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Martedì 25 Febbraio 2014

Il Kosovo come paradigma di conflitto e di un lavoro sul campo
di Gianmarco Pisa

Dopo la guerra del Kosovo del 1998-1999, il processo di ricomposizione sociale e, in definitiva, di ripristino della fiducia è stato sviluppato, a più riprese e sulla base di mandati, profili di impegno ed ambiti di competenza diversi, tanto dai civili quanto dai militari. Tuttavia i compiti specifici di peace building (la costruzione di un processo di pace positiva, basato non solo sull'inibizione della violenza ma soprattutto sull'eradicazione delle radici della violenza, attraverso un lavoro di ri-costruzione del legame e di intervento sulle cause), di confidence building (l'azione di ripristino della fiducia attraverso le linee di separazione tra i contendenti, prima sulle singole comunità etnicamente connotate e quindi stimolando occasioni di condivisione, in modo da ri-collegare il tessuto della relazione, della comunicazione, dell'ascolto, della fiducia e della reciprocità) e, non meno importante, di riconciliazione possibile (che giunge “a valle” di quanto realizzato “a monte” in termini di superamento degli stereotipi, abbattimento del pregiudizio ed umanizzazione del nemico), attengono in maniera sostanzialmente esclusiva ai civili. Infatti, solo il personale civile, purché fornito delle necessarie competenze, può affrontare in modo, al tempo stesso, legittimo, affidabile e credibile, l'azione di inibizione della violenza senza l'uso delle armi, senza il ricorso alla violenza, anzi, specificamente, mediante l'approccio costruttivo proprio della nonviolenza (Lederach 1995).

Il problema delle capacità civili è anche il problema delle risorse messe a disposizione dei civili: secondo stime affidabili e più volte ricordate, elaborate distintamente dal Trans-national Foundation for Peace and Future Research (TFF), dall’Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace di Stoccolma (SIPRI) e, in Italia, dalla Rete Italiana per il Disarmo, oggi, per ogni euro speso per la prevenzione della guerra, si spendono circa dieci mila euro per fare la guerra, vale a dire per tutto quanto connesso alla proiezione offensiva e alla configurazione dei sistemi d'arma. Il problema delle risorse, a sua volta, si pone sia in termini di risorse materiali (legate alle spese di investimento nel settore delle politiche per la Difesa Civile, ovvero per il lavoro di pace complessivamente inteso, soprattutto per quei suoi profili riguardanti la promozione dei diritti umani, il processo democratico e lo stato di diritto, il monitoraggio civile ed elettorale, la prevenzione, gestione e trasformazione dei conflitti), sia in termini di risorse umane, essendo sempre più necessario uscire dalla logica del volontarismo per costruire professionalità preparate all'intervento di sistema nella gestione dei conflitti, sia di ambito locale sia, specificamente, di ambito internazionale, ai vari livelli della escalazione e secondo i diversi gradi di estensione che il contesto ne consegna (Schirch 2006).

Intervenire e, sulla base di questi presupposti, lavorare “sul” e “nel” conflitto, quindi sia sul piano della ricerca, dell'analisi e della documentazione, sia lungo il profilo dell'inter-posizione, della facilitazione e della mediazione, rappresenta un vero e proprio cimento, all'interno del quale si muovono tanto le motivazioni e le condotte di ispirazione morale ed etica, quanto le capacità e le abilità a connotazione motivazionale e professionale. Com'è noto, sono numerosi i motivi per cui le “ragioni” della guerra normalmente prevalgono sulle “ragioni” della pace, ravvisandosi in queste sia motivazioni di ordine strutturale (materiali, economiche e sociali) sia motivazioni di tipo sovra-strutturale (culturali, morali, ideologiche, politiche e giuridico-normative):

1. la combinazione tra l'ideologia corrente e l'interesse strategico delle élite dominanti tende a consolidare lo schema “noi contro loro” e produce una sostanziale legittimazione, quando non una vera e propria infatuazione, per il militare, inteso, al tempo stesso, come insieme degli apparati della difesa tradizionale, dei sistemi d'arma e dei vettori della sicurezza nazionale;

2. i Paesi prevalenti sulla scena mondiale sono, allo stesso tempo, Paesi dalla tradizionale “politica di potenza” nelle relazioni internazionali, quando non Paesi dominanti con specifici interessi imperialistici, refrattari al principio di legalità e di controllo internazionale (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna in primis e, intorno a loro, il sistema d'alleanza euro-atlantico);

