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16 marzo 2013

Il destino di Indymedia e il futuro dell’informazione alternativa
di Behindthemask
traduzione di Giuseppe Volpe

Behindthemask [Dietro la maschera] è un giornalista e attivista impegnato in Indymedia di Nottingham e in Indymedia Gran Bretagna negli ultimi otto anni.

Due settimane fa, il 31 gennaio, il collettivo Indymedia di Nottingham ha disabilitato la possibilità di pubblicare nuovi articoli. Quest’azione drastica è stata adottata per dimostrare cosa andrebbe perso se il collettivo chiudesse, nella speranza che quelli che utilizzano il sito si facciano avanti per mantenerlo in attività. Domani si terrà un’assemblea al Sumac Centre, lunedì 18 febbraio, per discutere il futuro del progetto e tutti gli interessati a esservi coinvolti sono invitati a partecipare.

Indymedia è il nome dato a una particolare rete con una copertura globale piuttosto irregolare alla quale si sono affiliati, una volta o l’altra, centinaia di progetti mediatici indipendenti, per lo più basati sulla rete. E’ anche il nome di un particolare approccio ai media giornalistici che tenta di evitare la produzione gerarchica e di promuovere così notizie dalla base sugli eventi.

A me pare che sia arrivato il momento di esaminare il modello Indymedia e di chiederci se sia ancora utile e necessario per i movimenti sociali dai quali è sorto e cresciuto. Dopotutto molto è cambiato dal 1999, quando fu lanciato il primo sito Indymedia, sia in termini di ambiente della rete sia di mondo esterno.

In rete abbiamo assistito all’ascesa di imperi industriali come Facebook e Twitter: monoliti con centinaia di milioni di utenti e un’apparente stretta soffocante sulla diffusione di informazioni in rete. Esistono sacche di resistenza: enclave open source che non perseguono diritti di proprietà su qualsiasi cosa sia caricato e che si federano con altre piuttosto che cercare il dominio globale. Tuttavia queste minuscole anomalie sono poche e distanziate, spinte ai margini di una rete di cui sempre più si appropriano imprese multimilionarie.  

L’ascesa dei giganti è stata spinta da massicci investimenti nello sviluppo del software. La risultante flessibilità e potenza di Facebook e soci rende tali siti attraenti per l’utente che vuole comunicare rapidamente e facilmente le proprie idee e i propri programmi a centinaia e persino migliaia di altre persone.

Il denaro indubbiamente sporco che i mostri industriali ricavano dalla pubblicità occulta, dalla vendita di contenuti altrui e dal capitale di rischio incondizionato sono ciò che rende possibile questo costante sviluppo. I programmatori volontari, che si arrabattano per trovare il tempo per progetti indipendenti nel mezzo del lavoro quotidiano e dell’attivismo politico, semplicemente non sono in grado di competere, per quanto creative siano le loro idee. La conseguenza è che la rete anti-industriale è spesso più soggetta a errori, più scoordinata e più obsoleta dei suoi rivali capitalisti. Gli utenti che spesso non sono coscienti della politica, o non se ne curano, optano semplicemente per siti più agili.

I collettivi Indymedia in Gran Bretagna non sono estranei a questo fenomeno. Il sito inglese Indymedia/Mayday opera su un Sistema di Gestione dei Contenuti (CMS) chiamato Mir cui sono migrati dieci anni fa. Ciò dà al sito un aspetto e la sensazione di un sito vecchio di dieci anni: piuttosto vecchio in termini di sviluppo della rete. Indymedia di Londra ha deciso che quando è troppo è troppo e uno dei suoi tecnici ha sviluppato Hyperactive, un CMS che doveva incorporare alcune delle caratteristiche che erano state sviluppate come parte del Web 2.0 e che ora sono comuni nei siti dei media sociali. E’ stato condiviso da numerosi siti regionali, compreso Nottingham nel 2010. Sfortunatamente i soliti limiti di tempo ed energie delle persone coinvolte hanno cospirato nell’intralciare il progetto. Hyperactive non è più in sviluppo e Indymedia sembra incapace di trovare un modo sostenibile per tenerlo aggiornato.

Non è soltanto l’ambiente di rete che è cambiato. Metterei in dubbio che una comunità coerente di utenti esista ancora allo stesso modo in cui esisteva al picco del movimento contro la globalizzazione. La vasta coalizione di movimenti anticapitalisti, ambientalisti e di opposizione alla guerra che contestò i grandi vertici del potere globale si è evoluta in molte direzioni. Molte delle persone coinvolte hanno preso atto della riduzione degli effetti delle proteste spettacolari e hanno cercato altri percorsi per la loro dissidenza.

