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11-12-2014

Il dibattito sulla democrazia
di Gian Luca Atzori

Se la democrazia è per gli occidentali un ideale alquanto condiviso, lo stesso non si può dire per i cinesi. E’ necessario dunque soffermarsi sulle perplessità e i dibattiti interni al gigante asiatico se si vuole davvero ambire a comprenderne gli sviluppi o addirittura influenzarne le scelte. Per il presidente Xi Jinping la Cina è già una democrazia, cosiddetta marxista.

Le proteste di Hong Kong hanno fatto rapidamente il giro del mondo attirando l’attenzione dei media internazionali. La Cina rappresenta il 60 per cento del mondo cosiddetto “non libero” e, con la sua crescente influenza all’interno della comunità internazionale, il tema della democratizzazione non è più semplice problema domestico ed è percepito con crescente sensibilità sia dai governi occidentali che da quello cinese. Tuttavia, mentre la democrazia è per noi un ideale alquanto condiviso, lo stesso non si può dire per i cinesi. E’ necessario dunque soffermarsi sulle perplessità e i dibattiti interni al gigante asiatico se si vuole davvero ambire a comprenderne gli sviluppi o addirittura influenzarne le scelte.

Non è sicuramente facile considerare l’evoluzione di tale fenomeno, soprattutto se prevale esclusivamente una visione eurocentrica che tende a considerare la democrazia come un valore positivo in assoluto a prescindere dal contesto socio-culturale nel quale si sviluppa, o peggio si “esporta”, perseguendo la rotta idealista del presidente Wilson, convinto che l’imposizione democratica fosse la soluzione ai conflitti internazionali e ai problemi di ogni paese. Non è un caso che la democrazia venga infatti percepita come una minaccia e non come un’opportunità in medio oriente. Allo stesso modo, la rivoluzione democratica iraniana e indiana ne sono un esempio eclatante. In Iran con l’intento di superare la monarchia si è dotata di diritto di voto una popolazione che ha consegnato il destino del paese nelle mani del fondamentalismo islamico. In India, invece, la democratizzazione è stata accompagnata dal processo di partizione con Pakistan e Bangladesh ed ha portato ad un incremento delle lotte interne tra fazioni religiose impegnate ad affermare la propria volontà non più solo al livello morale, ma soprattutto politico.

In Cina non vi è un problema di fondamentalismo o comunalismo religioso, ma lo stesso problema si riscontra al livello etnico. Il 92 per cento della popolazione cinese è di etnia han, ma la restante percentuale è composta di più di 50 differenti gruppi etnici, che ammontavano a più di 400 fino a mezzo secolo fa. L’enfasi riposta sulla liberazione del Tibet, sulla democratizzazione di Hong Kong e sul “problema” di Taiwan da parte dei governi occidentali, non viene considerata come una semplice questione di progresso morale e socio-politico da parte del governo cinese, ma soprattutto come una strategia fondata sul più classico “dividi et impera”. A generare preoccupazione non è infatti la sola dissoluzione del monopolio politico del Partito (PCC), ma anche l’applicazione di un modello liberal-democratico su di un contesto socio-culturale totalmente differente, l’impreparazione del popolo al voto e, soprattutto, l’instabilità e la potenziale partizione nazionale che un processo non graduale comporterebbe. L’esperimento democratico più grande al mondo rivela dunque numerose perplessità e non può essere perciò considerato con idealismo, o peggio, occidentalismo.

L’opera di “demonizzazione” del Dragone dalla prospettiva occidentale non tiene in considerazione alcuni aspetti chiave dello sviluppo cinese, primo fra tutti il fatto che il tema della democratizzazione sia ampiamente dibattuto all’interno del gigante asiatico, sia al livello politico che accademico. Sembra difficile crederlo visto le vicende dei dissidenti democratici come il premio Nobel Liu Xiaobo, la sua vicenda tuttavia non ha fatto altro che stimolare un dibattito ancora più acceso tra gli intellettuali. Secondo, il fatto che la comunità internazionale voglia impartire lezioni di civiltà alla Cina ma non sia pronta ad accettare rispettivamente il suo contributo nella formazione dei cosiddetti “valori universali”.

Nuovi attori stanno reclamando più trasparenza anche all’interno della nazione, dai dissidi interni al partito ai nuovi media e le università. La frammentazione dell’autoritarismo è sempre più evidente, soprattutto nei numerosi dibattiti tra centralismo e autonomie locali o tra la separazione dei ruoli tra governo e Partito. Esperimenti democratici intra-partito, o all’interno delle fabbriche e dei governi locali risalgono agli anni ’80, e c’è addirittura chi intravede una speranza democratica in Wen Jiabao e Li Keqiang (ex e attuale premier) dalle note posizioni popolari in tema di innovazione sociale, o nella purga di Bo Xilai, ufficiale di stampo maoista dichiaratamente anti liberal-democratico arrestato recentemente per corruzione. Allo stesso tempo, è ovvio che senza riforme radicali come, per esempio, uno sviluppo maggiormente democratico o trasparente, sia utopico ambire a pieno alla risoluzione di diversi problemi auspicata dal governo attuale, da una lotta alla corruzione interna realmente efficace all’effettiva separazione di potere tra stato e Partito. Per non parlare degli effetti repulsivi che l’osannato capitalismo di stato cinese e l’elitismo neo-leninista stanno giocando nei confronti della democrazia.