3. il controllo delle fonti non rinnovabili di energia (carbone, gas naturale, idrocarburi fossili) e delle nuove risorse della biosfera (acqua, aria, terra, coltan, forza lavoro a basso costo ed alto valore aggiunto) si estrinseca tipicamente ancora attraverso il militare come strumento di acquisizione, depredazione e controllo e come moltiplicatore di istanze di dominio senza egemonia;

4. la crisi economica e sociale (ma anche politica e culturale) a livello mondiale induce risposte sicuritarie, auto-referenziate e pseudo-rassicuranti e rinfocola, di conseguenza, pulsioni radicali, nazionaliste e militariste come possibile via di uscita dalla situazione di stallo e plausibile strumento di contrasto all'ascesa di competitori mondiali in aree ex-periferiche del pianeta;

5. la minaccia costante del “nazionalismo”, in tutte le sue forme, esprime separatismi, localismi ed egoismi regionali in molti Paesi a capitalismo avanzato; conflitti inter-etnici nei contesti attraversati da istanze di rivendicazione etno-politica ed auto-determinazione nazionale, come in molti Paesi nel mondo post-socialista o arabo-islamico, dal Vicino Oriente ai Balcani Occidentali.

A meno di non voler perpetuare il meccanismo perverso di minaccia presunta e aggressione armata, eretto persino a premessa della dottrina della “guerra preventiva”, si impongono qui ragioni profonde e decisive per scegliere l'intervento civile non armato e nonviolento per la risoluzione dei conflitti, in particolare attraverso lo strumento, variamente declinato a seconda dei contesti normativi, dei Corpi Civili di Pace, secondo quanto previsto dalla normativa comunitaria (in particolare, la raccomandazione del Parlamento Europeo del 10 febbraio 1999 sull'istituzione di un CCP Europeo e la risoluzione del Parlamento Europeo sulla comunicazione della Commissione del 13 dicembre 2001 per l’istituzione di un Corpo Civile di Pace nell’ambito del Meccanismo di Reazione Rapida):

1. il compito di rafforzare la parte lesa all'interno di un conflitto squilibrato, per consentire alle vittime di ri-acquisire consapevolezza dei propri diritti, delle proprie prerogative e della propria dignità ed avviare una relazione, costruttiva perché paritaria, con la contro-parte (empowerment);

2. il compito di accompagnare (scorta civile disarmata) e proteggere (interposizione civile nonviolenta) le persone sotto-poste a pericolo o minaccia della propria incolumità fisica, in particolare tra i civili nonviolenti più in vista nella propria comunità o tra gli/le attivisti/e per la pace e i diritti umani;

3. il compito di organizzare il monitoraggio dei conflitti, sia per studiarne la dinamica, l'escalazione, la condotta, gli obiettivi e l'orientamento delle parti, sia, specificamente, per realizzare una peace analysis a scopo di allarme preventivo (early warning) e di intervento rapido (early action);

4. il compito di costituire contingenti civili passibili di dispiegamento tempestivo (rapid deployment) in area di conflitto, allo scopo di prevenire l'escalation e di consentire il mantenimento dei canali di comunicazione tra le parti, anche per attivare l'interposizione nonviolenta, rafforzare il lavoro degli attori di pace a livello locale ed attivare i potenziali di pace locali (le peace constituencies);

5. il compito di intercettare le persone, incontrarle e parlarvi, metterle in condizione di relazionarsi e dialogare, ri-costruire il meccanismo della fiducia e della solidarietà, de-mistificare i luoghi comuni portati dalla propaganda di guerra, stimolare la re-umanizzazione del nemico, contribuire ad una comunicazione paritaria e libera, sollecitare la partecipazione attiva al processo sociale.

Organizzare i Corpi Civili di Pace significa, in definitiva, organizzare una “procedura”, in senso generale, ovvero mettere a valore un vero e proprio “dispositivo”, che consenta di predisporre canali di azione utili alla trasformazione del conflitto, valorizzando risorse e competenze disponibili, enfatizzando la sensibilità dei “potenziali” locali, dal momento che gli attori della trasformazione del conflitto sono in primo luogo gli attori del “proprio” conflitto, e comporta di fornire capacità, risorse e strumenti per la preparazione. Alcune di queste risorse appartengono, peraltro, alla “cassetta degli attrezzi” tipica della “officina della nonviolenza” (Patfoort 2006):

