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28 luglio 2014

Resistenze nascoste in Palestina
di Giulia Valentini

Anche se media e libri di storia fanno di tutto per negarlo e nasconderlo, quella in Palestina resta prima di tutto una straordinaria storia di resistenza pacifica. Dalle ribellioni contro le politiche coloniali britanniche degli anni ’20, come il grande sciopero del 1936 durato sei mesi, fino alle forme attuali di resistenza quotidiana, in primis andare a scuola e non smettere di lavorare durante l’occupazione sempre più violenta. Uno dei passaggi di questa non-storia è la Giornata della Terra, quando il 30 marzo del 1976 migliaia di palestinesi cittadini d’Israele si riunirono per protestare contro la decisione del governo  di espropriare 60.000 dunam (60 chilometri quadri) di terre palestinesi nella Galilea: naturalmente la polizia israeliana reagì con violenza, causando la morte di sei palestinesi e ferendone centinaia. Non si tratta di spiegare ai palestinesi come dovrebbero resistere di fronte a uno degli eserciti più potenti del mondo, ma di riconoscere nella ribellione quotidiana di migliaia di persone comuni storie di speranza e dignità. Del resto, cosa sono le proteste di ogni giorno, le dimostrazioni di massa, i rifiuti di pagare tasse, i boicottaggi economici, gli scioperi dei lavoratori, le aperture di scuole comunitarie illegali, le azioni di distruzione di documenti d’identità emessi dalle autorità israeliane, gli scioperi della fame nelle prigioni israeliane, le proteste contro il Muro?

Nel corso della storia della resistenza palestinese, prima contro l’Impero Britannico e poi contro Israele, un considerevole settore della società palestinese è stato sempre attivo nell’ambito della resistenza pacifica, la quale negli ultimi anni ha acquisito un crescente apprezamento nella Palestina. I suoi sforzi sono purtroppo stati prevalentemente ignorati dalla stampa internazionale, la quale ha preferito concentrarsi solo su azioni militari e terroristiche, propagando un’immagine parziale dei palestinesi.

Nel 1917 il Regno Unito emise la Dichiarazione Balfour, nella quale affermava di favorire la creazione di uno stato ebraico in Palestina. I palestinesi, prima sotto l’occupazione dell’Impero Ottomano ed ora del Mandato Britannico, videro così minacciato il loro diritto all’autodeterminazione. I principali membri dell’élite palestinese, attivi attraverso i giornali dalla fine della censura sulla stampa nel 1908, intensificarono le loro attività di lobby e di diplomazia verso le autorità del Mandato Britannico. Negli anni ’20, però, l’élite perse l’iniziativa e movimenti popolari assunsero il ruolo principale tramite proteste e manifestazioni non violente contro le politiche coloniali britanniche e l’implementazione della Dichiarazione Balfour.

Le proteste popolari palestinesi raggiunsero il culmine nel grande sciopero generale del 1936, durato sei mesi e dichiarato dai leader palestinesi. Inoltre, altri metodi di resistenza nonviolenta, come manifestazioni di massa, marce, attività di lobby, boicottaggi e rifiuto generale di pagare le tasse rafforzarono lo sciopero generale, il più lungo della storia moderna.

Il governo britannico represse severamente questo movimento nonviolento con punizioni collettive come demolizioni di case, multe, incursioni in villaggi arabi ed il bombardamento di oltre 200 edifici a Giaffa il 16 giugno 1936, sperando così di diminuirne il sostegno da parte della popolazione. La rivolta venne temporaneamente sospesa in ottobre, ma riprese l’autunno seguente, questa volta come insurrezione violenta a scopi nazionalisti. Quest’insurrezione, che insieme al grande sciopero generale del 1936 viene chiamata la Grande Rivolta Araba, fu infine repressa dai britannici con l’aiuto di milizie sioniste nel 1939.

Anche se la Grande Rivolta Araba contribuì a ritardare la creazione di uno stato e una maggioranza ebrea nella Palestina, non riuscì a liberare i Palestinesi dal giogo britannico né a frenare l’immigrazione sionista, che si concretizzò poi nella creazione d’Israele nel 1948 e nell’esilio forzato di circa 750.000 palestinesi dalla loro terra. Inoltre, durante la rivolta, migliaia di palestinesi vennero uccisi, imprigionati o esiliati, lasciando la società palestinese nel caos.