Partendo proprio dal considerare questi evidenti problemi, la Cina è cosciente del sempre più influente ruolo che ricopre all’interno della comunità internazionale, ma al tempo stesso sa di ritrovarsi ad essere ancora una nazione in via di sviluppo. A livello etico, ciò che gran parte degli accademici e politici cinesi non tollerano è che l’opera di democratizzazione non debba essere un processo naturale ma forzato, in maniera decisamente contraria allo sviluppo democratico dei governi occidentali che in passato versavano nelle stesse condizioni cinesi e che hanno potuto diluire l’industrializzazione in tre secoli, non in uno solo. La questione che affligge i contemporanei pensatori cinesi è quindi la seguente: nella situazione di sovrappopolamento, carenza di servizi, profonda diseguaglianza sociale e frammentazione etnica che affligge la Cina, come bilanciamo la stabilità e l’ordine sociale con la libertà democratica?

Per il presidente Xi Jinping la Cina è già una democrazia, cosiddetta marxista. Poco conta quale sia la reale influenza dei partiti di minoranza assoggettati al volere del PCC. A parte queste estreme divergenze dai principi democratici, gli accademici mandarini hanno sviluppato diverse possibili alternative che tentano di conciliarsi con i modelli occidentali, in particolare la scuola neoconfuciana. Ciò che, a ragion veduta, viene criticato della nostra democrazia è la carenza di meritocrazia, ovvero il fatto che spesso vengano elette personalità altamente incompetenti ai vertici dello stato, capaci dialetticamente ma non tecnicamente. Per i neoconfuciani lo stato serve il popolo ed è del popolo, ma non è il popolo. Ciò significa che nonostante il popolo sia il miglior giudice della soddisfazione dei propri bisogni, al tempo stesso non sia intellettualmente ne moralmente pronto a compiere riforme socio-economiche, perché privo di competenze in merito. Per sopperire a questa carenza alcuni studiosi come Bai Tongdong propongono la creazione di un sistema intermedio in cui la Camera (lower house) venga eletta liberamente e democraticamente dal popolo, ma il Senato (upper house) venga scelto principalmente per merito, richiamando l’antico sistema degli esami imperiali.

La prestigiosa burocrazia cinese, caratterizzante dell’impero più potente e longevo della storia dell’umanità, è stata per millenni selezionata attraverso il sistema degli esami confuciani. Esso vantava elementi democratici, essendo teoricamente aperto a tutti e garante di un’ampia mobilità sociale. Un’altra caratteristica democratica propria del confucianesimo è il fatto che privilegi una società gerarchica fondata sul principio della pietà filiale e del mandato celeste, in cui la gerarchia possa essere tuttavia sovvertita (anche con la forza) se opprime o va contro il benessere dei subordinati. La dottrina di Confucio ha diversi tratti in comune con i nostri valori morali contemporanei essendo incentrata sulla famiglia, essendo aperta a nuovi sviluppi e al confronto perché caratterizzata da sincretismo e “laicismo naturale”, sottolineando il ruolo della compassione e della benevolenza al di sopra della sovranità e degli interessi economici e politici.

Purtroppo, nel considerare la diffusione della liberal-democrazia negli sviluppi attuali, è evidente per i cinesi e i neoconfuciani che si tratti principalmente di un modo per preservare gli interessi dei paesi egemoni, e questa non è solo una scusa per preservare lo status del Partito, ma anche un dato di fatto che funge da deterrente ai benefici socio-politici che la democrazia potrebbe invece, effettivamente, apportare alla Cina e al mondo intero.


Gian Luca Atzori è laureato in Lingue e Culture Orientali alla Facoltà di Lettere, Filosofia, Scienze Umanistiche e Studi Orientali della Sapienza con una tesi in Religione e Filosofie dell'India intitolata "Comunitarismo in Cindia: risorsa democratica e pluralistica di riflessione comune sull'etica globale". Ha perseguito i suoi studi a Pechino tra la UIBE e la BFSU e ora si trova alla Tsinghua University, specializzandosi in "Filosofia politica e relazioni internazionali". Collabora con il Fatto Quotidiano, China Files e Cina Oggi ed è promotore del blog di ProPositivo.

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