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20/05/2014

Il generale che piace all’Occidente
di Tommaso Canetta

L’offensiva contro le milizie islamiche potrebbe dare alla Libia la stabilità che Usa e Ue cercano

Agli americani piace per la battaglia al terrorismo e al fanatismo islamico che ha intrapreso. Ai militari al potere in Egitto piace per la comune provenienza (l’esercito) e i comuni obiettivi (estirpare o almeno limitare le forze politiche che si ispirano all’estremismo religioso). A chiunque compri gas o petrolio dalla Libia piace l’idea che il Paese si stabilizzi, riportando i livelli di produzione a quelli di un tempo (in un anno si è passati da 1 milione e 400 mila barili al giorno ad appena 150 mila). Il tenente generale Khalifa Haftar e il suo tentativo di «ripulire la Libia dai terroristi» (se usiamo le sue parole) o “golpe” se usiamo quelle dei suoi avversari — non manca di appoggi internazionali. A condizione, ovviamente, che vinca.

Haftar, 71 anni, è un ex militare formatosi nell’allora Unione sovietica e sostenitore del colpo di stato del 1969 che portò al potere Gheddafi. Cade in disgrazia dopo la disastrosa guerra col Ciad (1978-1987), in cui è fatto prigioniero. Viene poi liberato da un’azione degli Stati uniti, che gli concedono il diritto d’asilo: da allora e per gli anni successivi gira la voce, alimentata da Gheddafi stesso, che Haftar sia al soldo della Cia. Torna in Libia nel marzo 2011, appena scoppiata la rivolta, e ottiene il comando delle truppe di terra. Da sempre critico con le nuove autorità di Tripoli — troppo accomodanti con gli estremisti islamici e troppo diffidenti verso i militari ex gheddafiani passati, anche in tempi non sospetti, dalla parte dei ribelli — già lo scorso febbraio aveva manifestato l’intenzione di prendere l’iniziativa contro il governo di transizione.

Venerdì 16 maggio – alcuni giorni dopo un consistente aumento del contingente americano a Sigonella — Haftar ha lanciato una pesante offensiva a Bengasi contro le milizie islamiche collegate ad Ansar al Sharia, un gruppo salafita forte nell’est del Paese che propugna l’applicazione della sharia in Libia. Gli Usa la ritengono un’organizzazione di stampo terroristico, coinvolta in numerosi omicidi di politici, attivisti e giornalisti, nonché nell’attentato di Bengasi nel 2012 in cui venne ucciso, tra gli altri, l’ambasciatore americano Cristopher Stevens. Le vittime degli scontri sono state 79, con oltre 140 feriti, e il governo di Tripoli ha parlato di “golpe”. La domenica successiva il parlamento di Tripoli è stato assaltato dalle milizie di Zintan, tra le meglio equipaggiate nel Paese e di ispirazione laica (in questo si contrappongono alle milizie filo-islamiche di Misurata, l’altra grande forza dell’Ovest del Paese), che hanno presto esplicitato il proprio collegamento con Haftar. Dopo un’iniziale stallo decisionale da parte del governo, lunedì le attività del parlamento sono state sospese, come richiesto da Haftar, incluse quelle del neo-premier Ahmed Miitig, l’imprenditore miliardario di Misurata entrato in politica solo lo scorso 4 maggio con l’appoggio dei fondamentalisti islamici. Secondo le dichiarazioni dei militari, ora il potere dovrebbe passare a un’assemblea costituente che definisca la nuova carta fondamentale.

Nelle ultime ore diversi importanti spezzoni dell’apparato militare libico stanno passando dalla parte di Haftar. Wanis Abu Khamada, capo delle forze speciali libiche, ha dichiarato poco dopo la sospensione delle attività parlamentari che gli uomini della sua unità d'élite sono «pronti a combattere contro il terrorismo». Nella nottata anche le truppe degli aeroporti di Bengasi e Tobruk si erano schierati con Haftar.

