volte uno stipendio. E per una famiglia media, sono necessarie tre auto. La verità è che diventare rifugiati, qui, è un lusso che non possiamo permetterci”. 

Ahmad Haj Hammoud ha 31 anni, e ogni giorno alle otto, puntuale, timbra il suo cartellino a Idlib. E’ un dipendente pubblico. Solo la provincia, infatti, è sotto il controllo dei ribelli: in città funziona tutto come sempre, negozi, uffici, scuole. E in tanti sono come Ahmad: di giorno parte del regime, di notte sue vittime. “Ma ho bisogno dello stipendio”, dice laconico. “E voglio semplicemente che questa guerra finisca”. Perché in tanti, ed è quello che più colpisce, qui, non sono né con Assad né con i ribelli. Vedono solo un regime feroce, e un Esercito Libero che ha reagito con una guerra per cui non aveva addestramento, equipaggiamento sufficiente, ventenni in kalashnikov e infradito, la maglietta di Messi e granate artigianali improvvisate con scatolette di tonno. Aspettano passi la tempesta, nient’altro, come storditi: ti guardano stralunati da bordo strada come un presepe dell’Armageddon. Un’altra esplosione, intanto. “Si combatte qui vicino, a Maraat al-Numan. E’ sulla strada tra Aleppo e Damasco: in posizione strategica per la conquista di Hama”, spiega Ahmad. Si avanza, infatti, da nord a sud: l’ordine, geograficamente, è Aleppo, Idlib, Hama, Homs: Damasco. “E dopo due anni e 70mila morti, Aleppo ridotta a un’epidemia di tifo, siamo ancora a Idlib. Ancora a quaranta chilometri dal confine con la Turchia. Damasco è a quattrocento”.

Il nome, Maraat al-Numan, è un intarsio del nome greco, Arra, del nome cristiano, Marre, e di quello del primo governatore musulmano, an-Numan ibn Bashir. “Una sintesi della Siria di ieri, in cui abitavamo tutti insieme”, dice Habib al-Hallaq, 26 anni, disertore sunnita che a Damasco aveva casa in un quartiere alawita, e della sua vecchia vita, mentre esplode un colpo di mortaio, non ha che un paio di scarpe identiche alle mie. “Una sintesi della Siria di oggi”, lo corregge Noura Nassouh, 47 anni, la sua vicina di tomba. “In cui veniamo uccisi tutti, senza distinzioni”.

Perché marzo non è marzo, in Siria, e in questo inganno di primavera punteggiato di boccioli e mortai si vive così, a pane e tè e acqua piovana, frugando nei prati in cerca di erbe commestibili. Suad ha 15 giorni e gli occhi già rossi e sgualciti, è nata qui, in una tomba, in un’alba di missili, sua madre si chiama Adlalh Ziady, ha 19 anni e mi fissa in silenzio, la pelle gialla. Esplode un colpo di mortaio, intanto – qualcuno, intanto, muore, e mentre penso cosa chiederle, continua a fissarmi in silenzio, cosa si prova, a diventare madre in una tomba? hai avuto paura? e quando è cominciata, questa rivoluzione, avresti mai immaginato sarebbe finita così? mentre continua a fissarmi, in silenzio, e io che continuo a pensare, e esplode un altro colpo di mortaio, mi racconti quando ti hanno bombardato casa? e non è che una morsa di insensatezza, di cosa avete più bisogno, qui, latte? medicine? una morsa di infamia, i bambini intorno che esci dalla tomba e ti hanno raccolto tutti i fiori che hanno trovato, e ti si aggrappano al braccio, come fossi prezioso, come fossi qui per salvarli e invece non sanno, siamo qui solo per l’ennesima foto, l’ennesimo articolo che non insidierà nessuna coscienza, neppure la nostra, mentre ti si aggrappano al braccio, e ma ormai è tardi, e non lo sanno, però, non sanno che non contano niente, perché cosa c’è da capire, ancora, in Siria, cosa c’è da chiedere, da scrivere? mentre Adlalh mi fissa in silenzio, e giustamente non ha niente da dire, e esplode un altro colpo di mortaio e una donna, nell’angolo, stretta in questi suoi cinquant’anni che sembrano settanta, tre figli di cui non è rimasto neppure il cadavere, si copre il volto con le mani, immobile, e anche lei – tace: perché se i siriani sono finiti nelle tombe, le siriane sono finite negli angoli delle tombe.

E perché è una Spoon River al rovescio, questa, in cui i vivi, dalle loro tombe, parlano ai morti che guardano, e non sentono. Ismail Khodor al-Yosef ha 75 anni e il cuore spompato da un infarto, le ossa che gli scolpiscono la pelle come un bassorilievo, è sdraiato per terra e aspetta di morire. I suoi rantoli incrinano l’aria rappresa della controra, sono cocci di bottiglia. Non è una di quelle morti a cui ti abitua la guerra, stringate, asciutte, un proiettile e via, no – è una morte lunga, rude, in agonia, la morte di un uomo stretto alla vita, lo sguardo tenacemente rivolto verso la luce. Era il guardiano del parco. Dei suoi figli, tutti profughi, non ha notizie. E fissa la luce, solo questo, per terra, la moglie alle sue spalle come una Pietà che non avrà il suo Michelangelo, nella tomba di un uomo di cui nessuno neppure conosce il nome, mentre lentamente, anche lui, semplicemente, scompare.

  (Marzo 2013)

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