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1 settembre 2014

Il governo libico ammette che Tripoli è in mano alle milizie
di Davide Vannucci

Le brigate di Misurata spadroneggiano nella capitale, il parlamento "legittimo", rifugiato a Tobruk, stravolge la costituzione per nominare un nuovo premier. Ormai è una guerra per procura tra due stati del Golfo, Qatar ed Emirati

Un paese diviso in due, questa è la Libia è di oggi, non ancora un failed state, espressione usata da John McCain per attaccare Barack Obama («è quello che accade quando si guida una situazione from behind»), ma un territorio che scivola, non troppo lentamente, verso la guerra civile.

Il governo dimissionario, guidato ad interim da Abdullah al Thinni, ha reso ufficiale quello che già si sapeva. «La maggior parte dei ministeri e delle istituzioni statali a Tripoli sono fuori dal nostro controllo», questo il comunicato dell’esecutivo, legato al parlamento eletto a giugno, un’assemblea incapace di riunirsi tanto nella capitale quanto a Bengasi, e costretta a rifugiarsi a Tobruk, vicino al confine con l’Egitto. La nuova House of Representatives ha incaricato lo stesso al Thinni di formare un nuovo governo, possibilmente inclusivo di tutte le realtà libiche, ma sembra improbabile che questa mossa possa invertire il corso degli eventi.

Le regole, ormai, vengono scritte e riscritte a piacimento: al Thinni ha ricevuto 64 voti, lontano dai 120 consensi necessari ad ottenere formalmente l’incarico, ma il parlamento sostiene che la regola non si applica più, perché l’assemblea si è arrogata poteri presidenziali, in attesa dell’elezione diretta del capo dello Stato (quando, non è dato sapere), per cui è sufficiente la maggioranza relativa. Nel frattempo, una settimana fa l’altro Congresso, quello decaduto a giugno, aveva nominato un proprio premier, l’islamista Omar al Hassi.

Due parlamenti, due governi, ma soprattutto due coalizioni militari e due missioni: l’operazione “Dignità” del fronte anti-islamista – lanciata dal generale dissidente Khalifa Haftar, adesso finalmente sotto l’ombrello del governo “di Tobruk” – e quella “Alba”, condotta da milizie prevalentemente filoislamiche. È difficile fermare questo piano inclinato proprio perché a parlare sono soprattutto le armi.

La missione Alba ha raggiunto il suo scopo primario, conquistare Tripoli (sede, tra l’altro, della banca centrale e della compagnia petrolifera nazionale, la Noc). I membri della milizia di Misurata, principali protagonisti dell’operazione, hanno conquistato, dopo l’aeroporto della capitale, un luogo simbolico, un edificio annesso all’ambasciata americana (una fonte del governo ha precisato che non si tratta della rappresentanza diplomatica, ma di un palazzo utilizzato dal personale, peraltro già liberato dai documenti “sensibili” il 26 luglio, quando gli Usa hanno lasciato temporaneamente il paese).

I due fronti militari si stanno compattando e resta da vedere come si comporteranno i loro padrini nella regione, Egitto ed Emirati, da una parte, Qatar dall’altra. L’Occidente, al momento, è inerte e, come ha scritto Andrew Hammond in un pezzo uscito su Foreign Policy, la Libia rischia di diventare il campo di battaglia tra due stati del Golfo. È interessante analizzare l’evoluzione politica di questi paesi, non più semplicemente associabili ai petrodollari. Dopo l’invasione americana dell’Iraq e la ripresa dell’attivismo iraniano, scrive Hammond, gli stati del Golfo hanno investito pesantemente in spese militari. Emirati e Qatar hanno partecipato assieme alla campagna contro Gheddafi. Poi, mentre Abu Dhabi si è ritirata dalla Libia, Doha ha continuato ad esercitare un ruolo importante, sostenendo gli islamisti. Ora che il conflitto tra milizie si è polarizzato, gli Emirati, oltre a colpire in patria i Fratelli musulmani, sono intervenuti nella partita libica.

È molto probabile che i due raid che hanno colpito le brigate di Tripoli, il 17 e il 23 agosto, siano stati lanciati da sei jet Mirage di fabbricazione francese, acquistati da Abu Dhabi e partiti dalla base egiziana di Siwa.

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