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From Time Magazine
May 8, 1989
http://chinadigitaltimes.net
may 9, 2014

Cina la primavera di Pechino

Con 150.000 studenti in marcia, Deng s’impegna ad aprire un dialogo. Parlare potrà essere sufficiente?

La notte prima della marcia, Jia Guangxi e i suoi cinque compagni di stanza presso la Peking University brindano l’un l'altro con un bicchiere  di vino. "Alcuni di noi hanno addirittura scritto le ultime volontà", ha ricordato Jia, 18 anni, un economista dall’Inner Mongolia. E perché no? I funzionari cinesi, dopo aver tollerato undici giorni di proteste di decine di migliaia di studenti, sono stati oscuramente avvertiti di una repressione che avrebbe messo fine alle manifestazioni una volta per tutte.

Giovedì mattina Jia si alzò presto, afferrò un megafono e si diresse verso la sede del comitato organizzatore studentesco. Mentre i suoi compagni di classe si riversavano fuori dai loro dormitori, Jia impugnò il suo megafono e gridò citazioni della Costituzione. "I cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di corteo e di manifestazione" urlò. I funzionari della scuola fecero rimbalzare un minaccioso contro messagio attraverso gli altoparlanti: "Tornate alle vostre classi! Non cedete alle pressioni dei vostri compagni! Attenzione alle conseguenze per voi e per la vostra famiglia!"

Appena fuori dai cancelli dell'università c’era uno spettacolo da mazzare il fiato anche al dimostrante più determinato: file e file di poliziotti in uniforme. Ciò che successe dopo sarà ricordato negli anni a venire. Mentre più di 50.000 studenti universitari inondarono le strade a dispetto degli avvertimenti del governo, e circa 250.000 cittadini comuni si unirono a loro, sostenendo le loro richieste di maggiore democrazia.


From Time Magazine
May 8, 1989
http://chinadigitaltimes.net
may 9, 2014

China Beijing Spring

With 150,000 students on the march, Deng agrees to open a dialogue. Will talk be enough?

The night before the march, Jia Guangxi and his five roommates at Peking University toasted one another with farewell glasses of wine. “Some of us even wrote last wills,” recalled Jia, 18, an economics major from Inner Mongolia. And why not? Chinese officials, having tolerated eleven days of protests by tens of thousands of students, were darkly warning of a crackdown that would put an end to the demonstrations once and for all.

On Thursday morning Jia rose early, grabbed a megaphone and headed for the headquarters of the student organizing committee. As his classmates poured out of their dormitories, Jia held up his megaphone and shouted quotations from the constitution. “Citizens of the People’s Republic of China enjoy freedom of speech, of the press, of assembly, of association, of procession and of demonstration!” he bellowed. School officials blasted a threatening countermessage over loudspeakers: “Go back to your classes! Don’t give in to pressure from your fellow students! Beware of the consequences to yourself and your family!”

Just outside the university gates was a sight to give even the most determined demonstrator pause: row upon row of uniformed policemen. What happened next will be remembered for years to come. As more than 50,000 striking university students flooded the streets in defiance of government warnings, some 250,000 ordinary citizens joined them, supporting their demands for more democracy.

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