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11 febbraio 2014

Renzo Guolo a Rainews.it: "In Iran con Rohani si è aperta una nuova era"
di Silvia Balducci

Le aperture del presidente Rohani, per l'esperto Renzo Guolo, aprono una nuova fase. Non solo il passo indietro sul nucleare ma anche la fine della repressione e la scelta di un linguaggio più pacato. La svolta democratica sarebbe però la clemenza ai due candidati riformisti che avevano denunciato i brogli elettorali nel 2009

Sono passati 35 anni dalla Rivoluzione Islamica, da quell’11 febbraio 1979 considerato il culmine della cosiddetta “alba di dieci giorni di proteste” sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini, rientrato dall’esilio parigino. La manifestazione di popolo di allora portò alla cacciata dello scià filoamericano al grido di slogan anti occidentali e anti israeliani. Oggi gli slogan nelle piazze sono simili, inneggiano all’orgoglio nazionale e alla fine di Israele. Ma al di là della retorica, per il paese potrebbe essere, oggi come allora, l’inizio di una nuova fase. Niente repressioni, un clima sociale più disteso ma soprattutto la possibilità di uscire dalla blacklist americana e diventare un interlocutore a livello regionale.

Renzo Guolo è docente di Sociologia dell'Islam all'Università di Padova. Professore crede che la fase di distensione avviata dal presidente Rohani sia davvero l’inizio di una svolta?

Sì, con Rohani si è aperta una nuova era non solo dal punto di vista geopolitico ma anche per il linguaggio che utilizza, in netta discontinuità con quello del suo predecessore Ahmadinejad. Rohani ha infatti dismesso alcuni atteggiamenti, tipici dall’antimperialismo militante della destra radicale del predecessore. L'attuale presidente rappresenta la vittoria della corrente pragmatica della teocrazia su quella conservatrice. Questo non va comunque confuso con il superamento di un sistema di potere incentrato soprattutto nella guida suprema Khamenei.

Quali fattori hanno inciso nell’apertura sul nucleare?

Le sanzioni internazionali sicuramente. L’Iran era stremato dalla politica di Ahmadinejad, che per perseguire la ridistribuzione del reddito ha portato ad un’impennata dell’inflazione. C’è pero anche un dato politico, vale a dire la volontà di evitare una soluzione militare, paventata da Israele, e permettere all’Iran di diventare un interlocutore credibile ed affidabile. Una potenza con cui dialogare a livello regionale, su questioni strategiche come Siria e Libano.

Iran fino a ieri stato canaglia, ora possibile interlocutore. Quali sono le ripercussioni sugli equilibri regionali?

L’apertura americana a Teheran implica il riassetto delle alleanze a livello regionale. Non è un caso che ad opporsi, oltre ad Israele, siano i sauditi interlocutori storici di Washington dal 1945 ad oggi. Con l’uscita dell’Iran dalla blacklist, l’Arabia Saudita rischia di perdere il suo ruolo strategico.

A livello sociale, come si traducono le aperture di Rohani?

Si respira un clima diverso, più tollerante. È finita l’era della mobilitazione permanente, sono finite le repressioni dell’era Ahmadinejad.  Il blocco sociale che sostiene il presidente, inoltre è più aperto, è fatto di giovani e donne istruiti, più moderni.  

E i social network?

Rohani twitta di frequente ma il suo popolo ha un accesso limitato alla rete? Sì. Diversamente dall’uso che ne fa il presidente, il popolo ha un accesso controllato alla rete e ai social network. Il sistema resta fortemente centralizzato.  

Nonostante le aperture, restano agli arresti domiciliari Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karoubi i due ex candidati riformisti alle presidenziali del 2009 che hanno denunciato i brogli elettorali e guidato le contestazioni di piazza anti-Ahmadinejad. Come si spiega?

Contro i leader a capo del movimento quello dell’onda verde, furono mosse accuse molte dure. La loro scarcerazione è il passo simbolico che manca per giungere alla vera democratizzazione della Repubblica Islamica. Ma la clemenza non è vicina, infatti essa presuppone che loro accettino l’esito politico delle elezioni, ovvero che si pentano. Continuare infatti a sostenere l’esistenza dei brogli, mette in discussione la figura della guida suprema Khamenei che, al dopo le elezioni, affidò la presidenza a Ahmadinejad.  

Proprio Ahmadinejad è stato un leader molto contestato all'estero per le sue posizioni radicali e conservatrici. Come viene percepito in Iran, a meno di un anno dalla fine dal sua presidenza?

L’esperienza politica di Ahmadinejad è stata fallimentare. Anche dal punto di vista economico, la ridistribuzione promessa ha fatto lievitare l’inflazione. Quello che però l’occidente stenta a capire è la sua base di consenso. L’ex presidente ha intercettato molti dei giovani che avevano risposto alla chiamata alle armi nella guerra di otto anni tra Iran e Iraq, dal 1980 al 1988. L’ayatollah Khomeini non fidandosi dall’esercito aveva chiamato a combattere i giovani volontari in nome della Rivoluzione Islamica. Negli anni gli ex volontari hanno sentito tradito quel sacrificio, cui invece ha ridato valore la retorica di Ahmadinejad.

L’Iran ha vissuto un’altra primavera, quella delle due presidenze Khatami nel 1997 e nel 2001. I suo sforzi per la libertà di stampa, per la rinascita culturale hanno portato gli osservatori a parlare di rivoluzione culturale. Ci sono punti di contatto con l’attuale fase che l’Iran sta vivendo?

Le due fasi sono accomunate dalle stesse esigenze di libertà, dal tentativo di riformare il sistema e vedono protagonista lo stesso blocco sociale, formato da giovani e donne istruiti. Sia Khatami che Rohani appartengono inoltre alla sinistra islamica e sono in qualche modo militanti della Repubblica Islamica, interni al sistema teocratico.

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