Fonte: La Jornada
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8 marzo 2014

Ricominciamo a discutere le nostre strategie
di Raúl Zibechi

Sembra evidente che siamo di fronte a una svolta della storia. Quello che accadrà nei prossimi anni, insieme a quello che sta già accadendo, avrà effetti di lungo periodo. Quel che facciamo, o quel che rinunciamo a fare, avrà una qualche influenza nel destino immediato delle nostre società. Sappiamo che è necessario agire, non è chiaro se siamo capaci di farlo nella direzione adeguata.

I recenti avvenimenti dell’Ucraina e del Venezuela hanno acuito la sensazione che stiamo vivendo momenti decisivi. Questa situazione rivela che la violenza giocherà un ruolo decisivo nella definizione del nostro futuro. La guerra tra gli Stati, la lotta tra le classi, conflitti violenti tra i gruppi più diversi, dalle pandillas (bande giovanili, ndt) fino alle organizzazioni dei narcotrafficanti. Come è avvenuto in altri periodi della storia, la violenza comincia a decidere congiunture e crisi.

La violenza non è la soluzione. Quanto più a lungo potremo fermarla, meglio sarà. Senza violenza non possiamo ottenere nulla. Ma la violenza, per quanto efficace e terapeutica sia, non risolve nulla, ha scritto Immanuel Wallerstein nella prefazione al libro di Franz Fanon Pelle nera, maschere bianche (in Italia, Troppa). Essere preparati alla violenza, ma subordinarla all’obiettivo del cambiamento sociale è parte delle discussioni strategiche necessarie.

Menziono la questione della violenza perché di questo si tratta in Venezuela e in Ucraina, in Bosnia, Sud del Sudan, Siria e in sempre più luoghi. Ci piaccia o no, i conflitti non si stanno risolvendo nelle urne ma nelle strade e sulle barricate, mediante arti insurrezionali che le destre stanno imparando a utilizzare per i propri fini, appoggiate dalle grandi potenze occidentali, Stati Uniti e Francia in modo molto particolare. La cosiddetta democrazia languisce e tende a scomparire.

Non mi stanco di leggere e riportare la visione che il giornalista Rafael Poch ha trasmesso dalla piazza Maidán di Kiev: “Nei suoi momenti più di massa, (la mobilitazione, ndt) ha messo insieme circa 70 mila persone in una città di 4 milioni di abitanti. Tra loro c’è una minoranza di varie migliaia, forse quattro o cinquemila persone, equipaggiata con caschi, sbarre, scudi e mazze per scontrarsi con la polizia. All’interno di questo gruppo collettivo, c’è un nucleo duro di forse mille, millecinquecento persone veramente paramilitari, disposte a morire e a uccidere, cosa che rappresenta un’altra categoria. È questo nucleo duro che ha fatto uso di armi da fuoco.

Moltitudini protestano e piccoli nuclei decisi e organizzati si scontrano con gli apparati dello Stato riuscendo in genere a superarli. Tre ragioni possono spiegare questo successo: ci sono decine di migliaia di persone nelle strade che rappresentano il sentimento di una parte della società che legittima la protesta; c’è un’avanguardia spesso allenata e finanziata da fuori; il regime non è in condizione di reprimerli, per debolezza, mancanza di convinzione o perché non ha mai un piano per il giorno successivo.

Che le destre abbiano fotocopiato i comportamenti dei rivoluzionari e li utilizzino per i loro fini, e che contino con un abbondante sostegno da parte  dell’imperialismo, non è la questione centrale: come affrontare situazioni nelle quali lo Stato viene scavalcato, neutralizzato o usato contro los de abajo (quelli che stanno sotto, ndt)?

La mia prima risposta è che le nostre forze antisistemiche non sono preparate per agire senza l’ombrello dello Stato. Quasi tutti i governi progressisti del continente si sono insediati grazie all’azione diretta nelle strade, dove si è pagato un alto prezzo per opporre il proprio corpo ai proiettili, ma questa dinamica resta troppo lontana e non è più patrimonio dei movimenti. Il mettere in gioco il proprio corpo ha smesso di essere il senso comune della protesta, soprattutto da quando lo scudo statale è ricomparso con i governi progressisti.

La seconda risposta è che la fiducia nello Stato paralizza e disarma moralmente le forze antisistemiche. A mio avviso, la peggior conseguenza di questa fiducia è che abbiamo smantellato le nostre vecchie strategie. Questo punto ha due risvolti: da un lato non è chiaro per che mondo lottiamo,  una volta che il socialismo statalista ha smesso di essere una proiezione del futuro. Dall’altro, perché non è in discussione se aderiamo alle tesi insurrezionali o alla guerra popolare prolungata, cioè alle tipologie europea o terzomondista della rivoluzione.

Non voglio intrattenermi sulla questione elettorale perché non la considero una strategia per cambiare il mondo, e nemmeno un modo per accumulare le forze. Comprendo che ci sono governi peggiori e migliori, ma non possiamo prendere sul serio il cammino elettorale come una strategia rivoluzionaria. Insomma, non stiamo discutendo il come. Intanto, le destre sì che hanno delle strategie, nelle quali il versante elettorale gioca un ruolo decorativo.

Tra l’insurrezione e la guerra popolare, lo zapatismo inaugura un nuovo cammino, che combina la costruzione di poteri non statali difesi, armi alla mano, dalle comunità e dalle basi di appoggio, con la costruzione di un nuovo mondo e differente nei territori che quei poteri controllano.

Si potrebbe obiettare che si tratta di una variabile della guerra popolare abbozzata da Mao e da Ho Chi Minh. Non la vedo in questa maniera, al di là di alcune similitudini formali. Credo che l’innovazione radicale dello zapatismo non possa essere compresa senza assimilare la ricca esperienza del movimento indigeno e del femminismo, in un punto cruciale: non lottano per l’egemonia, non vogliono imporre il proprio modo di fare. Fanno: e che gli altri decidano se seguono oppure no.

Su questo argomento c’è una trappola. Non si può lottare per l’egemonia perché sarebbe mutarla in dominazione, una cosa che le rivoluzioni vittoriose hanno presto dimenticato. L’egemonia si consegue in modo naturale, per usare un termine affine a Marx: per contagio, empatia o risonanza, con modi di fare che convincono ed entusiasmano. Mi pare che recuperare il dibattito strategico sia più importante, al fine di cambiare il mondo, che l’ennesima denuncia contro l’imperialismo. È ancora necessario firmare appelli, ma non basta

 

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