1. l'educazione popolare nonviolenta può sprigionare una risorsa fondamentale, in quanto educa ad alcuni principi fondamentali per l'azione diretta nonviolenta, quali l'individuazione delle cause e l'intervento sulle cause, la capacità di separare le persone dai problemi, l'esigenza di distinguere i bisogni dalle rivendicazioni, senza mortificare le persone all'interno della dinamica di conflitto e consentendo l'adesione del contesto al processo complessivo di trasformazione;

2. il contro-sostegno ai movimenti nonviolenti dovrebbe tramutarsi in una autentica mobilitazione democratica: si prendano ad esempio le repressioni sistematiche dei movimenti di conflitto, del movimento degli “Indignados” o di “Occupy Wall Street” o di “Gezi Park” e si vedrà rappresentata in maniera plastica la distanza che separa le élite al potere dalle istanze che esprimono, in maniera nonviolenta, così ampi settori del movimento democratico popolare e giovanile;

3. l'azione diretta, a sua volta, va concepita come un percorso di lunga durata, fatto di educazione, apprendimento, maieutica, sviluppo di tecniche e capacità di iniziativa, appunto per rappresentarvi una risposta che sia all'altezza della portata del conflitto che, se da un lato non è evitabile, tanto meno riducibile a zero, in quanto rappresenta una datità costitutiva della relazione sociale, dall'altro si configura sempre come “processo” storico più che come “evento” occasionale.

In relazione a questi assunti, la sperimentazione concreta di Corpi Civili di Pace, se può fare a meno, dal punto di vista “funzionale”, di una normativa nazionale di riferimento (il profilo-chiave, la bussola dell'intervento civile di pace, resta infatti la “Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, gruppi ed organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani”, risoluzione UNGA 53/144, datata 8 marzo 1999), non ne può tuttavia prescindere sotto il profilo “di sistema”, dal momento che un Corpo Civile di Pace non è solo uno strumento di prevenzione, gestione e trasformazione del conflitto, ma anche un elemento della Difesa Civile, in particolare nella prospettiva del “transarmo” e del “trascendimento” (Galtung 1986).

In tal senso, l’approvazione, da parte della Città di Napoli, del progetto per “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, ha costituito un traguardo e, al contempo, un punto di partenza per il movimento italiano per il peace-keeping civile non armato e nonviolento, dal momento che ha reso tale progetto la prima sperimentazione di un Ente Locale esplicitamente dedicata alla costruzione di Corpi Civili di Pace in area di conflitto in ambito internazionale. Si tratta di una “novità” assai promettente, proprio perché in grado di valorizzare il contenuto di relazione tra comunità e territori, sprigionare nuove e buone prassi di condivisione ed intervento sui conflitti di prossimità ed attivare meccanismi di diplomazia popolare e di partecipazione civica, liberando gli attori dell'intervento di pace sia dal “vincolo di mandato” governativo sia dal grave imbarazzo dell'interazione con i militari.

Come è stato ricordato in letteratura, gli Enti Locali godono di una posizione privilegiata nel sistema delle relazioni internazionali e della proiezione internazionale del Paese, in quanto, grazie alla buona prassi del rapporto diretto con i cittadini e del partenariato istituzionale e “di comunità” con le società civili e le istituzioni locali straniere, consente loro di svolgere un ruolo fondamentale in politiche di intervento autonome e complementari rispetto all’uso di strumenti centrali. Soprattutto nel senso dell'approccio alla multi-track diplomacy, è quanto mai opportuno e necessario sotto-lineare come gli Enti Locali possano soddisfare il bisogno dei cittadini in quanto soggetti attivi di costruzione della pace, coinvolgendo realtà territoriali che altrimenti non avrebbero ruolo alcuno, né riceverebbero incarichi da parte del governo centrale (Berruti e Menin 2004).

Queste “coordinate” si sono rivelate fondamentali nell'esperienza dei “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, anche in forza della relazione diretta tra città: Napoli e Vicenza, in Italia; Mitrovica e Pristina, in Kosovo. Questa sperimentazione è stata costruita intorno a tre passaggi-chiave: il primo, tra il 2011 e il 2012, dedicato allo start-up e alla definizione dei presupposti di implementazione (team building); il secondo, nel corso del 2012, dedicato alla formazione di risorse per il capacity building a livello locale; il terzo, infine, tra il 2012 e il 2013, impostato in forma di sessioni-ponte ed azioni concrete in vista di ulteriori sedimentazioni, al fine di affrontare nuove ipotesi della ricerca-azione, mirata più specificamente alla riconciliazione a partire dai giacimenti culturali dentro e attraverso le comunità, in Kosovo e in Italia (lo sviluppo di progetto non a caso prevede, a Vicenza, l'attivazione, in predicato di inaugurazione nel 2014, del “Centro per la Previsione e la Prevenzione dei Conflitti Armati e la Formazione e la Preparazione dei Corpi Civili di Pace”).

