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3 agosto 2014

Boicottare Israele, l’arma palestinese che si diffonde in Occidente
di Alberto Mucci

I prodotti che provengono dai territori occupati trovano sempre più mercati bloccati in Europa e Usa. L'allarme del governo di Gerusalemme: «Rischiamo di perdere 5 miliardi di euro»

La causa palestinese sembra aver trovato una nuova forma di lotta: il boicottaggio. Esattamente come nel caso del Sudafrica durante l’apartheid il suo scopo ultimo è quello di isolare Israele economicamente e costringere il paese a cambiare le proprie politiche nei confronti dei palestinesi. Ma a differenza del paese di Mandela – ci tiene a precisare in una conversazione con Europa Hugh Lovatt, coordinatore per il Medio Oriente dello European Council on Foreign Relations (Ecfr) – «in Israele si tratta per lo più di forme di boicottaggio nei confronti di società operanti nei territori palestinesi occupati (Opt)» e non del paese nel suo complesso.

Nonostante limiti e differenze con il caso africano, negli ultimi anni il movimento a sostegno del boicottaggio è cresciuto in maniera esponenziale, fino ad essere definito dal governo israeliano «una vera e propria minaccia». E non soltanto: nel luglio 2013, dopo la decisione dell’Ue di escludere dai fondi europei le società con sedi e stabilimenti nell’Opt, è Yair Lapid, ministro delle finanze israeliano, ad affermare che una simile politica metterebbe a rischio il trenta per cento circa del volume di esportazioni verso l’Ue, pari a circa 5 miliardi di euro.

Al di là dell’Ue sono diverse le società europee ad aver deciso negli ultimi anni di boicottare prodotti proveniente dai territori palestinesi. Tra queste la catena di supermercati tedesca Kaiser, quella britannica Co-op a molte altre in Svezia, Irlanda e Spagna.

I primi risultati tangibili non hanno tardato ad arrivare: nel 2013, secondo un rapporto dell’Associated Press, le esportazioni israeliane di datteri, uva e peperoni dalla Valle della Giordania (parte dei Opt) sono diminuite del 14 per cento, l’equivalente di circa 22 milioni di euro. Nancy Kricorian, coordinatrice di Stolen Beauty, campagna dedita al boicottaggio di Ahava, società israeliana di cosmetici basata nei territori, spiega in una conversazione con Europa come il suo attivismo, analogamente a quello di molti altri, sia cominciato «a seguito dell’operazione Piombo Fuso e le inaccettabili violenze del governo israeliano».

Kricorian conduce infatti la propria battaglia dal 2009 e ha ottenuto in cinque anni risultati tangibili: il principale negozio di Ahava a New York ha dovuto chiudere dopo due anni di continue manifestazioni e anche i tentativi di attrarre nuovi investitori da parte della società basata nei territori – con l’aiuto di Goldman Sachs – non ha portato a nulla a causa dell’immagine negativa di Ahava promossa appunto da Stolen Beauty.

Oltre ai boicottaggi economici sono in crescita quelli culturali. Nel dicembre 2013, l’American Studies Association, associazioni per lo studio della storia americana, ha votato a favore di un boicottaggio accademico contro le università israeliane. Nel marzo del 2014, Riba, l’associazione di architetti più importante del Regno Unito ha chiesto alla International Union of Architects di togliere lo status di socio a Israele, mentre nel maggio scorso Roger Waters, il cantante dei Pink Floyd, ha pubblicamente fatto pressione sui Rolling Stone invitandoli a rinunciare alla data in programma in Israele.

Ma nonostante la crescita dei sostenitori della strategia del boicottaggio questa, secondo Lovatt, rimane ancora per lo più marginale. Il motivo? Per ragioni politiche l’establishment palestinese (Abbas, il leader di Fatah, il partito alla guida della Cisgiordania, si è sempre mostrato molto accondiscendente nei confronti di Netanyahu, il primo ministro israeliano) non ha mai apertamente appoggiato il movimento pro boicottaggio di Israele e malgrado sostenga a parole il boicottaggio dei prodotti proveniente dai territori occupati non ha mai optato per usarlo come arma politica. In un recente articolo Rami Khouri, noto editorialista del quotidiano libanese Daily Star, si riferiva al pacifismo dei boicottaggi come un possibile sostituto a nuove violenze o a una nuova intifada. Khouri è forse troppo ottimista, ma è innegabile che l’impatto delle iniziative è forte e che se il governo israeliano non cambia politica nei confronti del popolo palestinese i boicottaggi di quanto prodotto nei territori occupati è destinato a crescere.

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