Il Manifesto
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18 giu 2014

Battaglia a Baqubah, jihadisti alle porte di Baghdad
di Chiara Cruciati 

L’esercito avrebbe respinto l’attacco, ma l’Isil avanza. Usa: “Nessun accordo militare con Teheran”. Si muove la Turchia, preoccupata per i propri interessi interni, business e sicurezza. Maliki accusa Riyadh di aver finanziato l’Isil.

Aggiornamento ore 10 – attaccata la raffineria di Baiji, Obama pensa ai droni

Nella notte i miliziani dell’Isil hanno assaltato con armi automatiche e granate la più grande raffineria irachena, evacuata ieri. Oggi il presidente statunitense Obama parlerà al Congresso della crisi irachena e delle possibili reazioni. Tra le opzioni l’assistenza alle forze militari locali e l’utilizzo dei droni. La Casa Bianca insiste sulla necessità di un accordo di unità nazionale dei leader sciiti, sunniti e curdi. Ieri il premier iracheno Maliki ha incontrato diversi partiti iracheni e fatto appello all’unità nazionale.

Roma, 18 giugno 2014, Nena News

Il governo iracheno è nell’occhio del ciclone, schiacciato tra l’incessante offensiva islamista e gli attacchi dei vecchi alleati, Washington e Onu. L’amministrazione Obama e il Palazzo di Vetro si alternano nel lancio di suggerimenti: «Venga formato un governo di unità nazionale con sciiti, curdi e sunniti», stessa richiesta dell’Arabia saudita a cui Baghdad risponde accusando Riyadh di aver finanziato gli islamisti in Siria. Ma scagliano anche fulminanti critiche al premier sciita Nouri al-Maliki, colpevole di aver frammentato il paese relegando in un angolo le legittime istanze sunnite. Una politica discriminatoria che va avanti ormai dal 2006, anno in cui Maliki fu messo a sedere sulla poltrona di premier dalla Casa Bianca, che oggi finge di cascare dalle nuvole, nel tentativo poco riuscito di nascondere le proprie responsabilità sotto il tappeto. Obama è tanto preoccupato da cercare riparo anche sotto il tappeto iraniano: nei giorni scorsi Washington si è detta pronta a cooperare con il nemico di sempre, l’Iran, pur di fermare l’avanzata jihadista.

Dall’incontro di lunedì a Vienna è uscito poco di concreto: il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha negato l’esistenza di «piani di coordinamento delle attività militari con Teheran». Nelle stesse ore, però, il presidente Obama annunciava al Congresso l’invio di 275 soldati statunitensi (equipaggiati per il combattimento) a difesa dell’ambasciata Usa a Baghdad, mentre cinque navi da guerra e la portaerei George W. Bush si posizionavano nel Golfo Persico.

Sul campo, la battaglia prosegue. L’Isil avanza a Nord di Baghdad: ieri la principale raffineria irachena, Baiji, che i miliziani islamisti avevano circondato martedì scorso, è stata chiusa e lo staff evacuato. A disposizione resta carburante per soddisfare i bisogni domestici della popolazione per un solo mese. Offensiva qaedista, ieri, anche contro la città di Baqubah, nella provincia di Diyala, già parzialmente occupata dall’Isil. Stando a quanto riportato da fonti sul posto, l’esercito ha respinto l’attacco. L’eventuale caduta nelle mani islamiste di Baqubah, a soli 60 km da Baghdad, aprirebbe la strada alla marcia sulla capitale. L’aviazione irachena, intanto, continua per il secondo giorno a bombardare la città di Tal Afar, tra Mosul e il confine siriano, punto strategico caduto sotto il controllo dell’Isil ieri, facendo fermentare così i timori di Baghdad di una spartizione del territorio iracheno.

Nel vortice settario rischia di finire risucchiato il precario equilibrio mediorientale. L’intervento iraniano e le preoccupazione turche, oltre al ruolo di protagonista della vicina guerra civile siriana, sono la dimostrazione che in gioco c’è ben più della divisione dell’Iraq. Travolte dall’avanzata islamista anche le politiche di aperto sostegno di Ankara ai gruppi estremisti attivi in Siria contro il regime di Bashar al-Assad: stipendiati dal Golfo e riforniti di armi, da due anni hanno trovato nella Turchia la migliore delle porte di ingresso nel cuore dell’inferno siriano, nonostante le autorità turche abbiano continuato a negare un loro diretto o indiretto coinvolgimento. Oggi quegli stessi gruppi – su cui l’amministrazione Obama continua strenuamente a tacere – minacciano l’intera regione. E anche gli affari di Ankara.

A chiamare in causa la Turchia sono i turkmeni (l’11% della popolazione irachena), sotto attacco a nord a Tal Afar e nel villaggio di Basheer, vicino Kirkuk. Mentre il leader del Fronte Turkmeno Iracheno, Ershad Salihi, faceva appello ad Ankara perché proteggesse la popolazione, milizie locali e civili armati hanno respinto l’offensiva islamista a Basheer sostenuti anche da truppe governative. Per adesso, il governo turco ha risposto inviando aiuti umanitari. Ma a spingere Ankara verso un potenziale intervento sono gli interessi interni: sicurezza e business. Un tandem che ha convinto la Turchia a cercare alleanze tra i curdi iracheni, lo stesso popolo le cui spinte separatiste in casa vengono represse con la violenza. Ankara punta al Kurdistan iracheno sia come zona cuscinetto per evitare un contagio settario, sia come piede di porco per garantire i propri interessi energetici (tanto da cercare un “alleato” anche nel nemico Iran: il presidente Rowhani è volato ad Ankara dopo anni di gelo diplomatico, nonostante i fronti opposti occupati in Siria, Teheran con Assad e Ankara con i ribelli). La Turchia è oggi il secondo compratore del greggio iracheno, per lo più proveniente dal Kurdistan. Per cui, nessun intervento armato da parte turca, ma indiretto: l’acquisto di greggio curdo, scavalcando Baghdad, e il il sostegno alla regione autonoma.

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