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23 luglio 2014

Il senso dell’assedio
di Alessio Marri

Dieci ore di pullmann nel deserto del Sinai e si arriva al valico di Rafah. Il cancello nero di ferro battuto si apre. E’ un giorno fortunato. Il primo impatto è desolante, macerie ovunque, poi arriva una innaturale pressione sul petto che soffoca il respiro: è il senso dell’assedio. Mahmud ha 17 anni, era alla disperata ricerca del suo migliore amico tra le macerie quando è arrivata la seconda bomba. Ha perso la vista e l’olfatto. Adesso non vuole più uscire di casa. È il progetto Gazzella, con i bambini e i ragazzi sopravvissuti ai bombardamenti. Pochi giorni a Gaza bastano a mettere in discussione completamente cosa abbiamo capito della guerra e della pace, della vita e della morte. Forse aveva ragione lo scrittore palestinese Ghassan Kanafani, assassinato dal Mossad nel 1972, quando scriveva all’amico esiliato Mustafà: “Impariamo dalle gambe amputate di Nadia cos’è la vita”

“A Gaza solo chi muore vede la fine della guerra”. Lo scrisse Vittorio Arrigoni sulle pagine del manifesto durante l’operazione “Piombo Fuso”. Una sensazione livida e permanente che investe chiunque attraversi questo lembo di terra in tempo di pace. Ora più che mai, con l’ennesima strage in corso.

Quattrocento morti in meno di dieci giorni (1). Bombe su bimbi in spiaggia, il quartiere povero di Shejaya dilaniato dall’artiglieria senza scrupoli, vite spezzate ridotte a conta, numeri neutri senza alcuna distinzione.

Ansia e speranza ti accompagnano al valico di Rafah, ingresso egiziano della Striscia di Gaza. Il cancello nero in ferro battuto s’è appena aperto, lasciando alle spalle oltre dieci ore di pullman nel deserto del Sinai.

Dall’ambasciata il visto tanto atteso e’ giunto e nella hall di controllo che ricorda un qualsiasi piccolo aereoporto di provincia ci si mette in fila per il timbro sul passaporto. Varcata la soglia, la gioia è incontenibile, capita infatti non di rado di essere respinti o di dover aspettare infiniti tempi burocratici.

Sono entrato.

In questi 40 chilometri ingabbiati tra il mare e la buffer zone (la zona cuscinetto, ndr) delle recinzioni israeliane. Due miglia marine oltre le quali la marina israeliana arresta i pescatori, un chilometro di terra dove i cecchini giocano al tiro al bersaglio con i contadini.

Il primo impatto è desolante. Strade e marciapiedi in condizioni precarie. Macerie ovunque. Costruzioni ferme a metà, probabilmente a causa del blocco del cemento che arriva a singhiozzo solo attraverso i tunnel sotterranei di Rafah.

Solo le lunghe e ampie spiagge di Gaza riconsegnano un senso di normalità.

Giorno dopo giorno una innaturale pressione sul petto soffoca il respiro. È il senso di assedio. Con lo sguardo si cerca una via di fuga, ma anche il mare sembra riconsegnare un’angoscia da reclusione.

Pochi giorni a Gaza bastano per riconsiderare i concetti di vita e morte, di guerra e pace. L’istinto di vita e di morte è palpabile. L’imbocco dello stomaco si ispessisce. La fame svanisce, sale la nausea. Il rigetto allevia lo stato d’animo.

Soprattutto quando con il Progetto Gazzella visiti adolescenti e bambini sopravvissuti ai bombardamenti. Mahmud ha 17 anni. Un’esplosione distrusse la casa del suo migliore amico. Nel tentativo disperato di trovarlo tra le macerie una seconda bomba gli ha cancellato vista e olfatto.

Non vuole più uscire di casa, l’assistenza psicologica non basta a lenire il suo trauma.

