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6 agosto 2014


Eroi e predicatori

di Ramzy Baroud

Traduzione di Maria Chiara Starace

“Dov’è il Gandhi palestinese? In una prigione israeliana, naturalmente!”, era il titolo di un articolo di Jo Ehrlich pubblicato sul sito (americano e antisionista) Mondoweiss.net il 21dicembre 2009. Era quasi esattamente un anno dopo che Israele aveva concluso una grossa guerra contro Gaza. La cosiddetta Operazione Piombo Fuso (27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009) era stata fino ad allora e per molti anni, l’attacco israeliano più letale contro la Striscia oramai indigente.
Ehrlich non stava affatto minimizzando quando sollevava il problema del ‘Gandhi palestinese’, ma reagiva alla condiscendenza di altri. Proprio all’inizio, osservava: “Non è che sto in alcun modo influenzando il dialogo sul Gandhi palestinese, penso che sia realmente un’azione piuttosto diversiva e razzista. Talvolta, però, si deve ridere per non piangere.
In realtà la domanda era e rimane altezzosa, ignorante, paternalista e totalmente razzista. La domanda era però anche pervasiva includendo persone che si classificano come ‘attivisti filo-palestinesi’.
Ora che la più recente guerra di Israele – la cosiddetta Operazione Margine Protettivo – ha superato Piombo Fuso in termini di durata, numero di vittime, livello di distruzione, ma anche per l’orrore assoluto del prendere come obiettivi i civili, poiché moltissime famiglie sono state cancellate completamente, la domanda su Gandhi sembra più attenuata del solito. Per capire il motivo, è necessario esaminare prima perché ai Palestinesi è stato richiesto di presentare un’alternativa non violenta come quella di Gandhi nella loro lotta per la libertà.
La Seconda Intifada Palestinese o insurrezione(2000-2005), è stata inaugurata con una reazione israeliana estremamente violenta. I leader israeliani di quel periodo, intendevano inviare un messaggio al defunto capo palestinese Yasser Arafat informandolo che non avevano pazienza per qualsiasi atto di ribellione collettiva, dato che erano convinti che Arafat avesse progettato l’Intifada per rafforzare il suo controllo politico nei ‘colloqui di pace’, che si sono dimostrati fondamentalmente una farsa.
Presi in una situazione impossibile – una massiccia macchina da guerra israeliana alimentata dagli Stati Uniti che ha mietuto centinaia di vittime ogni mese – e non avendo alcuna fiducia nei loro capi, i Palestinesi hanno fatto ricorso alle armi, usando attentati suicidi e anche altri metodi violenti. La tattica ha sollevato molta controversia – a causa del bilancio delle vittime tra i civili israeliani – ed è stata rapidamente usata nella propaganda israeliana e occidentale, per spiegare retrospettivamente l’occupazione militare di Israele, e giustificare le sue violente tattiche militari.
Coloro che hanno osato spiegare la violenza palestinese all’interno del suo più ampio contesto appropriato, o sottolineare che molti altri civili palestinesi venivano ancora uccisi dall’esercito israeliano, venivano evitati dai media, e, a volte, erano considerati un ostacolo da coloro che insistevano a classificare i Palestinesi all’interno di un racconto di persecuzioni.
Molti occidentali (dai presidenti, ai filosofi, ai giornalisti, a coloro che fanno attivismo sui media sociali) hanno ponderato l’argomento con entusiasmo. Il fatto che pochi paesi occidentali abbiano realmente sperimentato una lotta nazionale di liberazione anti-coloniale nella loro storia moderna, e che quindi manchino della reale comprensione dell’umiliazione e della rabbia sperimentata da nazioni colonizzate, sembrava importare poco. Alcuni erano semplicemente preoccupati per Israele e pe nessun altro; altri volevano conservare l’immagine del Palestinese come una vittima eterna, occupata e sventurata.
La dimostrazione più oscena di questo modo di esprimersi, è stata fatta da Barack Obama, allora di recente eletto presidente degli Stati Uniti, che stando sul palco dell’università del Cairo il 4 giugno 2009, per trasmettere ai Palestinesi un messaggio molto denigratorio, insensibile ed estremamente approssimativo:
