Originale: Ceasefire
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2 marzo 2014

Intervista a Ben White sul processo di pace
Traduzione di Maria Chiara Starace

Ben White è un ricercatore ed analista per  il sito  Middle East Monitor e per il Journal of Palestine Studies. E’ autore del libro: Palestinians in Israel:Segragation, Discrimination and Democracy [I palestinesi a Israele: segregazione, Discriminazione e democrazia]; ha scritto per il Guardian, New Statesman e Al Jazeera.

Questa settimana vede l’inizio della ‘Settimana sull’Apartheid di ‘ (IAW) nei campus universitari nel Regno Unito e in altri paesi esteri, che mirano ad aumentare la consapevolezza sul continuo soggiogamento del popolo palestinese. Mi sono messa in contatto con Ben White all’inizio di questa settimana per parlare della IAW e anche dell’uscita, avvenuta la settimana scorsa, di una nuova edizione del suo primo libro: Israeli Apartheid: A Beginners Guide [L’apartheid in Israele: una guida per il principiante].

Sara Chaudry (SC): Fino dall’uscita, nel 2009 di: L’apartheid in Israele: una guida per il principiante, quali cambiamenti ha apportato alla nuova edizione, e perché?

Ben White (BW): Ho voluto aggiornarlo perché tante statistiche e informazioni sono cambiate dal 2009 (sono passati 5 anni dalla prima edizione). In termini di cambiamenti specifici, ho trattato in maniera un poco più ampia l’apartheid nell’introduzione, perché ci sono stati altri lavori in proposito. Ho  voluto mettere anche altro materiale su Gaza perché avevo finito il manoscritto della prima edizione pochi giorni prima che iniziassero i bombardamenti dell’Operazione Piombo Fuso nel dicembre 2008. Ovviamente questo è un  evento importantissimo, in primo luogo come entità del massacro, e, in secondo luogo, perché ha contribuito alla crescita del movimento di solidarietà che volevo venisse evidenziato nell’ultima sezione del libro che si concentra nell’aiutare il lettore a pensare che cosa può fare in risposta alla situazione dell’apartheid.

C’è quindi una trattazione più ampia dell’apartheid, altro materiale su Gaza per evidenziare l’Operazione Piombo Fuso e l’Operazione Pilastro della Difesa, per non parlare della situazione generale di assedio e di blocco. Si danno anche altre informazioni sui cittadini palestinesi che vivono in Israele, perché negli anni scorsi ci sono state altre leggi discriminatorie e altri attacchi di tipo nazionalistico mirati contro di loro, e infine la nuova edizione presenta ulteriori spiegazioni sulla crescita della campagna globale: Boicottaggio Disinvestimento e sanzioni (BDS).

Ciononostante, il concetto essenziale è rimasto lo stesso: scrivere un libro che qualcuno che si accosta all’argomento per la prima volta, sarà in grado di scegliere, comprendere e leggere senza troppa difficoltà, per avere un’idea di che cosa hanno significato le politiche israeliane per il popolo palestinese negli ultimi 60 anni e più.

SC: Che cosa le piacerebbe che i lettori ricavassero dal suo libro?

BW: Uno dei motivi per cui ho scritto questo libro era che presentasse una sfida ai discorsi convenzionali e che ricordasse alle persone che non parliamo di un antico conflitto tribale o di una guerra religiosa o  di un semplice problema di “risoluzione di un conflitto.”

Vorrei sperare che possa fare da contrappunto a quella che è ancora una formulazione convenzionale prevalente delle “due parti” che implica un’uguaglianza di equilibrio di potere che non c’è. Vorrei sperare che il libro verrà letto da studenti, attivisti, da che definisce le politiche e che sarà il tipo di libro che vi piacerebbe regalare a un collega o a un amico.

SC: C’è stato un motivo particolare per cui ha scelto di mettere la parola ‘apertheid’ nel titolo?