Il programma di lavoro si è sviluppato secondo modalità orizzontali tra i partner (“Operatori di Pace - Campania” quali proponenti, IPRI - Rete CCP e, in Kosovo, il “Community Building Mitrovica”, la redazione della rivista “M-M@G” e l’“Association for Peace Kosovo” a Mitrovica, nonché in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia nella Facoltà di Filosofia dell'Università di Pristina), in forma di scambio peer-to-peer di concetto, metodologia e pratiche per i Corpi Civili di Pace. In tal senso, si è trattato di una vera e propria sperimentazione, lungo l'asse del confronto tra operatori di pace e operatori di società civile e per i diritti umani più che del mero “trasferimento di competenze”. Più che affrontare in maniera accademica le tematiche della peace-research e, nello specifico, della gestione formale dei conflitti, si è preferito partire da alcuni casi di studio ed impostare il lavoro sulla base di metodologie formative e auto-formative di carattere generale (non per questo meno puntuali) a valenza universale (non per questo non adattabili), come quella ispirata al modello “equivalenza” di P. Patfoort o quella desunta dall’applicazione del “triangolo del conflitto” di J. P. Lederach, corretta con la disamina delle articolazioni della violenza (materiale, culturale e diretta) ispirata dalla lezione di J. Galtung (per la quale si rimanda a Salio 2013).

Una modalità di approccio originale e innovativa, che ha consentito di fare maturare un vero e proprio ambiente della fiducia e adottare, nelle sessioni dedicate allo studio di casi, questioni persino problematiche e controverse, attraverso cui leggere “in filigrana” i passaggi più dolorosi della storia recente del Kosovo, come il ruolo delle formazioni armate durante il conflitto serbo-albanese del 1998-1999, la formazione delle odierne élite politiche nazionaliste sulla scorta della esperienza della guerra e della violenza, e la percezione degli scontri (pogrom) anti-serbi del triste, mai ricordato a sufficienza, 17 marzo 2004. Argomenti ancora, per molti aspetti, «tabù» o problematici in Kosovo, specie se misurati sul metro della narrazione corrente in auge (Zanella 2005).

Ciò che il lavoro dei “Corpi Civili di Pace in Kosovo” ha inteso mettere in evidenza è proprio l’orientamento costruttivo nel lavoro di peace-building quale ipotesi di community building a supporto delle peace constituencies (“potenziali di pace”), a sua volta presupposto dell’intervento degli attori di pace locali ai vari livelli di un post-conflitto particolarmente controverso, segnato da: a) separazione tra le comunità, plasticamente rappresentata dalle barricate sul ponte di Mitrovica, a cavallo tra la parte Nord, a larga maggioranza serba, e la parte Sud, ad ampia predominanza albanese, b) violenza nelle aree-obiettivo, espressa sia come “violenza culturale” attraverso la ri-proposizione dei paradigmi della contrapposizione, sia come “violenza diretta”, attraverso periodiche escalation, c) scardinamento del legame di fiducia, conseguenza della guerra etno-politica e della diffidenza istituzionale che intende legittimare la separazione politica tra le comunità maggioritarie, d) difficoltà nello sviluppo economico e nella promozione socio-culturale, e) diffusione, infine, non per importanza, di fenomeni criminali connessi alla violenza sociale, politico-culturale o etno-politica.

In un contesto segnato da tale problematicità e per un lavoro connotato da tale ambizione, la scelta dell’impianto metodologico assume un’importanza decisiva. La ricerca-azione è assunta da questi Corpi Civili di Pace quale metodologia saliente, in virtù del suo spiccato carattere di vettore di conoscenza e di intervento e quale presupposto ideale del lavoro sul conflitto, per individuarne le motivazioni e le retro-azioni, gli attori e gli interessi, e nel conflitto, per registrarne le evoluzioni nel teatro regionale e consentirne una ri-configurazione utile ai fini di un intervento di pace basato sul Peace and Conflict Impact Assessment (PCIA). In generale, essa consente proprio quella “sinergia orizzontale” tra operatori locali ed espatriati in grado di istituire ponti di comunicazione, rendendo l’esperienza di progetto una pratica di apprendimento reciproco e l’azione nel contesto una sperimentazione intorno agli attori, luoghi e circostanze del post-conflitto kosovaro, interrogando i soggetti, le dinamiche e le consuetudini sulla cui base più forte può affermarsi la proposta nonviolenta e più efficace può risultare il lavoro di trasformazione (Bush 2003).

