novembre 2014

Chiedetelo a Abu Rani.
di Valentina D.

Nei villaggi palestinesi non si fa più resistenza? Le manifestazioni del venerdì sono diventate solo un teatrino di internazionali e israeliani in cerca di emozioni forti? Tutto fa parte della normalizzazione?

Chiedetelo a Abu Rani. Avrà forse quarant’anni, anche se ne dimostra molti di più. La pelle scura bruciata dal sole, lo sguardo stanco e dolce. Ha un figlio in carcere per aver partecipato alle manifestazioni del venerdì. L’hanno preso di notte, in uno dei continui raid notturni compiuti dall’esercito israeliano nelle case dei palestinesi che resistono. Gli altri suoi figli sono nel campo con noi a raccogliere le olive, i due più piccoli di 9 e 10 anni non hanno molta voglia di lavorare, vorrebbero solo giocare. La moglie tiene il ritmo con i suoi Yalla Yalla!! Una pausa ogni tanto, ma rapida per il thè, o il caffè, o la “colazione” delle 11 con hummus, labanè, patate, olive, salsette, melanzane grondanti olio e quintali di pane. Lui però ogni tanto mi fa un gesto con la mano perché mi sieda a riposarmi e ci fumiamo una sigaretta insieme, in silenzio, seduti sulla terra arida all’ombra di un ulivo. Non abbiamo lingue comuni per comunicare ma non importa poi tanto.

Dopo 8 ore di raccolta ci carica tutti sul suo trattore e andiamo nella loro fattoria. C’è ancora da fare per lui  e sua moglie: scaricare i sacchi di olive, dar da mangiare agli animali, mungere la mucca, aggiustare la ruota del carretto. Sono le 6 di sera passate quando finalmente si possono riposare e mangiamo con loro la makluba che lei ha preparato: una montagna di riso, patate e carne d’agnello. La giornata è finita e domani si ricomincia. Per noi sono solo pochi giorni, per loro è sempre così. Poi arriva il venerdì, la giornata di riposo e preghiera. O almeno così dovrebbe essere, se non ci fosse l’occupazione. Ma l’occupazione c’è e si mostra molto bene con i soldati schierati sulla collina pronti a sparare i lacrimogeni, i proiettili “rivestiti” di gomma che faranno finire due ragazzi all’ospedale quel giorno, l’acqua putrida che ormai ha imbrattato il terreno e fa puzzare tutta quell’area.

Io, internazionale, per la seconda volta in Palestina, cammino col corteo in quel caldo venerdi di ottobre insieme ai tanti palestinesi di Kufr Qaddoum, qualche internazionale e due o tre israeliani. Penso (o forse mi illudo) che esporre il mio corpo alla violenza dei soldati israeliani dovrebbe servire. A cosa? A poco, lo so. A dimostrare la mia solidarietà ai palestinesi, a far vedere ai soldati che questo popolo non è solo.

 Abu Rani è lì con i suoi figli e con gli altri uomini del villaggio. Tiene la maschera antigas in mano e, guardando avanti, valuta la situazione. Anche quel giorno c’è da fare per lui, per affermare il suo diritto ad essere lì, a vivere sulla sua terra, ad attraversare quella strada palestinese sbarrata dall’esercito da dieci anni. C’è da correre, c’è da respirare a fatica, c’è il rogo di copertoni da tenere acceso affinchè il fumo protegga gli shebab dagli attacchi dei soldati, c’è da schivare la skunk water, c’è da evitare i proiettili, c’è da lanciare pietre contro lo scavatore dell’esercito che sposta le pietre e i copertoni. Ci rifugiamo in un angolo ad asciugarci gli occhi, attraverso le lacrime dovute ai lacrimogeni ci si scambiano sguardi indescrivibili.

Corrono insieme, tra il fumo nero dei copertoni e il fumo bianco dei lacrimogeni, il sindaco del villaggio, il banchiere che lavora a Qalqilya, il contadino, lo studente universitario, il ragazzino con la fionda, il proprietario del negozio che una volta finita la manifestazione risolleva la serranda e offre succo d’arancia a noi e a tutti gli shebab stremati, il ragazzo con il passamontagna che trascina i copertoni e si ferma con noi per dirci che ha saputo che siamo italiani e dopo una decina di “Welcome!Welcome!” ci confessa che un suo grande sogno è visitare Venezia.

Questa è la resistenza quotidiana di Abu Rani e dei palestinesi di Kufr Qaddoum, tra il lavoro della terra e le manifestazioni, tra le colline desolate e le colonie, tra le strade sbarrate e i figli in carcere.  

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