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Lun 31 Mar 2014

Turchia, la rivincita di Erdogan
di Mario Lombardo

Nonostante gli scandali che negli ultimi mesi hanno messo seriamente in crisi il governo islamista turco, il partito del primo ministro, Recep Tayyip Erdogan, ha incassato una netta vittoria nelle elezioni amministrative andate in scena nella giornata di domenica. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha addirittura incrementato la quota di consensi ottenuta nella precedente tornata elettorale del 2009, anche se ha ceduto terreno rispetto alle parlamentari di quattro anni fa, confermando un qualche riflesso negativo dovuto ai problemi del premier e al tempo stesso la sostanziale incapacità da parte dell’opposizione secolare di capitalizzare le tensioni che stanno attraversando il paese euro-asiatico.

L’AKP ha superato il 45% su scala nazionale, vale a dire più di 6 punti in più rispetto alle ultime amministrative, mentre quasi 5 punti sono stati invece persi dal partito di Erdogan dal 2011 a oggi. I due principali partiti di opposizione hanno fatto segnare solo modesti miglioramenti, con il CHP (Partito Popolare Repubblicano) che ha sfiorato il 28% (+ 2% rispetto al 2011) e la formazione di estrema destra MHP (Partito del Movimento Nazionalista) che è salita al 15% (+2%).

Sul voto di domenica, Erdogan aveva investito buona parte del proprio capitale politico e, pur non apparendo sulle liste elettorali, era stato protagonista della campagna del suo partito, chiedendo ai turchi di non lasciarsi influenzare da procedimenti giudiziari e rivelazioni della stampa, definiti come un tentativo di abbattere in maniera anti-democratica il governo in carica.

L’obiettivo della battaglia di Erdogan era e continua a rimanere il movimento islamista Hizmet del predicatore e accademico Fethullah Gülen, residente negli Stati Uniti da dove controlla un vasto numero di istituzioni scolastiche e, secondo molti, mantiene contatti molto stretti con ambienti della magistratura turca, responsabile dell’avvio di svariati procedimenti giudiziari per corruzione ai danni di membri del governo.

Contro l’ex alleato Gülen e i suoi fedeli il primo ministro ha tuonato nella serata di domenica nel corso di un discorso ad Ankara poco dopo la diffusione dei primi risultati. Con tono minaccioso che prospetta una resa dei conti nel prossimo futuro, Erdogan ha affermato che “domani ci saranno alcuni che fuggiranno”, ma “li seguiremo fin nelle loro caverne… ed essi pagheranno per le loro azioni”.

Un’ulteriore accelerazione autoritaria potrebbe così essere all’ordine del giorno in Turchia dopo la legittimazione elettorale ottenuta dall’AKP. Ciò farebbe seguito non solo alla repressione delle proteste anti-governative esplose fin dall’estate scorsa in molte parti del paese, ma, ad esempio, anche alla legislazione che assegna all’esecutivo maggiori poteri sulla magistratura e di controllo su internet, nonché alla più recente chiusura di Twitter e YouTube. Quest’ultimo sito è stato bloccato a causa della diffusione settimana scorsa di un filmato nel quale diplomatici e membri dell’intelligence discutono l’ipotesi di pianificare un finto attacco contro gli interessi turchi in Siria, così da giustificare un’aggressione militare contro Damasco.

La vittoria dell’AKP, in ogni caso, non ha potuto nascondere le tensioni nel paese, confermate dagli scontri in alcune province nel giorno del voto che hanno fatto addirittura una decina di morti. La Turchia d’altra parte rimane estremamente polarizzata, con ampi settori della popolazione sempre più ostili al governo di Ankara, soprattutto tra i più giovani e la borghesia urbana tradizionalmente secolare, risentita, tra l’altro, dall’ondata islamista che ha investito il paese da un decennio a questa parte.

L’AKP, infatti, utilizza l’arma della religione per mobilitare le classi tradizionalmente più emarginate nella storia della Turchia repubblicana, prospettando loro un’emancipazione che, in realtà, si è tradotta più che altro nell’arricchimento relativo di una nuova borghesia islamista e - smisurato - di una ristretta cerchia di imprenditori legati al partito, tra cui gli stessi membri della famiglia Erdogan.