BW: L’ho usato perché credo sinceramente che sia una formulazione  molto utile per capire le politiche di Israele. Nell’introduzione faccio notare che non penso che sia necessariamente l’unica formulazione   utile, e che abbia i suoi limiti, ma penso che sia appropriata ed è utile. Penso anche che fornisca  una necessità  morale per quella situazione. Non si tratta “del conflitto israelo-palestinese”, ma di un popolo colonizzato che lotta per il ritorno, per la libertà da una discriminazione sistematica, per la fine dell’apartheid.

SC: Lei parla del movimento BDS nell’ultima sezione del suo libro: perché pensa che abbia avuto tanto successo negli scorsi nove anni, e perché è importante continuare a boicottare Israele?

BW: Vale la pena ricordare perché la struttura e la strategia del BDS è così importante. Il motivo è che è stata provata e controllata da vari gruppi di persone oppresse nel corso della storia. Per questo sappiamo perché è riuscita  e può riuscire quando viene applicata alla lotta palestinese.

Il movimento BDS concentra la sua attenzione sulle politiche di Israele, e per questo collegamento ci possono essere conseguenze e risultati che ne conseguono. La campagna del BDS nel 2005 aveva come obiettivo tre elementi principali che vanno dritti al cuore del progetto coloniale sionista. Questi comprendevano il diritto di ritorno per i profughi palestinesi, l’uguaglianza  e la fine dell’occupazione militare. Il BDS si occupa della fine dell’impunità israeliana; questa è direttamente connessa al fatto di assicurarsi che Israele sia ritenuto colpevole delle sue azioni, in linea con la legge internazionale.

Sappiamo già che togliere le colonie solo dall’interno di Israele, non è possibile, è stato confermato da persone come Ilan Pappe e altri, e quindi sappiamo che non è possibile che alla società israeliana vengano tolte le colonie senza l’auto della comunità internazionale. Il fatto che il movimento BDS stia diventando più noto che galvanizzi più sostegno sta provocando un impatto sui discorsi politici dominanti. Il BDS si occupa di fare ricerche, di identificare obiettivi per una campagna e di avere uno scopo chiaro. Dovremmo essere creativi nei nostri metodi di condurre le nostre campagne.

SC: La comunità internazionale ha un grosso ruolo nell’aiutare a porre fine all’occupazione. Che responsabilità hanno gli attivisti impegnati nella solidarietà internazionale?

BW: Godiamo di un  privilegio significativo in quanto attivisti della solidarietà, ma dobbiamo ricordarci che non siamo dei liberatori. Voglio che la mia posizione  non venga stabilita da ciò che qualcuno dice in Gran Bretagna, ma dalle richieste fondamentali del popolo palestinese di libertà e dignità.

I boicottaggi sono strategici e politici; aiutano a isolare l’oppressore e a fargli pressione economica, culturale e accademica. La gente non si sveglierà e smetterà di essere razzista. Non facciamo il boicottaggio neanche per sentirci migliori. Unendo le forze con altri possiamo ottenere cambiamenti efficaci attraverso campagne mirate.  Per cominciare, questo cambiamento deve arrivare dalle persone e dalla base popolare, perché i governi sono sempre gli ultimi a cambiare.

SC: Quali, secondo il suo punto di vista, sono stati gli aspetti più e meno efficaci  del movimento?

BW: Bisogna scegliere bene le campagne che devono avere obiettivi raggiungibili, in modo da permetterci di applicarla a prospettive diverse. Per esempio, la campagna contro l’acqua Veolia* è stata efficace perché: a) è stata realizzata in molti posti diversi, b) era collegata a specifiche violazioni della legge internazionale, e c) ha spiegato e ha istruito le persone riguardo all’impresa degli insediamenti. Tuttavia, non occorre che la gente abbia obiettivi realistici e deve essere sicura di ottenere in modo giusto l’informazione e i fatti

SC: Molte persone sono ancora scettiche circa i meriti di un boicottaggio totale, ma sono contente di boicottare gli insediamenti illegali; pensa che sia utile?

