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16 febbraio 2014

La balcanizzazione della Bosnia
di Andrej Grubacic
traduzione di Giuseppe Volpe

Diverse settimane fa Der Spiegel ha pubblicato un saggio a proposito della Bosnia contemporanea. Questa ex repubblica jugoslava non è stata un soggetto particolarmente trattato negli ultimi anni, ma il 2014 è diverso. Quest’anno è centenario del “peccato originale” dei Balcani, l’assassinio dell’arciduca austriaco Ferdinando sul ponte Princip nel 1914. Scopo dell’autore del saggio era “esaminare le conseguenze moderne della prima guerra mondiale”, ma anche comprendere perché la Bosnia resta ancor oggi un “luogo problematico”.

Dunque che cos’è la Bosnia oggi, secondo Der Spiegel? Questo sfortunato paese, afferma l’articolo, è un “paesaggio selvaggio di foreste e dirupi”. Da incrocio di antichi odi etnici, dove ogni comunità etnica ha una verità propria, la Bosnia è “un paesaggio di vecchie ferite coperte da tessuto cicatriziale scarsamente guarito”. Questi odi etnici presentano, ancor oggi, “una minaccia alla stabilità nel cuore dell’Europa”. Questa “selvaggia, montagnosa nazione balcanica” ha riacquistato “la triste notorietà acquistata più e più volte come scena di bagni di sangue”.

L’autore procede con alcune righe prese da un racconto di uno di principali romanzieri del paese, Ivo Andric: “Sì, la Bosnia è un paese di odio …  quest’odio specificamente bosniaco andrebbe studiato e sradicato come una specie di malattia perniciosa, profondamente radicata. Gli studiosi stranieri dovrebbero venire in Bosnia a studiare l’odio, riconosciuto come oggetto di studio classificato a parte, come lo è la lebbra”.

Tra quelli venuti a studiare quest’odio specificamente bosniaco c’è un diplomatico austriaco di basso livello, Valentin Inzko. Questo burocrate austriaco è l’Alto Rappresentante per la Bosnia-Herzegovina, l’autorità civile di livello più elevato del paese.

Anche se l’articolo ammette che è “un’ironia della storia che gli austriaci siano di nuovo al comando a Sarajevo, in questioni sia civili sia militari, un secolo dopo l’assassinio”, Inzko offre una spiegazione del perché la Bosnia deve restare un protettorato europeo: “L’Europa va giudicata da come risolve il problema della Bosnia-Herzegovina, perché si tratta del nostro cortile posteriore”. Secondo l’Alto Rappresentante la presenza coloniale dell’Unione Europea è necessaria perché mussulmani, croati e serbi “sono chiaramente privi di quelli che egli chiama la base di uno stato funzionante”. Il principale problema della Bosnia è la mancanza di “accordo fra tre gruppi etnici”.

In altre parole, l’eccesso di odio etnico e la mancanza di maturità politica esigono che gli europei mantengano il loro ruolo in Bosnia. Difficilmente potrebbe esserci una conclusione che stimoli di più la riflessione, conclude l’articolo, per “un luogo che ha avuto un ruolo fatale nella storia europea”. L’articolo trascura di citare la corruzione diffusa, la disoccupazione al 40%, la fame e lo scontento per il violento processo di privatizzazione, tutte conseguenze dell’economia capitalista imposta dalla “comunità europea”.

