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08/01/2014

Falluja, la città maledetta
di Tommaso Canetta

Teatro di scontro tra gli eredi di Al Qaeda e il governo sciita di Al Maliki, Usa e sauditi

La storia è passata spesso per le strade di Falluja nel corso dei secoli. Durante la Seconda guerra mondiale qui si affrontarono le truppe britanniche e i sostenitori iracheni del Reich. Nella seconda guerra del Golfo i combattimenti più aspri che gli americani dovettero sostenere ebbero luogo in questa città di mezzo milione di persone, adagiata sull’Eufrate, a meno di 70 kilometri da Baghdad. Ancora non è stato eliminato il sospetto che in quell’occasione l’esercito Usa abbia fatto ricorso al fosforo bianco come arma di distruzione di massa contro la popolazione civile. Falluja è una roccaforte sunnita, ai tempi di Saddam Hussein vicina al potere centrale e ora, con il governo dello sciita Al Maliki, cuore delle proteste antigovernative.

Il 5 gennaio scorso, dopo quasi una settimana di combattimenti e decine di morti, Falluja è caduta nelle mani di un gruppo armato legato al fanatismo sunnita e ad Al Qaeda, l’Isil (Islamic State of Iraq and Levant) o Stato islamico. I guerriglieri, già noti per la loro ferocia nella guerra in Siria, hanno issato i propri vessilli neri sugli edifici governativi e simbolici della città. Dopo poco più di un giorno sembra però che abbiano abbandonato la posizione – in base a quanto dichiarato dai capi tribali sunniti della città - man mano che la pressione del governo di Baghdad si faceva più forte e le voci di un intervento militare massiccio più insistenti. Voci che, nell’incertezza dell’effettivo abbandono della città da parte dei terroristi, non si sono ancora spente. Anzi, il governo americano ha già preannunciato l’invio di forniture militari all’Iraq, in particolare nuovi missili Hellfire oltre a droni ScanEagle e 48 Raven, per combattere i qaedisti che imperversano nella vasta fascia di confine con la Siria.

«La presa di Falluja è stata resa possibile dal fatto che le forze governative a un certo punto hanno deciso di abbandonare la città, probabilmente si è trattato di una ritirata strategica», spiega Claudio Neri, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di studi strategici. «Gli insorti, questo vale come regola generale e astratta, non hanno interesse a mantenere il possesso di una città, farebbero il gioco del governo a portare lo scontro sul piano militare, in campo aperto. La loro tattica da sempre è quella di colpire e poi nascondersi. Non tanto controllare una città, quanto impedire al governo di controllarla. Nel caso specifico, Falluja non si presta a diventare una città “conquistata” da guerriglieri: essendo così vicina alla capitale le linee di rifornimento del governo sono molto brevi e la controffensiva militare sarebbe devastante. Meglio per loro sarebbe continuare ad operare nelle zone desertiche di confine tra Siria e Iraq, dove sono più forti e dove le autorità statali sono praticamente inesistenti  Mai dire mai però, i gruppi combattenti arabi nel corso degli ultimi anni hanno mostrato in più occasioni di non avere chiare le regole della guerra e della strategia».

Il programma politico dell’Isil è quello di creare uno Stato islamico, un califfato, nella regione occidentale dell’Iraq e orientale della Siria. Ma se a lungo termine il progetto è quello del controllo territoriale, nel breve difficilmente può sperare di ottenerlo. Gli Stati Uniti, finora abbastanza freddi circa un possibile coinvolgimento diretto nel caos mediorientale, non lo permetterebbero. «L’America sa che l’Isil non può contare su grandi numeri di combattenti e nemmeno su un’elevata qualità di questi. Non ha poi una vera e propria linea strategica, anche visto l’elevato tasso di ricambio degli uomini che combattono qualche mese e poi espatriano. Più che altro quelli dell’Isil puntano a sopravvivere giorno per giorno», prosegue Neri. «Il livello di rischio sul campo è attualmente controllabile per gli Stati Uniti e pare che gli sforzi delle intelligence occidentali siano soprattutto concentrati nell’evitare che combattenti stranieri, magari europei, possano tornare in patria per attuare una strategia terroristica. Agli Usa poi in generale potrebbe non dispiacere che il focus degli scontri sia in Medio Oriente, costringendo varie organizzazioni ostili all’Occidente ad impegnare uomini e risorse lì piuttosto che non in progetti potenzialmente pericolosi per la sicurezza nazionale americana».