BW: Gli insediamenti sono soltanto un aspetto del regime coloniale di Israele, C’è un grossa difetto nel focalizzarsi soltanto sulla strategia degli insediamenti: il difetto  pratico è che non c’è alcuna garanzia che si possa  risalire dall’etichetta di particolare prodotto al vero luogo di origine, e inoltre, l’economia di Israele integra  ogni cosa insieme.

La gente potrebbe chiedere: “il boicottaggio a Israele è realistico?” E’ realistico nella misura in cui vogliamo che sia. Si deve soltanto dare un’occhiata alla storia, dai diritti alle donne, alla segregazione razziale nel profondo sud degli Stati Uniti.

SC: Nel suo libro lei parla delle analogie e delle differenze tra l’apartheid in Sudafrica e quella di Israele oggi. Con la recente scomparsa di Nelson Mandela che cosa possiamo imparare dalla sua eredità?

BW: Penso che l’esempio di Nelson Mandela ci può dimostrare alcune cose. Può mostrare alle persone come i nostri governi possono descrivere  le persone che lottano per la libertà come terroristi,  quando questo va bene per i loro interessi. Fa ricordare alla gente che non ci viene necessariamente detta tutta la verità. La lotta contro l’apartheid in  Sudafrica è una storia di coraggio, di determinazione e di sacrificio da parte delle stesse persone colonizzate. E naturalmente ci ricorda il  ruolo della solidarietà internazionale nel sostenere un popolo oppresso in una lotta che alla fine è stata vittoriosa. Ci viene ricordato anche della portata temporale che implica: la lotta contro l’apartheid in  Sudafrica portata avanti sia, principalmente dai sudafricani di colore ma anche da più ampi sforzi di solidarietà interazionale, non è stata fatta in un anno.

SC: Molti sostengono che i colloqui guidati dagli Stati Uniti porteranno pace e un cambiamento tra Israele e Palestina. Pensa che i colloqui attuali possano, realisticamente portare un qualche tipo di pace, giustizia o di cambiamento concreto?

BW: Il processo internazionale di pace guidato dagli Stati Uniti non  è in grado di produrre un cambiamento positivo, a lungo termine, perché è basato su ciò che gli Stati Uniti pensano sia il miglior interesse di Israele. Il processo di pace è inteso a sostituirsi alla legge internazionale invece che attuarla, è progettato a proteggere Israele dalle sue responsabilità perché le sue violazioni “di routine” della legge internazionale e della legge umanitaria internazionale non sono considerate punibili o sanzionabili, sono ritenute essere parte di quello che le due parti devono “alla fine sistemare”.

Il processo di pace è designato anche a mantenere Israele come stato ebraico nella maggior parre della Palestina storica, e, in quanto tale, non è in grado di fornire una risposta legittima e soddisfacente al diritto dei profughi palestinesi di ritornare sulle loro terre.

I negoziati considerano inferiore il popolo palestinese perché non offrono loro gli stessi diritti. Israele è considerata degna di avere legittime necessità di sicurezza, ma i palestinesi non lo sono. Il diritto dei profughi palestinesi viene scavalcata dalla richiesta di Israele di mantenere una maggioranza ebraica.

L’unica cosa che può produrre un cambiamento reale è la pressione su Israele in un modo che renda insostenibile lo status quo. Può essere una pressione da parte dei palestinesi stessi, che si può concretizzare in forme diverse. Può anche essere pressione dall’esterno che può essere regionale o esercitata da quei paesi che, finora, hanno appoggiato Israele in campo diplomatico, economico o militare. In quanto tale, deve implicare che finisca il trattamento speciale che ha sempre ricevuto Israele.

Questo è il tipo di pressione è necessario a cambiare la situazione, perché, come faceva notare Martin Luther King nel contesto della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti, “la libertà non viene mai data  volontariamente dall’oppressore; deve essere chiesta dagli oppressi.”

SC: Grazie per aver parlato con Ceasefire


*http://bdsitalia.org/index.php/ultime-notizie-sulbds/964-vittoria-attivisti-coalizione-dump-veolia-st-luois


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/interview-on-the-peace-process

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