Terrasanta.net
15 ottobre 2014

Lasciare Tel Aviv per Berlino?

«Vigliacchi». «Traditori». Volano parole grosse dentro la società israeliana per condannare alcuni giovani connazionali che recentemente, sui social network, hanno lanciato l’idea di andarsene da Israele verso Paesi in cui il costo della vita è più abbordabile. L’appello a emigrare suona fastidioso, a fronte dell’impegno del governo israeliano che fa di tutto per attirare gli ebrei della diaspora. Il dibattito sull’emigrazione israeliana è riaffiorato nelle ultime settimane, in un Paese in cui è ancora considerato quasi un crimine di «leso sionismo» il volersi trasferire altrove, o addirittura fare ritorno al proprio Paese d’origine.

L’emigrazione da Israele è motivata essenzialmente da ragioni economiche, soprattutto per quella fascia d’età tra i 25 e i 40 anni che non riesce a sbarcare il lunario.

Il tema scalda gli animi e ultimamente ha fatto scalpore una pagina Facebook creata da un venticinquenne che propone di emigrare verso la Germania e più precisamente verso Berlino. In meno di una settimana, la pagina ha ricevuto oltre 13.500 Mi piace. Il creatore ha attirato l’attenzione semplicemente facendo il raffronto tra il prezzo a Berlino e quello in Israele di una popolare marca di yogurt: in Germania costa quattro volte di meno.

L’invito a lasciare la terra d’Israele non è piaciuto a tutti. C’è chi, al di là della destinazione, trova inimmaginabile poter lasciare un territorio tanto duramente conquistato. Il ministro delle Finanze, Yaïr Lapid, ha reagito vivacemente denunciando «coloro che sono pronti a buttare al macero l’unico Stato degli ebrei solo perché si vive meglio a Berlino». Una dichiarazione che riecheggia le parole del defunto primo ministro Itzhak Rabin, il quale nel 1974 definiva gli emigranti «rifiuti» e «pappamolla». Secondo buona parte della destra israeliana, il fenomeno emigratorio è sovrastimato e riguarderebbe, in realtà, solo un’infima minoranza di «sinistrorsi», che i mass media amano mettere sotto i riflettori. Gli editoriali che compaiono su organi di stampa considerati a sinistra, come il quotidiano Haaretz, invece, insistono sui vantaggi economici a disposizione in Paesi come la Germania: istruzione gratuita, una buona rete di trasporti pubblici, l’assistenza dello stato sociale, congedi di maternità, due giorni di riposo settimanale, stipendi più alti. Questioni che nel 2011 furono al cuore della «rivolta delle tende», una mobilitazione sociale organizzata per diverse settimane dai giovani israeliani a Tel Aviv. Infine, davanti al desiderio di emigrare, c’è chi mette l’accento sulle responsabilità dei governi della destra radicale, che avrebbero alimentato un clima di «razzismo e di risposta identitaria sulle ceneri degli accordi di Oslo».

I critici sono tanto più scettici rispetto alla meta proposta: Berlino. Molti la trovano irrispettosa e accusano i nuovi emigrati di esser pronti a tornare «nella terra della Shoah solo per risparmiare pochi shekel». Un membro del governo ha parlato di «bassezza innominabile». Doron Cohen, ex direttore generale del ministero delle Finanze, ha osservato che si raggiunge così «il gradino più basso della scala morale».

Reazioni durissime, se si pensa che oggigiorno Israele intrattiene relazioni bilaterali eccellenti con la Germania, nazione che da lungo tempo ha voltato pagina e preso le distanze dal nazismo. Dichiarazioni in sintonia con gli orientamenti politici del primo ministro Benjamin Netanyahu, che evoca in continuazione uno «Stato ebraico per gli ebrei». Non se ne parla di partire, per quanto le condizioni economiche possano essere dure per i giovani israeliani! Davanti alla levata di scudi, una giornalista del Jerusalem Post ha invece osservato che la scelta della capitale tedesca è un simbolo potente: «È la più bella vittoria vedere che Berlino è una città in cui gli ebrei desiderano stabilirsi».

Di fatto il fenomeno dell’emigrazione sembra prendere piede. Nel 2012 partirono in 8 mila; l’anno dopo furono 9.020. Secondo dati riportati dal quotidiano The Times of Israel dal 1996 ad oggi sarebbero 158.800 gli israeliani che sono tornati al proprio Paese d’origine o hanno scelto una nuova destinazione.

Al di là del tangibile incremento delle partenze, occorre prendere nota di un mutamento di mentalità nelle famiglie israeliane. Un recente sondaggio (realizzato per conto dell’emittente televisiva Canale 10 nel 2013) mette in luce che il 45 per cento degli israeliani si dice pronto a sostenere i propri figli se dovessero decidere di lasciare il Paese. Il 33 per cento non li incoraggerebbe ma non si opporrebbe. Soltanto il 20 per cento sarebbe contrario.

D’altro canto il fenomeno delle partenze non è nuovo. Il flusso verso gli Stati Uniti sembra ormai una realtà acclarata. Solo il futuro dirà se la linea di tendenza emigratoria continuerà a crescere.

top