Dietro i successi dell’Isil, secondo alcune fonti, potrebbero celarsi i petroldollari dei Sauditi. Questi ultimi sono infatti coinvolti in uno scontro regionale con l’Iran e finanziano diversi gruppi sunniti – da quelli laici a quelli fanatici islamici – in ottica anti-sciita. Siria, Iraq, Libano (e non solo) sono tutti teatri dove questo scontro è diventato sempre più violento nel corso dell’ultimo anno. L’Isil tuttavia, proprio dopo aver ottenuto un successo di grande visibilità a Falluja, è ora costretto a ripiegare. In Siria il fronte ribelle è diviso e litigioso già da molto tempo, ma la campagna di attacco agli uomini e alle roccaforti dell’Isil di inizio gennaio – forse proprio in risposta alla presa di Falluja - è senza precedenti: decine di morti, centinaia di prigionieri, un attacco frontale – in base a quanto riportato da Foreign Policy – al quartier generale dell’Isil a Raqqa e la quasi totale eliminazione della presenza del gruppo in città. Sia il Free syrian army (la parte “moderata” degli insorti anti-Assad) sia il Fronte Islamico (sigla che raduna le organizzazioni jihadiste) stanno concentrando i propri sforzi contro l’Isil. In particolare il Fronte Islamico sembra, secondo gli analisti, che risponda a un input arrivato dall’Arabia Saudita. È possibile che, dopo averlo finanziato, i sauditi abbiano deciso di mollare un partner diventato troppo scomodo e mal visto tanto dagli alleati occidentali quanto dalla popolazione locale. I metodi brutali, l’oltranzismo religioso, la provenienza straniera di molti dei suoi combattenti hanno alienato ai combattenti dell’Isil le simpatie dei siriani. E un gruppo di guerriglieri che non ha l’appoggio della popolazione di norma ha vita breve.

«Non è la prima volta che succede una cosa del genere, anzi è abbastanza fisiologico», spiega ancora Neri. «Ad esempio con Al Zarqawi (leader di Al Qaeda in Iraq dopo la seconda guerra del Golfo) è andata più o meno così: a furia di alzare il livello di violenza perpetrata dal suo gruppo, alla fine è stato venduto agli Usa da quelli che fino a poco prima lo proteggevano. E questo penso sia il ragionamento strategico che sta dietro una parziale tranquillità americana sulle possibili evoluzioni dello scenario siriano e iracheno: i gruppi guerriglieri di ispirazione qaedista prima o poi vengono espulsi dal tessuto nel quale combattono. Non essendo “pragmatici” ma, appunto, ispirati a un credo fanatico finisco per eccedere nell’uso della violenza sul territorio e questo li isola. L’elemento della ferocia e del fanatismo, che possono essere un vantaggio in un primo momento caratterizzato dagli scontri armati, nel lungo periodo si ritorcono contro chi li usa».

I rapporti di forza interni alla ribellione siriana potrebbero cambiare ancora una volta. Nel 2013 i fanatici religiosi avevano preso il sopravvento sulla componente moderata e nazionalista, anche grazie al flusso di combattenti che dall’Iraq, dal Libano e da molti altri Stati (non per forza mediorientali) ne ingrossava le fila. Ora la situazione sembra capovolgersi. Non solo l’Isil viene annientato o indebolito dagli altri insorti, ma i gruppi filo-occidentali che da mesi vengono addestrati nei campi Cia in Giordania potrebbero aver raggiunto una massa critica tale da poter avere un impatto sulle sorti dello scontro interno alla ribellione, e forse anche su quelle della guerra al dittatore Bashar al Assad. «I gruppi addestrati dagli americani sono numericamente pochi, ma molto preparati. Anche per questo sono più efficaci nel medio periodo che non nel breve», conclude Neri. «Se effettivamente fosse confermata una loro presenza efficace e solida sul territorio questo potrebbe essere visto come un altro elemento di relativa garanzia da parte degli Usa, e spiegherebbe la loro apparente indifferenza all’evoluzione dello scontro in Siria».

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