Diventa più difficile rilevare atti di resistenza nonviolenta durante il periodo tra la guerra arabo-israeliana del 1948 e la prima Intifada iniziata nel 1987. Atti di resistenza, anche se nonviolenta, vennero aggressivamente repressi da Israele, così come era avvenuto durante il Mandato Britannico. Per i palestinesi il continuare la loro vita quotidiana, andare a scuola, lavorare, senza cadere nella disperazione o emigrare, rappresentò un modo nonviolento di resistere all’occupazione, concetto racchiuso nell’espressione araba sumud (persistenza, risolutezza).

Fu durante questo periodo che avvenne la grande protesta dei palestinesi cittadini d’Israele contro l’esproprio delle terre, di grande importanza per il movimento nonviolento palestinese, e conosciuta adesso come Giorno della Terra. Il 30 marzo del 1976 migliaia di palestinesi cittadini d’Israele si riunirono per protestare contro la decisione del governo israeliano di espropriare 60.000 dunam (60 chilometri quadri) di terre palestinesi nella Galilea, ultimo di una serie di atti simili. La polizia israeliana reagì con violenza, causando la morte di 6 palestinesi e ferendone 96.

Gli anni ’70 e ’80 crearono le basi per la prima Intifada, tramite lo sviluppo della società civile e gli sforzi di intellettuali attivisti. Venne creato un gran numero di ONG e di partiti politici, permettendo la costituzione di un sistema organizzativo autonomo, indipendente da quello israeliano. Tutto questo contribuì a sviluppare un senso di autonomia e nazionalismo nei palestinesi, e quindi la loro fiducia e capacità di organizzazione.

Contemporaneamente, un gruppo di intellettuali attivisti, ispirati dalle idee di Gramsci, cominciò a fare pressione in favore dell’uso della nonviolenza, ambendo a persuadere la leadership politica ed il pubblico generale palestinese della sua superiorità rispetto ai metodi violenti come strumento per la creazione di uno stato palestinese indipendente. Questo gruppo di intellettuali fece il possibile per sostenere ed aumentare lo sviluppo allora in corso della società civile palestinese. Tra questi, alcuni dei più noti furono Faisal Hussein, Mubarak Awad, e Sari Nusseibeh.

La prima Intifada, durata dal 1987 al 1993, iniziò sotto forma di piccole manifestazioni locali che crebbero fino a diventare un vero e proprio movimento nazionale di protesta contro l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, prendendo alla sprovvista persino l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Anche se le telecamere internazionali si concentrarono sul lancio di sassi (atto certamente violento ma comunque di bassa intensità), la prima Intifada fu un movimento prevalentemente pacifico, nel quale venne impiegata un’enorme varietà di tattiche nonviolente quali proteste, dimostrazioni di massa, rifiuto di pagare tasse, boicottaggi economici, sciopero dei lavoratori, apertura di scuole comunitarie illegali, e distruzione di documenti d’identità emessi dalle autorità israeliane. Israele reagì ancora una volta con aggressività, facendo ricorso alla violenza per sopprimere l’Intifada, il che radicalizzò i palestinesi. La prima Intifada risultò in 1.160 morti palestinesi e 90 morti israeliani (B’Tselem).

Durante l’Intifada la repressione israeliana indebolì le istituzioni ufficiali palestinesi, che vennero presto rimpiazzate dai comitati popolari stabiliti in precedenza che, insieme alle reti di organizzazioni locali, assunsero la responsabilità di provvedere ai bisogni basici della società, permettendo in questo modo ai palestinesi di continuare la loro protesta e non-cooperazione. La prima Intifada fu così il meglio organizzato e più coeso movimento per la creazione di uno stato palestinese.

Purtroppo, né il governo israeliano, né l’OLP e i leader palestinesi in esilio, né la comunità internazionale furono in grado di trarre vantaggio dall’opportunità offerta da questo enorme movimento nonviolento per stabilire un accordo di pace definitivo. La stessa ignoranza venne manifestata dalla stampa internazionale, che, sebbene avesse dato grande attenzione all’Intifada, non riuscì a riconoscere la natura nonviolenta del movimento che stava coinvolgendo l’intera società palestinese.

In ogni caso, la prima Intifada ebbe dei modesti successi, portando alla Conferenza di Madrid del 1991-1993 e alle negoziazioni segrete che produssero gli Accordi di Oslo. Questi accordi si concretizzarono nel ritiro d’Israele da certe parti dei territori palestinesi occupati e nella creazione di un’Autorità Palestinese con poteri limitati per governare queste aree, ma la loro implementazione ebbe un limitato successo.