Un mese dopo l’articolo del Der Spiegel la Bosnia è in un promettente stato di instabilità sociale non nazionalistica. La gente si organizza dovunque, da Tuzla a Mostar e plenum – forme locali di democrazia diretta e procedura decisionale collettiva – sono stati creati in diverse città. Gli edifici governativi sono dati alle fiamme. I lavoratori sono in piazza a chiedere l’annullamento di varie privatizzazioni “fallite” (questa espressione insolita implicherebbe che ce ne siano di riuscite). Persone che si presume soffrano di quel pernicioso, “male profondamente radicato” dell’odio etnico, marciano e protestano insieme, reclamando la fine della povertà e delle privatizzazioni. Uno degli slogan dice “Morte al nazionalismo”. Un altro proclama “Chi semina fame raccoglie rabbia”. Una foto dalla città di Mostar è fatta diffusamente circolare; mostra un gruppo di giovani che sventola la bandiera della Jugoslavia socialista. Élite nazionaliste locali fanno circolare fantasiose  teorie cospirative scioviniste ricordando alla gente le recenti guerre etniche. La prospettiva che i bosniaci si uniscano oltre le divisioni etniche è davvero terrificante. L’Alto Rappresentante Inzko ha addirittura ammonito circa la possibilità di inviare truppe della UE per impedire ai bosniaci “di darsi a saccheggi”.  

Rimarchevolmente, non si trova molto a proposito della rivolta bosniaca sui giornali statunitensi. Un breve articolo sulla Bosnia è finito nascosto da qualche parte nella sezione mondiale del New York Times di ieri. Se paragona con la copertura mediatica offerta all’Ucraina, la mancanza di attenzione potrebbe apparire sorprendente. Tuttavia il silenzio acquista molto senso sulla scia della campagna elettorale di Hillary Clinton: la Bosnia doveva essere una storia vincente dei Clinton. Dalla fine della guerra jugoslava, la Bosnia è stata trasformata in un protettorato-laboratorio dove la “comunità internazionale” osserva come trasformare “stati falliti” – dal Kosovo all’Iraq – in stati stabili e obbedienti. La sua Costituzione è stata il prodotto di un “intervento umanitario” dell’amministrazione Clinton, che curò la supervisione del cosiddetto Accordo di Dayton del 1995. Questa bizzarra soluzione costituzionale, con due regioni autonome, dieci cantoni, una città separata e fino a 150 ministeri, è stata costruita al fine di tenere quelli che in Bosnia effettivamente ci vivono, il più lontano possibile dal processo politico. Secondo la diagnosi di vari esperti europei e rappresentanti coloniali, il popolo della Bosnia manca della capacità politica necessaria per decidere della sua stessa Costituzione. Senza una supervisione attenta il popolo che vive nel “cortile posteriore dell’Europa” tende a diventare “ingovernabile”. Il caso della Bosnia illumina un atteggiamento occidentale più generale nei confronti della Penisola Balcanica.