I timori del governo per una batosta elettorale erano in ogni caso diffusi, come dimostra sia l’isteria del premier e dei suoi uomini alla vigilia del voto sia i probabili brogli che, pur non avendo alterato l’esito finale, sono stati segnalati in moltissimi seggi.

Ad Ankara, poi, l’esito della corsa per la carica di sindaco rimane in bilico, con i due principali candidati divisi da una manciata di voti che si sono dichiarati entrambi vincitori. Il CHP - il cui candidato, Mansur Yavas, sfidava il sindaco uscente dell’AKP, Melih Gökcek - ha annunciato un’azione legale per un riconteggio dei voti dopo che gli ultimi risultati avevano evidenziato un leggero margine di vantaggio per l’AKP.

La posta in gioco era molto alta anche a Istanbul, dove Erdogan stesso aveva ricoperto la carica di sindaco negli anni Novanta e il partito del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal “Atatürk”, cercava di dare una spallata all’AKP per gettare le basi di una riscossa nazionale. Anche qui i due candidati con il maggior numero di voti hanno rivendicato il successo alla chiusura delle urne ma nelle ore successive il margine a favore dell’AKP è andato allargandosi.

Il CHP, dunque, non è stato in grado di intercettare i sia pur presenti segnali di declino della popolarità di Erdogan e dell’AKP, continuando ad essere visto invece come il partito delle élite secolari turche ed una minaccia alla libera espressione della religione islamica tra la popolazione più osservante.

Il suo leader, Kemal Kiliçdaroglu, ha da parte sua escluso che la prestazione del partito sia stata un fallimento, ammettendo però in un’intervista rilasciata al quotidiano Hürriyet che gli sforzi fatti in campagna elettorale per fare in modo che “le masse non si sentissero alienate” sono stati tutt’altro che convincenti.

Le attenzioni dei media turchi ed occidentali si stanno comunque già concentrando sulle prossime mosse di Erdogan, il quale dovrà decidere se partecipare alle elezioni presidenziali della prossima estate oppure se intenderà candidarsi per un quarto mandato alla guida del governo nel voto per il rinnovo del parlamento nel 2015. Quest’ultima scelta appare a molti la più probabile alla luce dei risultati delle municipali di domenica, anche se una nuova candidatura di Erdogan a primo ministro dovrà essere preceduta da una modifica delle regole interne al partito che prevedono un massimo di tre incarichi per i propri membri.

Al di là dei risultati elettorali e dei toni trionfalistici di Erdogan, la posizione del governo continuerà con ogni probabilità ad essere precaria nei prossimi mesi, così come minaccia di protrarsi ulteriormente l’instabilità politica. Ciò è dovuto in primo luogo all’evolvere dei guai giudiziari di vari esponenti del governo ma anche al deteriorarsi di un’economia a lungo indicata come modello da seguire per i paesi emergenti e ora in evidente affanno anche a causa dell’altissimo livello di indebitamento del paese e del proprio settore privato.

Inoltre, le sconsiderate scelte di politica estera di Erdogan e del suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, hanno messo la Turchia in una posizione delicata, in particolare riguardo la crisi in Siria. Ankara ha appoggiato infatti fin dall’inizio e in maniera decisa l’opposizioni anti-Assad, finendo per importare la minaccia fondamentalista alimentata oltre il confine meridionale e rischiando di entrare direttamente in un conflitto rovinoso contro la volontà della grande maggioranza della popolazione.

Il governo Erdogan, poi, aveva appoggiato in pieno il nuovo regime dei Fratelli Musulmani in Egitto, subendo perciò una grave umiliazione in seguito al colpo di stato militare che nel luglio scorso al Cairo depose il presidente Mohamed Mursi e diede vita al riallineamento strategico nella regione.

A ciò deve aggiungersi infine la posizione di relativa indipendenza mostrata dalla Turchia riguardo le relazioni con l’Iran, mantenute in buona parte sia a livello diplomatico che economico. Il rapporto con Teheran ha contribuito ad alterare almeno in parte i rapporti con gli Stati Uniti, tanto che in molti ritengono che a Washington ci sia ben poca opposizione alla campagna di destabilizzazione condotta dal movimento di Fethullah Gülen ai danni del governo dell’AKP in questi mesi.

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