Nello specifico, mira all’individuazione di quegli “attori di pace” che, agendo personalmente sul piano della produzione di pratiche civiche e di innovazioni socio-culturali, tramandano una memoria che si conserva nel contesto ed attraversa le generazioni e che può costituire un potente vettore di riduzione dello stereotipo e umanizzazione delle parti, in prospettiva della riconciliazione e della pace positiva. Come nella generalità dei conflitti etno-politici e, in particolare, nella fattispecie puntuale del conflitto kosovaro, il lascito forse più doloroso della guerra è proprio l’interruzione della comunicazione tra le parti, insieme con l’obliterazione di un patrimonio di memorie, tradizioni e pratiche, per diversi aspetti condiviso, che la separazione attraverso la violenza e la costruzione dell’immagine di nemico hanno nascosto, ma che pur sempre permane e che è necessario ripristinare per consentire nuove relazioni di dialogo e reciprocità.

Le pratiche di intervento orientate alla costruzione del gruppo locale di Corpi Civili di Pace hanno così consentito di confermare l’impegno dell’equipe kosovara (composta di giovani albanesi-kosovari e Serbi del Kosovo) al lavoro di contrasto alla violenza e di promozione della pace, indagando anche altri ambiti problematici della situazione sociale e politica del Kosovo a quindici anni dalla guerra (1999) e sei dall’unilaterale proclamazione (2008) di un’indipendenza - ad oggi - non riconosciuta dalla comunità internazionale: la separazione di Mitrovica, l’incomunicabilità portata dalla divisione tra le comunità, il ruolo della società civile, tra strumentalizzazioni delle élite politiche e tabuizzazione delle questioni controverse, quali le connotazioni stesse, tra indipendenza e auto-governo, confine e linea amministrativa, Stato e Provincia, senza dimenticare lo stato dei diritti umani presso le diverse comunità e le questioni specifiche di interesse condiviso, come il lavoro che manca e la libertà di espressione, associazione e movimento che sono violate. È grazie a queste evoluzioni che il progetto per “Corpi Civili di Pace in Kosovo” ha posto basi per il futuro, nella prospettiva dell'esplorazione dei giacimenti culturali e dell'individuazione di tratti di condivisione sulle cui scaturigini attivare ponti di reciprocità e dialogo, dentro e tra le comunità.

Compito precipuo dell'azione dei CCP in Kosovo, prima ancora che quello di stabilire una vera e propria ri-conciliazione, del resto ancora prematura, è quello di istituire spazi, momenti ed occasioni di confronto, umanità e reciprocità, sostenendo le rivendicazioni legittime e muovendosi lungo il solco tracciato da «tutti i diritti umani per tutti». Nel metodo, come coordinata di approccio, si tratta di muoversi per ri-costituire le basi della fiducia sociale, in linea con le aspettative legittime delle diverse comunità (e delle singole persone), pur senza entrare nel merito della questione dello status e delle questioni politiche di natura più generale, e, proprio per questo, più divisive. La situazione attuale non consente di lavorare su basi di “unità e condivisione”, tuttavia permette di avviare un lavoro di lunga lena, dapprima in parallelo quindi possibilmente insieme, nella direzione dell'azione concreta per l'acquisizione di consapevolezza nonviolenta e per il lavoro di pace positiva.

 

Bibliografia

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Berruti D. e Menin M., Enti Locali e Caschi Bianchi: un modo realistico di fare la pace, Ferrara, 2004.

Bush K., Hands-on PCIA: Handbook for Peace and Conflict Impact Assessment, Manila, 2003.

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Galtung J., Ci sono alternative, Torino, 1986.

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Lederach J. P., Preparing for Peace: Conflict Transformation Across Cultures, Syracuse, 1995.

Patfoort P., Difendersi senza Aggredire. Il Potere della Nonviolenza, Torino, 2006.

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Salio G., Formule della Pace: dalla “Pacem in Terris” al metodo Transcend, Torino, 2013.

Schirch L., Civil Peacekeeping. Preventing Violence & Making Space for Democracy, Uppsala, 2006.

Weeks D. - Truger A. - Scotto G., Cooperazione nel conflitto: un modello di formazione al peacekeeping e al peace-building civile, Torre dei Nolfi, 1995.

Zanella L., L'altra guerra del Kosovo, Padova, 2005.

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