Hamed è suo coetaneo. È stato ridotto su una sedia a rotelle da un colpo di mortaio che ha centrato la sua scuola. Alcune schegge hanno raggiunto il cervello creando danni permanenti alle sue funzioni cognitive. Ama il calcio. Un nostro compagno di viaggio gli regala una maglia con il 10 di Totti, gli occhi s’illuminano e sorride fino a commuoversi.

Farah invece è una piccola bimba di 4 anni. Il corpo è per metà sfigurato da un attacco chimico che ha sterminato la sua famiglia, solo la nonna si è salvata malgrado le ustioni a un braccio.

Un proiettile di fosforo bianco ha sfondato una parete, ha fuso le piastrelle in marmo. Senza lasciare scampo ai corpi della madre con in grembo un neonato, del padre e dei 4 fratellini. Farah avrà bisogno di costanti impianti di pelle, in caso contrario il corpo sarà ingabbiato dalle ustioni e crescerà deforme.

Il dottor Maher ci aspetta nel suo centro medico, costruito grazie agli sforzi dell’associazione Hanan. Si occupa in particolare di patologie genetiche e deficit congeniti causati dalle radiazioni e dalle armi chimiche.

Nella sala d’aspetto decine di madri stringono tra le braccia figli dalle accentuate malformazioni fisiche.

La guerra anche per loro non finirà mai.

L’umanità della gente di Gaza ti rapisce. Andare via, tornare alla tua vita sembra un abbandono, non un saluto. D’obbligo l’arrivederci.

E forse solo dopo esserci stati si comprendono appieno le parole di Ghassan Kanafani in una lettera all’amico Mustafa

Dopo un breve allontanamento da Gaza per insegnare in Kuwait, lo scrittore e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ucciso dal Mossad con un’autobomba a Beirut nel 1972, racconta le ragioni per le quali rinuncia a un lavoro negli Stati Uniti dopo aver visitato in ospedale Nadia, la cugina adolescente colpita da un bombardamento israeliano e rimasta senza gambe.

Spingendosi oltre fino a chiedere a Mustafa di rientrare in patria: “Non verrò da te, ma tu ritorna da noi! Torna indietro e impariamo dalle gambe di Nadia, amputate dalla punta dei piedi fino alle cosce, che cos’è la vita e che esistenza sia peggiore”.


* Alessio Marri ha scritto questo reportage per l’Osservatorio Iraq, Medioriente e Nordafrica, che ringraziamo come sempre per la cortesia e la qualità del lavoro. Alessio è un giornalista freelance che ha realizzato diverse corrispondenze da Gaza nel 2011, subito dopo l’uccisione di Vittorio Arrigoni.


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Un breve video sulle attività del Progetto Gazzella

Gazzella è una onlus italiana che si occupa di bambini feriti e mutilati dalle armi da fuoco israeliane. Nella striscia di Gaza sono 270 i bambini seguiti dal progetto, circa 60 sono quelli nei territori occupati. Oltre all’aiuto economico dato dalle donazioni, Gazzella si occupa di adozioni a distanza, documentare e diffondere le informazioni diventa dunque importante per informare i genitori adottivi sul percorso di assistenza e recupero dai bimbi

DOSSIER IL GRIDO DI GAZA

La campagna sarà “lunga, graduale ed estesa”. Netanyahu non ha usato giri di parole. Nel 2008, l’ultima invasione israeliana della Striscia di Gaza fece 1.100 morti. Chiunque si mostri sorpreso dalla ferocia “difensiva” di Tel Aviv finge o sceglie di ignorare la storia di quella occupazione. A muoverla è ancora una volta il possesso della terra, nei giorni scorsi Robert Fisk lo ha ricordato agli smemorati. E l’assoluta rimozione della memoria, insieme alla necessità che il mondo non consideri umani i Palestinesi, è la chiave della strategia di guerra dello Stato “ebraico”. Uno Stato che cancella il 20 per cento dei suoi cittadini arabi e racconta di essersi fatto da sé rinnovando ogni giorno il suo mito autogeno. La stupefacente resistenza dei Palestinesi non è certo affidata ai razzi

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