Negli ultimi anni, il concetto della nonviolenza, come metodo più efficace per raggiungere la costituzione di uno stato palestinese, ha acquisito una crescente popolarità tra i palestinesi, e nuove organizzazioni nonviolente si sono unite ad una società civile sempre più organizzata. Tra queste troviamo International Solidarity Movement, Holy Land Trust, The Palestinian Center for Rapproachement between People, Middle East Nonviolence and Democracy, e tante altre. La primavera araba, ispirata dalle tattiche della prima Intifada, ha fornito a sua volta nuove energie e motivazione agli attivisti palestinesi, i quali dimostrano una crescente creatività nelle loro attività.

Tra queste troviamo il Movimento BDS di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro corporazioni ed istituzioni culturali ed accademiche israeliane che appoggiano o contribuiscono all’occupazione ed alle violazioni dei diritti umani da parte d’Israele. Questa campagna, iniziata nel 2005, fu inspirata dai metodi del movimento pacifico degli anni ’80 che aiutò a porre fine all’apartheid sudafricano.

Un’altra tattica di resistenza sono le proteste contro il Muro di separazione eretto da Israele. Molti dei villaggi sulla traiettoria del Muro, tra i quali Bil’in, Nilin, Nabi Saleh e al-Walaja, inscenano regolarmente, alcuni settimanalmente, dimostrazioni nonviolente contro di esso. Certi villaggi, come Bil’in, sono riusciti a deviare il Muro o a ritardarne la costruzione.

Ci sono anche gli scioperi della fame nelle prigioni israeliane. Il più famoso fu senz’altro lo sciopero del 2012, durante il quale quasi 2.000 prigionieri si unirono nel protestare l’uso di detenzioni amministrative, le quali permettono l’imprigionamento a tempo indefinito senza processo. Nel maggio del 2012 Israele capitolò e promise visite familiari ed il termine delle detenzioni amministrative, scaduti sei mesi, in cambio dell’impegno da parte dei detenuti di astenersi da attività criminali o terroristiche in prigione. Un nuovo sciopero della fame nelle prigioni è iniziato nell’aprile 2014.

I villaggi di protesta sono un’altro metodo molto originale di resistenza nonviolenta. In segno di protesta contro la confisca di terreni, gli insediamenti e la violenza dei coloni israeliani, oltre 200 attivisti palestinesi costruirono nel gennaio 2013 il villaggio Bab al-Shams, “Porta del Sole”, nella zona E1 della Cisgiordania, destinata alla costruzione di ulteriori insediamenti. Sebbene smontato dai soldati israeliani dopo due giorni, Bab al-Shams riuscì ad attirare l’attenzione internazionale ed ispirò la costruzione di altri villaggi di protesta nella Cisgiordania.

Infine, i palestinesi continuano ad organizzare dimostrazioni, proteste e marce nonviolente contro le varie forme in cui l’ingiustizia dell’occupazione israeliana si manifesta. A Gerusalemme Est, annessa nel 1967, vengono inscenate proteste contro sfratti e demolizioni di case in quartieri palestinesi come Sheikh Jarrah e Silwan. Nei campi profughi nei territori palestinesi ed all’estero, le marce rivendicano il diritto al ritorno alle terre perse dalla Nakba del 1948. Dal 2009 proteste annuali vengono organizzate contro le “zone cuscinetto”, tra Israele e la Striscia di Gaza, che riducono la terra agricola disponibile dei palestinesi, esacerbando la situazione già critica della sicurezza alimentare di Gaza.

Come abbiamo visto, la storia della resistenza nonviolenta della Palestina è caratterizzata da un ciclo che si ripete da più di un secolo, nel quale il popolo palestinese si unisce in proteste e altre attività nonviolente. Queste vengono aggressivamente represse, o dai britannici o dagli israeliani, radicalizzando i palestinesi che ricorrono così alla violenza, per venire poi schiacciati definitivamente. E così passano anni prima che la società civile sia ricostruita e la lotta nonviolenta sia ripresa da un’altra generazione.

La resistenza nonviolenta è il miglior mezzo per combattere l’occupazione israeliana ed assicurare che i diritti dei palestinesi vengano rispettati. Questo in quanto attacca Israele non militarmente, in un ambito in cui è superiore, ma moralmente, minando ogni giustificazione per le sue azioni e con esse il sostegno della comunità internazionale. Per far sì che questo accada, però, è necessario che anche la comunità internazionale faccia la sua parte; la continua crescita del movimento nonviolento palestinese non può essere mantenuta se percepita dai suoi membri come inutile. E’ necessario che la resistenza nonviolenta palestinese venga riconosciuta come tale ed apprezzata dal mondo, che le venga data più attenzione dalla stampa internazionale ed infine che la società civile internazionale le offra il suo sostegno e cooperazione.

* Archivio Disarmo

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