Ma’an
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26/4/2014

Gerusalemme: la città che amiamo di più e dove andiamo di meno
di Rifat Odeh Kassis
Traduzione di Elisa Proserpio

Prendendo a parte i dodici discepoli, Gesù disse: “Ascoltate, andiamo a Gerusalemme, dove si avvereranno tutte le predizioni dei profeti sul Figlio dell’Uomo”. Poi Gesù si fece portare un puledro d’asina, e stesero i loro mantelli per farlo cavalcare. La notizia del suo arrivo si diffuse per tutta la città, e le folle sciamarono in strada per vederlo.

Per me, come per molti palestinesi, sia musulmani che cristiani, Gerusalemme è la città che amo di più e dove vado di meno.

Ricordo che da bambino andavo a Gerusalemme con il mio defunto padre passando per la via vecchia. Un viaggio che richiedeva molte ore, a causa della no-man’s zone che ci impediva di entrare direttamente nella città divisa. Nonostante gli ostacoli che anche allora esistevano, ricordo che andare a Gerusalemme era un evento molto gioioso. Significava mangiare i dolci che non potevamo trovare al villaggio, visitare i luoghi santi di cui avevamo solo sentito parlare a scuola e in chiesa. Oppure significava andare dal medico, dato che in quel periodo la gran parte dei dottori viveva a Gerusalemme. Ad ogni modo, la mia relazione sentimentale con la città è forte.

Quando scoppiò la prima Intifada nel 1987, per quelli di noi che vivevano in Cisgiordania, Gerusalemme venne isolata; dovevamo ottenere permessi speciali per entrare in città. Andare a Gerusalemme diventò legalmente impossibile per me: poiché ero stato un prigioniero politico, venni inserito in qualche tipo di lista nera di Stato; le autorità israeliane non mi avrebbero rilasciato un permesso. Non ritorno a Gerusalemme dal 2002. Mio figlio Dafer in 29 anni non l’ha mai visitata, nonostante abbia viaggiato praticamente per mezzo mondo. Per me e la mia famiglia essere banditi da Gerusalemme è una grande perdita emotiva e psicologica.

Per i cristiani palestinesi, Gerusalemme è segnata non solo da ricchezza di simboli, ma anche da tensioni emblematiche. Prima di tutto, nonostante sia considerata sacra per tutti i cristiani del mondo – il luogo della crocifissione e risurrezione di Gesù, luogo di nascita della cristianità stessa, sito delle prime chiese e meta storica di pellegrinaggio – per noi palestinesi è per vari aspetti una città normale. È la nostra capitale politica, ed è stata tradizionalmente un centro economico, di turismo, di servizi sanitari e di istruzione.

In questo senso, la mia relazione con Gerusalemme da cristiano palestinese è duplice: per me, è sia il luogo sacro universale dove la gente va a pregare e sentirsi in contatto con i luoghi santi, sia la capitale del mio Paese, la Palestina – anche se lo stato occupante non la riconosce come tale. Ma, ancor più fortemente, Gerusalemme è il luogo universalmente santo dove non posso andare a praticare la mia fede, e la capitale che non posso visitare.

Gerusalemme è anche un punto focale per la lotta palestinese: il luogo dove è iniziata la nostra battaglia, e il luogo dove finirà. La sua importanza è emblematica sia su scala politica che religiosa, sia per i palestinesi che per gli israeliani. Secondo la legge internazionale, Gerusalemme Est è un territorio occupato, così come lo sono quelle parti della Cisgiordania che Israele ha annesso unilateralmente al distretto di Gerusalemme. La Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e i Regolamenti dell’Aia del 1907 vietano alle forze occupanti di modificare gli stili di vita dei cittadini occupati; allo stesso modo proibiscono ai membri dello stato occupato di insediarsi nel territorio occupato. Questo significa che le azioni israeliane a Gerusalemme Est, sia storiche che attuali, costituiscono clamorose violazioni del diritto internazionale.