L’ex presidente Clinton è stato molto chiaro sul fatto che l’”Europa non ha altra scelta che portare l’intera area dell’Europa sud-orientale all’interno della famiglia europea… e debalcanizzare i Balcani una volta per tutte”. Molti giornalisti e studiosi si sono uniti a lui nel segnare che il popolo balcanico deve essere domato e civilizzato. C’è stato qualche disaccordo sull’origine esatta della “ferocia innata”. Secondo Robert Kaplan, autore di “Fantasmi dei Balcani”, si tratta dell’assenza di luce: “Questo (i Balcani) è stato un mondo chiuso in una capsula temporale: un palcoscenico dalla luce fioca in cui la gente si è infuriata, ha sparso sangue, ha sperimentato visioni ed estasi. Tuttavia le espressioni delle persone sono rimaste fisse e distanti, quasi di statue polverose”. Altri, come un giornalista britannico, danno la colpa ai modi a tavola: “La ferocia della gente balcanica è stata a volte così primitiva che gli antropologi l’hanno paragonata agli Yanamamo delle Amazzoni, una delle tribù più feroci e primitive del mondo. Sino al volgere del secolo attuale, quando il resto dell’Europa si interessava tanto dell’etichetta sociale quanto della riforma sociale, arrivavano ancora notizie dai Balcani di teste di nemici decapitati presentate come trofei su piatti d’argento alla tavola dei vincitori. Né ai vincitori era ignoto mangiare cuore e fegato del perdente … I libri di storia mostrano una terra di assassinii e vendette prima che arrivassero i turchi e molto tempo dopo che se n’erano andati.”  Autrice dello splendido libro ‘Inventing Ruritania’ [L’invenzione della Ruritania], Vesna Goldsworthy chiama questo filone di argomenti “razzismo di sottigliezze”. Concordo con il razzismo, ma devo dire che non vedo la sottigliezza. La Goldsworthy cita un ex rappresentante dell’ONU in Kosovo che ha scritto sul Guardian che governare il Kosovo è come “vestire un bambino; gli dai i pantaloni dell’economia, la camicia dell’istruzione, la giacca della democrazia, eccetera. E per tutto il tempo il bambino vuole correre fuori a giocare in mutande. Se lo si lascia fare, potrebbe farsi male”. Alla radice del problema balcanico potrebbero esserci le mutande? Simon Winchester non sarebbe d’accordo. Egli pensa si tratti di qualcosa che ha a che fare con le montagne: “Che cos’è esattamente che ha caratterizzato questa particolare penisola, questo particolare giro di monti e piane, caverne e torrenti, e lo ha reso proverbiale, del tutto letteralmente, di ostilità e violenza? Quali forze sono state realmente all’opera qui? Le due catene [cioè, montane] si sono scontrate l’una contro l’altra a creare una zona geologica di frattura che è diventata un paradigma del comportamento del modello di frattura di quelli che vi sarebbero successivamente vissuti sopra.” E proprio come questi “strani e ferali Balcani” sono bizzarri e diversi dal resto dell’Europa,  o suoi abitanti, “le genti selvatiche e refrattarie dei Balcani”, sono fondamentalmente, e antropologicamente, diversi: “Si potrebbe dire che chiunque sia vissuto a lungo in un luogo simile probabilmente si trasformerà in qualcosa di sostanzialmente diverso, nel bene e nel male, da quale che sia la normalità umana”. Per quanto illuminanti possano essere queste riflessioni, secondo me fu George Kennan ad arrivare più vicino alla verità. Kennan fu una figura chiave della politica USA di contenimento, e uno dei primi e più importanti esperti dei Balcani. Egli riconobbe che la storia presentava una difficoltà cruciale per gli europei e statunitensi civilizzati: “Ciò contro cui ci scontriamo è il triste fatto che lo sviluppo di quelle prime epoche, non solo quelle della dominazione turca ma anche quelle precedenti, hanno avuto l’effetto di spingere nelle propaggini sud-orientali del continente europeo una protuberanza di civiltà non europea che ha continuato fino a oggi a conservare le sue caratteristiche non europee, comprese alcune che si adattano al mondo di oggi meno di quanto si adattavano al mondo di ottant’anni fa …”

Kennan fu nel giusto nel segnalare due fattori importanti: uno è la miscela etnica e culturale dei popoli balcanici, una “macedonia” etnica, una penisola più diversa e tollerante della diversità che non il resto dell’Europa. L’altro fattore è un testardo rifiuto di ciò che è imposto al popolo balcanico come “Europa” e “civiltà”. Quello che è comune a tutte queste caratterizzazioni è ciò cui mi riferisco come al “balcanismo metodologico”. Questo approccio comune nella letteratura accademica relativamente ai Balcani, naturalizza “antichi odi etnici” ignorando la complessa interazione tra pratiche europee, ottomane e locali condensata nel termine ‘balcanizzazione’. Come ha dimostrato, in un diverso contesto, Manu Goswami, questo metodo presuppone, piuttosto che esaminarle, la produzione e la condensazione di questi costrutti specificamente moderni.  Nel balcanismo metodologico gli “antichi odi etnici” hanno acquistato la fissità del luogo comune. Il balcanismo metodologico oscura un processo storico dinamico di produzione di queste differenza etniche, così come la lotta per superarle. Queste storie messe a tacere, queste altre balcanizzazioni, sono radicalmente relazionali, nel senso che non rappresentano un dominio socio-culturale autonomo “esente da mediazione coloniale o capitalista”. Non costituiscono una differenza preesistente e irriducibile; sono, invece, un “prodotto dialettico dell’incontro protratto di colonialismo e prassi ricevute, soggettività e categorie di interpretazione.”

