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8 ottobre 2014

Sull’Isis pure Carter attacca Obama. E si unisce al “fuoco amico” dei clintoniani
di Guido Moltedo

Il politico simbolo dell'America sconfitta critica la riluttanza del presidente. Nel coro di critiche l'ex-segretario alla difesa Leon Panetta, molto legato ai Clinton

«Quando arrivi al punto che Carter ti attacca, hai praticamente toccato il fondo», esulta in un tweet Ana Navarro, consulente politica conservatrice che combatté contro Obama sotto le bandiere di John McCain nelle presidenziali del 2008. È il momento degli sconfitti dalla storia. Parlano tutti, si sfogano, uno dopo l’altro, Dick Cheney, i neoconservatori, e adesso anche il presidente degli anni Settanta, quel Jimmy Carter, il comandante in capo della capitolazione all’Iran degli ayatollah e diventato, nella narrativa dominante, il simbolo dell’America perdente. A questo ormai nutrito drappello di critici di Obama, che gliene dicono di ogni colore per come ha gestito e gestisce la situazione iracheno-siriana, si aggiungono anche ex-ministri che, quando erano attivi nell’amministrazione non lasciavano intravedere posizioni minimamente divergenti rispetto al presidente, ma una volta fuori, rivelano retrospettivamente il loro netto dissenso nei confronti della sua linea.

Dunque, Jimmy Carter, in un incontro a Fort Worth, attacca Obama dicendo che è difficile capire che cosa stia facendo esattamente in Medio Oriente. «Cambia di continuo, e ho notato che due dei suoi segretari alla difesa, una volta lasciato l’incarico, sono stati molto critici nei suoi confronti, denunciando un’assenza di azione positiva da parte del presidente».

Carter si riferisce a Leon Panetta e al suo predecessore al Pentagono, Robert Gates, entrambi autori di libri di memorie sui loro anni alla Difesa, entrambi particolarmente critici nei confronti soprattutto dello stile decisionale non decisionista del presidente, ma anche nel merito di alcune decisioni prese.
L’ex-presidente democratico si dice d’accordo con loro a proposito della critica principale rivolta a Obama. La sua riluttanza ad armare i ribelli “moderati” siriani. «Abbiamo atteso troppo, abbia consentito all’Isis di incrementare il suo potere finanziario, la sua forza, i suoi armamenti, mentre si trovava ancora in Siria. Poi quando l’Isis si è spostata in Iraq, i sunniti non hanno obiettato che fossero là e un terzo del territorio dell’Iraq è stato abbandonato».

Si può supporre che la sortita di Carter sia anche un modo per schivare gli inevitabili paragoni, che già fioccano, con la sua gestione della crisi degli ostaggi a Teheran, nel 1979, che gli costò la rielezione e che portò alla Casa Bianca, Ronald Reagan, aprendo un lungo ciclo conservatore. Ma il raffronto è inevitabile, da parte della destra, che allora attaccò Carter per non essersi mosso tempestivamente e per non aver attaccato l’Iran, se non con un’operazione, considerata tardiva e inadeguata, nell’aprile 1980, per il salvataggio dei 52 diplomatici sequestrati nell’ambasciata Usa a Teheran, un blitz finito disastrosamente nel deserto. Si tende però a dimenticare che, alla fine, gli ostaggi riuscirono a tornare a casa vivi, e che l’America non finì ingaggiata in una guerra estremamente difficile.

Ma è chiaro che le dichiarazioni di Carter, che già di per sé colpiscono, assumono ulteriore valore perché alimentano il “fuoco amico” che prende di mira la Casa Bianca, già sotto assedio da parte della destra.

Il “fuoco amico” è clintoniano. La stessa ex-segretario di stato, in più di un’occasione, si è distanziata dal presidente, soprattutto per non aver sostenuto prima le fazioni “moderate” anti-Assad. Adesso, ha assunto una posizione meno esposta, mandando avanti personaggi di peso a lei legati, in un’operazione che ha tutta l’aria di mettere in evidenza una rottura netta di continuità tra l’attuale amministrazione e la futura amministrazione Clinton. Un’operazione resa necessaria, secondo gli strateghi clintioniani, dalla persistente impopolarità di Barack Obama, soprattutto nella politica estera e di difesa.

Naturalmente, una polemica di questo genere è una manna per i media. Così, l’uscita delle memorie dell’ex-segretario alla difesa Leon Panetta, Worthy Fights, ha una notevole risonanza su giornali e tv. L’ex-capo del Pentagono ed ex-direttore della Cia, che fu capo di gabinetto di Bill Clinton è la star dei talk show politici, compresi quelli di destra che fanno dell’odio antiobamiano la loro cifra principale, come The O’Reilly Factor di FoxNews.

Come il suo predecessore, Robert Gates, anche lui autore di un libro polemico con Obama (Duty: Memoirs of a Secretary at War), Panetta non è molto originale, quando osserva che «il presidente poggia più sulla logica di un professore di legge che sulla passione di un leader». Già, come avrebbe ragionato, con la passione, un vero leader? Avrebbe lasciato in Iraq, così consigliava di fare Panetta a Obama nel 2011, un contingente di diecimila soldati. Un paese come l’Iraq, dilaniato da anni di guerre, sarebbe stato “controllato” da diecimila soldati, e non sarebbe successo quel che è successo? Lo pensa davvero, Panetta? In tal caso, è un bene che abbia lasciato il Pentagono.

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