Quelli che hanno scelto di dedicarsi a lotte locali pur “pensando globalmente” sono stati tra coloro che hanno creato e alimentato una proliferazione di collettivi Indymedia locali nei primi anni del ventunesimo secolo. Ciò vale sicuramente per Indymedia di Nottingham che è stato lanciato immediatamente dopo le proteste del 2005 contro il G-8 a Gleaneagles in un tentativo di sostenere l’attivismo che era stato mobilitato localmente.

Con un salto in avanti al 2013 è chiaro che questi movimenti hanno sofferto molte sconfitte, molte infiltrazioni di spie della polizia e repressioni e che molti attivisti si sono stancati o hanno voltato pagina nella loro vita. I movimenti che sono subentrati in loro assenza, come i movimenti contro i tagli, sono sembrati effimeri e non sono stati in grado di sostenersi. Le generazioni più giovani che avrebbero potuto sostituirli guardano a bandiere nuove ed amorfe, come Anonymous e Occupy, che non hanno un’evidente manifestazione locale. La conseguenza è che molti attivisti non sembrano aver più affinità con Indymedia che ha finito per essere associata a movimenti del passato che hanno esaurito il loro corso.

Tuttavia io non voglio semplicemente occuparmi delle peculiarità culturali di Indymedia come si sono manifestate qui e ora. Che dire del modello sottostante di produzione e diffusione mediatica che è alla base di questi particolari casi singoli?

Secondo me, Indymedia ha tre principali punti di forza: lo sradicamento della gerarchia, la protezione della riservatezza e il fatto di rendere possibile la produzione mediatica collettiva.

In primo luogo Indymedia cerca di minare il modello mediatico tradizionale delle gerarchie editoriali che filtrano la vasta maggioranza dei contenuti e dei punti di vista a capriccio dei guardiani. Indymedia incoraggia una proliferazione di voci e di narrazioni, spesso mediante la pubblicazione libera in rete.

Anche se la pubblicazione libera è divenuta luogo comune nei forum e nelle mailing list in rete, l’idea della pubblicazione libera di notizie resta controversa, in gran parte perché molti sono tuttora sedotti dall’idea che certi punti di vista siano più importanti e più accurati di altri.

L’idea alla base del rovesciamento di tale gerarchia era di offrire una possibilità di esprimersi a chi in precedenza era privo di voce ed emarginato. In pratica, questo è difficile da realizzare. Pochi siti Indymedia consentono una pubblicazione totalmente libera, perché presto sarebbero inondati da comportamenti prepotenti e prevaricanti e sarebbero utilizzati come piattaforma per punti di vista autoritari e discriminatori e per diffondere menzogne maligne.

I siti Indymedia tendono ad avere un insieme di linee guida e moderatori per cancellare gli interventi che le violano. Il problema al riguardo è che ciò può far rientrare dalla finestra la gerarchia cacciata dalla porta. I moderatori possono facilmente scivolare in un ruolo editoriale, assumendo decisioni che, inconsciamente o meno, influenzano il carattere e l’ambiente del sito e conseguentemente la comunità degli utenti.

Per questo motivo i collettivi Indymedia si sforzano di garantire che la moderazione sia trasparente e responsabile nei confronti della comunità più ampia. Di nuovo, questo è il principio ma la realtà spesso non riesce a essere all’altezza. Pochi hanno il tempo e l’energia per verificare ogni decisione di moderazione o per partecipare a riunioni del collettivo a meno di essere già membri del collettivo (e pertanto parte del gruppo interno). In effetti la storia recente di Indymedia in Gran Bretagna è stata ampiamente caratterizzata da scissioni di gruppi interni ostili a ciò che percepivano come idee esterne riguardo a come gestire il loro sito.

A parte questi limiti, io credo fermamente che il principio dell’accesso per tutti alla creazione di media abbia implicazioni rivoluzionarie e sia necessario per spezzare la presa degli imperi mediatici. Sono necessari media della base dal basso per contrastare le narrazioni dei potenti e per affermare il punto di vista degli esclusi dai dibattiti convenzionali. Resta oggetto di discussione se il modello di pubblicazione libera sia il modo migliore, o no, per conseguire tale obiettivo.