Rifiutare il balcanismo metodologico significa comprendere la storia dei Balcani come qualcosa di più che non semplicemente una storia di divisioni etniche, per quanto reali tali divisioni siano e siano state. Significa vedere l’altro lato della balcanizzazione: una storia di lotta perpetua contro le divisioni etniche, contro la colonizzazione e contro l’imperialismo. La debalcanizzazione dei Balcani di Clinton tenta di sradicare una visione persistente di una società trans-etnica, di un mondo frammentato di lotte anticoloniali, un mondo di eretici bosniaci (i bogomili), di predoni di mare e di terra (gli aiducchi e gli uscocchi), ribelli e rivoluzionari, antiautoritari, socialisti-federalisti, jugoslavi, partigiani e antifascisti. La balcanizzazione potrebbe essere una questione di frammentazione, ma non esclusivamente di genere etnico-nazionalistico: la balcanizzazione implica anche resistenza, oltre a un’alternativa relativamente autonoma, decentrata e federata alla violenza centralizzazione degli stati-nazione e alle unioni europee. E’ lì che risiede la vera minaccia dei Balcani; è per questo che la balcanizzazione va arrestata e i Balcani devono essere “debalcanizzati”.

I giornalisti di Der Spiegel colgono un punto importante: la Bosnia è tuttora una “minaccia alla stabilità nel centro dell’Europa”, ma non per i motivi che essi sostengono. Nonostante le parole del burocrate europeo citato nell’articolo, il popolo bosniaco con le sue proteste ha dimostrato chiaramente che c’è “condivisione tra i tre gruppi etnici”. Serbi, mussulmani e croati chiedono tutti la fine delle privatizzazioni e della violenza economica. Dovrebbero, e spero lo faranno, chiedere la fine dell’economia capitalista e la fine del dominio straniero in un paese che è, cento anni dopo i fatali colpi di pistola di Princip, ancora una volta un protettorato europeo. La Bosnia ha una storia così ricca di lotte coraggiose, con alcune delle battaglie più decisive contro il fascismo combattute in tale paese. L’idea socialista jugoslava di “fratellanza e unità”, per quanto paradossale possa suonare, non è stata in nessun altro luogo così reale come nella Bosnia anteguerra. E’ questo che rende così nervoso Sua Eccellenza, l’Alto Rappresentante. Le élite periferiche dei vicini stati post-jugoslavi annuiscono in approvazione all’Unione Europea, timorose di quella che anch’esse chiamano la “balcanizzazione della Bosnia”. Sono terrorizzate che lo “scenario bosniaco” possa ripetersi in Serbia, Montenegro o Croazia.

Speriamo che abbiano ragione. Speriamo che la loro paura sia giustificata. Un secolo dopo l’atto coraggioso di quel giovane bosniaco, Gavrilo Princip, dovremmo ricordare a noi stessi le famose parole pronunciate al suo processo: “Miro all’unificazione di tutta la Jugoslavia, e non mi interessa in quale forma di stato, ma dev’essere liberata dall’Austria”. Non dimentichiamo mai queste parole. Non dimentichiamo mai la lotta dei partigiani bosniaci. Speriamo che questa magnifica e orgogliosa “nazione balcanica, montagnosa e selvaggia” continui a essere un contagioso “luogo problematico”, un luogo che ispiri i lavoratori disoccupati e gli studenti di altri paesi post-jugoslavi e seguirne l’esempio e a balcanizzarsi dal mondo civilizzato degli stati-nazione, dai protettorati europei e dalle relazioni sociali capitaliste.


Il dottor Andrej Grubacic è direttore del programma di antropologia e cambiamento sociale presso il California Institute of Integral Studies di San Francisco. E’ autore di “Don’t Mourn, Balkanize: Essays after Jugoslavia”  [Non osservate il lutto, balcanizzate! Saggi post-Jugoslavia].


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/the-balkanization-of-bosnia/

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