Le violazioni stesse sono abbondanti e continue: espropriazione di lunga data (a partire dal 1967 fino ad oggi) delle terre di privati palestinesi, che spiana la strada agli insediamenti illegali (che nel dibattito interno israeliano vengono definiti “quartieri”); demolizione delle case palestinesi, che lascia molta gente senza un tetto; politiche discriminatorie per i permessi per gli alloggi; la politica israeliana dello “spostamento silenzioso”, con la revoca della residenza a Gerusalemme Est a chi si è trasferito dai confini municipali; innumerevoli altre.

Israele non sta semplicemente tentando di farsi strada a Gerusalemme. Sta tentando di monopolizzarla (di nuovo, sia a livello quotidiano che universale, sacro), escludendo i cristiani e musulmani palestinesi dalla città. Per noi palestinesi, Gerusalemme è una città per tutte e tre le fedi: cristiani, musulmani, ebrei. La sua sacralità non dovrebbe essere soffocata, e i suoi simboli più sacri – come la Moschea di al-Aqsa per i musulmani, la Chiesa del Santo Sepolcro per i cristiani e il Muro del Pianto per gli ebrei – meritano tutti il loro spazio nella città universale. Qualsiasi tentativo di monopolizzarli è un tentativo di monopolizzare questa universalità, e noi, tutti quanti, dobbiamo resistervi.

In “A Moment of Truth”, il documento di Kairos Palestine, affrontiamo Gerusalemme sia da una prospettiva specificamente cristiano-palestinese che da una prospettiva umana universale. Affermiamo molto chiaramente che Gerusalemme è una città occupata, che la sua occupazione è un peccato contro Dio e contro l’umanità, e che costituisce una sfida della Sua volontà così come della comunità internazionale. Sottolineiamo anche che Gerusalemme dovrebbe essere il luogo e il modello per la riconciliazione – non il posto e la ragione del conflitto, ruolo che ha oggi.

Così, crediamo che la questione di Gerusalemme dovrebbe essere l’inizio della nostra riconciliazione, e non dovrebbe assolutamente essere lasciata alle questioni cosiddette “finali” sull’agenda dei negoziati. Risolvere per primo il conflitto su Gerusalemme instaurerebbe un modello per le due nazioni stesse, così come per la risoluzione di altri conflitti tra loro. Incoraggerebbe anche la crescita e lo sviluppo di una pace giusta nella regione.

In ogni caso, i palestinesi devono avere il diritto di esercitare la sovranità su Gerusalemme Est. Sono sicuro che il futuro di Gerusalemme detterà il futuro del conflitto stesso. Spero che, come invita a fare il Documento di Kairos, nel processo verrà onorata la vera natura di Gerusalemme – universale, sacra, accogliente. Ha così tanto da insegnarci.

In questa Pasqua, Kairos Palestine sceglie di trasmettere un avvertimento a tutte le chiese e a tutti i cristiani del mondo. Il fulcro di questo avvertimento sono Gerusalemme e i suoi abitanti: la loro realtà, i loro problemi, i loro diritti. In questo avvertimento, Kairos Palestine invita tutti i cristiani del mondo a volgere gli occhi su Gerusalemme e i gerosolimitani: li tengano nelle loro preghiere e lavorino per esercitare pressione su Israele in quanto potenza occupante, affinché rimuova l’occupazione e apra la città a tutti i fedeli.

Kairos Palestine chiede ai suoi sostenitori di uscire dallo stallo e impegnarsi in diverse attività quali la distribuzione degli avvertimenti e dei materiali di studio nelle loro chiese e comunità, per informare e istruire sulla situazione dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana; [la diffusione] dell’avvertimento nelle congregazioni e diocesi di ogni nazione; l’invio alle ambasciate israeliane dei propri paesi di lettere di solidarietà e sostegno a favore della giustizia in Palestina/Israele.

Kairos Palestine invita a rispondere all’appello e venire a conoscere i fatti e la gente di questa terra; e ad essere solidali con loro, perché possano finalmente vivere in pace e giustizia.

Rifat Odeh Kassis – coordinatore generale del gruppo attivista cristiano-palestinese Kairos.

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