Il secondo principale punto di forza di Indymedia è stato la promozione dell’anonimato in un mondo di controllo e monitoraggio statale e industriale. Mentre i siti convenzionali tracciano gli indirizzi IP e ogni click del mouse, molti siti Indymedia sono stati resistenti nel non registrare i dati degli utenti e nel consentire ai privi di potere la possibilità di non essere esaminati dai potenti.

I danni del conformarsi all’obiettivo statalista di controllare internet sono chiari. Ci sono numerosi esempi di siti che consegnano alle autorità i dati degli utenti per consentire incriminazioni e repressioni. I siti Indymedia che hanno pubblicato rapporti di interesse della polizia e di altri organismi della sicurezza sono stati assaliti e i loro server sequestrati. Grazie alle misure di sicurezza in atto, queste misure della polizia statale non hanno condotto al sequestro di dati individualmente identificabili. Proteggere le identità degli utenti che scelgono di non rivelarsi è essenziale al fine di dare fiducia a chi ricorre all’azione diretta contro i poteri forti.

Nonostante tutti questi principi, tuttavia, l’anonimato ha un lato oscuro. Quando nessuno sa chi sta parlando è facile assumere malignamente l’identità di altri, infiltrarsi in discussioni e sviarle. Ma forse questo anche incoraggia il lettore a mettere in discussione ciò che gli viene detto e a cercare di scavare più in profondità nel tentativo di scoprire la verità.

Il componente chiave finale di Indymedia, e probabilmente quello più spesso trascurato, è l’obiettivo della creazione collettiva di media. Più che soltanto una risorsa, Indymedia dovrebbe essere una comunità maggiore della somma dei contributi individuali. Quando sono rimasto coinvolto per la prima volta nella rete, c’era un’intensa attività collaborativa sulle mailing list al fine di scrivere articoli, creare stazioni mediatiche in occasione delle principali iniziative e condividere sapere e competenze. Nel tempo le differenze di opinione e i conflitti interni si sono insediati e la rete inglese è irreversibilmente crollata. Non resta granché di una comunità Indymedia significativa e resta pochissima collaborazione se si escludono alcuni piccoli gruppi di “professionisti” Indymedia.

La conseguenza è che gran parte dell’energia e dell’eccitazione è scomparsa e parecchi collettivi sembrano proseguire per senso del dovere piuttosto che come impegno positivo in un progetto. Offrire una piattaforma e la motivazione alla creazione collettiva di media erano essenziali nel rendere Indymedia una rete gratificante di cui far parte e nel portare i suoi contenuti molto più in là di quanto avrebbe potuto una raccolta di punti di vista isolati.

Dunque, considerato tutto quanto precede, Indymedia è ancora importante? Sì, assolutamente, come idea. Diversamente da alcuni io non mi agito particolarmente per il nome e il marchio Indymedia; quello che è importante è che un canale dal basso continui a fiorire e a sfidare i media imposti dall’alto. Ho cercato di esporre quelle che considero le principali sfide e i principali ostacoli che inevitabilmente ci si frappongono: la lotta per mantenere il passo con la tecnologia, la necessità di evitare organizzazioni gerarchiche ed esclusioni e la necessità di sostenere la comunità e la collaborazione e di dare voce al dissenso.

Penso sia proprio ora che i coinvolti in Indymedia e in altri progetti simili esaminino il nuovo terreno politico e sociale, evolvano e si adattino al fine di far proseguire ciò che Indymedia ha messo in moto. Non mi accontento di continuare a sbattere la testa per sempre contro gli stessi muri limitanti; voglio trovare modi per superarli, evitarli o minarli. Questo sembra un momento buono come qualsiasi altro per cominciare a cercare compagni di viaggio.  

La nostra decisione di tagliare la pubblicazione sul sito Indymedia di Nottingham e di convocare un’assemblea è un tentativo di creare uno spazio per idee nuove. Non siamo interessati a continuare sul sentiero lento ma sicuro verso la totale irrilevanza ma vogliamo attirare nuove persone e partire verso direzioni nuove, pur restando fedeli ai principi alla base di Indymedia.

Recentemente è stata di nuovo svelata l’assoluta corruzione, mancanza di etica e il comportamento manipolativo dei media convenzionali. Tuttavia pochi canali mediatici alternativi possono emergere con un’alternativa sostenibile che dia voce a quelli che sono stati soverchiati così a lungo. Questo articolo è stato scritto nella speranza che altri vogliano riflettere sui successi e sui fallimenti del movimento Indymedia e che nuovi modelli mediatici indipendenti possano essere sviluppati dalla sua eredità.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/indymedia-it-s-time-to-move-on-by-behindthemask

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