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10 febbraio 2014

Semina fame, raccogli rabbia; perchè la Bosnia è in fiamme
di Chiara Milan
traduzione di Giuseppe Volpe

La Bosnia-Herzegovina alla fine è emersa dai margini, ancora una volta da paese in fiamme. Il 5 febbraio lavoratori licenziati delle fabbriche recentemente privatizzate della città di Tuzla, la terza più grande della Bosnia-Herzegovina, sono scesi in piazza per rivendicare l’assistenza sanitaria e il pagamento delle pensioni, per ricevere i loro cinquanta mesi di paghe arretrate e per esigere che il governo combatta la disoccupazione giovanile, la cui percentuale in Bosnia-Herzegovina è salita al sessanta per cento.

Le proteste, organizzate dai sindacati locali e dall’associazione dei disoccupati del cantone e annunciate sulla pagina Facebook “50.000 per un domani migliore”, hanno visto la partecipazione di studenti e cittadini che si sono schierati di fronte all’edificio del tribunale cantonale prima di spostarsi all’edificio del governo cantonale con l’intenzione di entrare nella sua sede. Respinti violentemente dalla polizia i manifestanti hanno cominciato a lanciare uova e pietre contro la parete dell’edificio, mentre la polizia antisommossa – intendendo difendere gli ingressi dell’edificio cantonale – hanno reagito con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. La città di Tuzla è stata completamente bloccata e alla fine della giornata risultano essere state arrestate ventisette persone, mentre altre ventitré sono rimaste ferite.

Poiché i lavoratori non si sono arresi, sono seguite altre due giornate di proteste. Nel giro di giorni, sei marce di solidarietà con i lavoratori di Tuzla sono state organizzate in tutta la Bosnia-Herzegovina, in entrambe le entità semi-autonome che compongono il paese dopo la fine della guerra: la Republika Srpska, l’entità prevalentemente serva e la Federazione della Bosnia-Herzegovina, l’entità bosniaco-croata. Tuttavia, mentre la riunione a Banja Luka, la capitale dell’entità serba, ha seguito un percorso pacifico, a Zenica, Mostar e Sarajevo le proteste si sono trasformate in una guerriglia urbana.  

Dopo che la sede governativa di Tuzla è stata data alle fiamme e che  il capo del cantone, Sead Čauševič, si è dimesso, il terzo giorno dei disordini è stata incendiata anche la sede del governo cantonale di un’altra città industriale, Zenica, e anche il suo capo si è dimesso. In quello stesso giorno sia la sede del comune sia l’edificio cantonale della città etnicamente divisa di Mostar sono stati incendiati, assieme alle sedi delle direzioni dei due principali partiti, il croato HDZ e il bosniaco SDA. Nella capitale, Sarajevo, l’edificio presidenziale, che ospita gli archivi nazionali, e il consiglio cantonale e cittadino sono divenuti bersaglio della rabbia, simboli di una classe politica corrotta e incompetente che ha saccheggiato il paese dalla fine dell’ultima guerra. A Sarajevo la polizia ha reagito inizialmente con granate stordenti e pallottole di gomma e scontri sono stati riferiti nell’area di Skenderija.

Anche se in questo momento le analisi e i dibattiti sono incentrati sulla svolta violenta assunta dalle proteste, val la pena, tanto per cominciare, di fare un passo indietro a dove e perché le proteste sono emerse. Tuzla, la “terra del sale”, ha avuto una vocazione industriale sin dai tempi dell’Austria-Ungheria. La città multietnica, un incrocio di popoli diversi, è nota per essere una roccaforte del Partito Socialdemocratico (asseritamente multietnico). Le maggiori fabbriche dell’area, nazionalizzate sotto il sistema socialista, hanno subito un processo di privatizzazione dopo la guerra che ha portato alla loro bancarotta e alla conseguente perdita del posto per la maggior parte dei lavoratori.

Dopo la privatizzazione nel 2007 della fabbrica di detersivi DITA il suo principale azionista – pesantemente indebitato con le banche – non ha versato i contributi previdenziali e quelli per l’assistenza sanitaria per i lavoratori e, anche se citato in giudizio, non può essere processato per la sua asserita impossibilità di comparire in tribunale *. In seguito alla chiusura dell’azienda, nel 2012 i dipendenti della DITA – un gigante che prima della guerra garantiva 1.400 posti di lavoro – hanno scelto di non scendere in sciopero ma piuttosto di organizzare picchetti all’esterno della fabbrica. Oggi, dopo più di un anno di proteste e di fame, alla fine il mondo è venuto a conoscenza dei loro reclami.

I lavoratori di Tuzla sono soltanto un sintomo del collasso economico del paese, il cui sistema amministrativo e politico – imposto dall’esterno – non ha mai funzionato. La loro indignazione collettiva riporta la questione della politica economica nell’agenda bosniaca, mentre i politici hanno cercato di nascondere le condizioni del paese giocando la carta etnica. Con un tasso di disoccupazione complessiva prossimo al 28%, una corruzione endemica e un sistema giudiziario inefficiente, i lavoratori di Tuzla hanno dimostrato che la precarietà, come conseguenza della privatizzazione neoliberale delle loro aziende, colpisce tutti i settori della società.

La Bosnia è tornata sotto i riflettori questa volta non come la periferia dimenticata dell’Europa, ma come un simbolo di come la miscela letale della “transizione efficiente” (tradottasi giustamente in  privatizzazioni fallite) e le politiche forzate da UE e USA (tradottesi in un sistema amministrativo inefficiente e completamente irresponsabile) possano portare a una rabbia incontenibile contro l’intera classe politica che, come ha già urlato l’estate scorsa il popolo della Bosnia-Herzegovina, non rappresenta altro che le élite etniche.

Questa volta la carta etnica non può più essere giocata perché insieme con i lavoratori di DITA, Konjuh Resod-Gumig, Polihem e Poliolchem (tutte fabbriche recentemente privatizzate che sono fallite a Tuzla) ci sono gli studenti, cui è stato negato il diritto di partecipare al programma europeo Erasmus+ in conseguenza dell’indisponibilità dei politici di trovare un accordo tra i diversi ministeri dell’istruzione, la comunità LGBTQ, brutalmente attaccata da estremisti religiosi nel corso dell’ultimo Festival Internazionale Gay a Sarajevo e tutti quei soggetti i cui diritti sono negati nell’interesse di una riuscita “transizione” a quella stessa Unione Europea che continua ad alimentare e a legittimare la classe politica del paese.

Oggi la Bosnia sta davvero entrando in Europa, ma da una prospettiva molto diversa da quella immaginata in origine dai burocrati europei: le sue piazze bruciano come quelle greche, spagnole e turche.


* Grazie a Emin Eminagic per le informazioni sul processo di privatizzazione della DITA.

Chiara Milan ha un dottorato di ricerca sulla società civile e i movimenti sociali nell’Europa sud-orientale presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze ed è una redattrice dell’East Journal.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Originale: http://www.zcommunications.org/sow-hunger-reap-anger-why-bosnia-is-burning-by-chiara-milan

 

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