Non si può ancora parlare di “smottamento”, viste anche le logiche tribali che si riverberano anche all’interno dell’esercito, e la situazione rimane molto fluida. L’esito potrebbe però essere quello di avere un ricompattamento dei due fronti, laico e islamico, nella prospettiva di un futuro aspro scontro per il potere. Ansar al Sharia ha già accusato Haftar di promuovere la guerra dell’Occidente contro l’Islam e ha dichiarato di essere pronta a dare battaglia.

«Non ci sono gli elementi per dirlo con certezza, i fatti sono ancora troppo recenti e confusi, tuttavia vista la sua storia personale non sarei sorpreso se dietro alle mosse di Haftar ci fosse un’imbeccata da parte degli Stati Uniti», dice Claudio Neri, direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi strategici. «Imbeccata non significa per forza che da Washington sia partito un ordine. Può anche voler dire che l’America sapeva prima cosa sarebbe successo e non l’ha impedito perché le andava bene. Contenere il terrorismo di matrice islamica in Africa sta diventando sempre più una priorità per gli Usa. In Algeria, Egitto, Nigeria, Libia e via dicendo ci sono segnali di una preoccupante diffusione dello jihadismo. In secondo luogo in Africa è sempre più presente e attiva la Cina. In prospettiva agli Stati uniti può tornare utile essere presente nell’area — in questo caso anche solo a livello di alleanze e influenze — per rispondere all’espansionismo di Pechino».

L’Italia ha un rapporto speciale con la Libia. Ex colonia, partner economico e fornitore di gas e petrolio, il Paese nordafricano è strategicamente fondamentale per Roma, anche per la questione del contenimento dell’immigrazione via mare. «Penso sia essenziale che chiunque aspiri ad ottenere – e poi mantenere - il potere a Tripoli parli con noi», prosegue Neri. «Essenziale per loro, visto che l’Italia è un attore rilevante da un punto di vista economico e non solo, ad essenziale anche per noi. Nelle prossime settimane si dovrà guardare alle mosse di Francia e Inghilterra, per capire se — come già nel 2011 — proveranno a marginalizzare l’Italia in Libia a proprio vantaggio (l’operazione all’epoca non riuscì). In questo senso bisogna vedere anche cosa deciderà Washington: se intervenire direttamente dettando la propria agenda o se delegare ad altri e, in questo secondo caso, a chi. L’Italia, in particolare l’Eni, ha accordi molto forti con la Libia. Fintanto che perdura il caos — conclude Neri — è difficile che vengano messi in discussione».

Il radicamento italiano in Libia è difficile da soppiantare, anche per due potenze come Francia e Inghilterra. «A Roma qualcuno è sveglio», sostiene Matteo Verda, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) specializzato nell’ambito della sicurezza energetica. «Come già nel 2011 credo siano in atto delle contromisure per evitare di perdere peso nel Paese nordafricano. Penso siano già avviati contatti stretti con gli insorgenti per bilanciare l’eventuale attivismo di altri Stati. E poi noi partiamo da una situazione di vantaggio: sul territorio l’Eni ha all’attivo decenni di lavoro intensivo, e il rapporto con la società e con il tessuto economico della Libia — quel poco che esiste — è multilivello, non riguarda solo i vertici. Sarà difficile da rimpiazzare».

In ogni caso i consumatori italiani non devono preoccuparsi più di tanto. «Per quanto riguarda il gas — prosegue Verda — il gasdotto Greenstream si è rivelato inaffidabile già in passato senza che si creassero particolari problemi per il nostro Paese, e ora siamo anche in una fase di bassi consumi. Per quanto invece riguarda il petrolio, le tensioni in Libia interessano più Eni, che subisce un danno economico rilevante, che non l’Italia. In caso cali ulteriormente il flusso di barili da Tripoli – conclude Verda - possiamo rivolgerci al mercato azero e ad altri ancora».

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