“I Palestinesi devono abbandonare la violenza. La resistenza fatta tramite la violenza e l’uccisione è sbagliata e non ha successo. Per secoli, i neri in America hanno sofferto le frustate come schiavi e l’umiliazione della segregazione razziale. Non è stata però la violenza a ottenere i pieni e uguali diritti. Questa stessa storia può essere raccontata dalla gente, dal Sudafrica all’Asia Meridionale, dall’Europa dell’est all’Indonesia. E’ una storia con una semplice verità: la violenza è una strada senza uscita.”
Il messaggio di Obama ha rappresentato la lotta palestinese come un’anormalità in lotte di liberazione nazionale peraltro perfettamente pacifiche in tutto il mondo. Il messaggio, naturalmente, è menzognero. Inoltre Obama non conosceva o voleva ignorare la storia palestinese dove la resistenza popolare non violenta che risale agli anni ’20 e ’30 e, presumibilmente, ancora prima. Obama, come molti altri, ha mancato di riconoscere il livello della estrema violenza israeliana, che adopera armi che Obama stesso aveva fornito a Tel Aviv per smorzare la resistenza palestinese e mantenere un’occupazione militare relativamente facile e i prosperi insediamenti israeliani costruiti illegalmente sulla terra palestinese rubata.
Ma il punto decisivo nella discussione è stata la Seconda Intifada che ha provocato molta violenza israeliana causando la morte di migliaia di persone. Anche le implicazioni politiche dell’insurrezione sono state molto significative dato che l’Intifada ha diviso i Palestinesi tra quelli che erano intimiditi dalle tattiche israeliane fino alla sottomissione (i cosiddetti moderati) e altri che sembravano irriducibili (i cosiddetti radicali).
Per quasi dieci anni, il dibattito ha infuriato. Alcuni hanno condannato completamente la resistenza armata palestinese, altri hanno offerto critiche reciproche della violenza di Israele e di Hamas, mentre un altro gruppo predicava la futilità della lotta armata di fronte a un paese con armi nucleari in grado di far saltare in aria gran parte del globo spingendo un bottone.
Quel dibattito, sebbene fatto per una ricercata discussione sui giornali on line e sui media sociali, a mala pena è stato colto tra i comuni Palestinesi, specialmente tra quelli che vivono a Gaza. Mentre gli intellettuali di Gaza hanno cercato nuove idee per costruire la solidarietà internazionale per porre fine all’assedio di Israele, far arrivare il loro messaggio al mondo, e anche contestare la tempistica del lancio di razzi a Israele, pochi hanno sondato il principio della resistenza armata.
Naturalmente i Palestinesi lo conoscevano meglio di tutti, molto meglio di Obama e di altri predicatori in altri posti. Essi sanno che la resistenza collettiva non è sempre una tattica determinata per mezzo delle discussioni su media sociali; che quando i propri figli vengono annientati dalla tecnologia di uccisione fornita dagli Stati Uniti, non c’è più tempo di stendersi per terra e di cantare ‘noi domineremo’, ma bisogna impedire che i rimanenti carri armati entrino in un quartiere, sia esso Shujaiya, Jabalaya o Maghazi. Sanno anche che la violenza israeliana è la conseguenza di un piano politico già deciso, e non è fatta sulla misura della natura della resistenza palestinese. Ma, ciò che più conta, la storia ha insegnato loro che quando gli israeliani arrivano a Gaza come invasori, pochi si metteranno a difesa di Gaza davanti alla macchina di morte finanziata dall’Occidente, tranne i figli e le figlie di Gaza. Se gli abitanti di Gaza non difenderanno le loro città, non lo farà nessun altro.
Sebbene la disparità della lotta tra Israele e la resistenza palestinese venga oggi evidenziata più di quanto lo sia mai stata prima, la resistenza palestinese è maturata. Andrebbe notato il fatto che abbiano ucciso molti soldati e soltanto tre civili, come a
anche il fatto vergognoso di mirare a ospedali, scuole, rifugi dell’ONU e perfino cimiteri, come fa Israele. Mantenere quel livello di disciplina nella lotta più impari che si possa immaginare, è molto vicino proprio all’etica del campo di battaglia che gli Stati Uniti e Israele spesso infrangono, ma che mai e poi mai rispettano.
Per quanto sia stato grande Gandhi nel contesto della lotta del suo paese contro il colonialismo, che rimane una fonte di ispirazione per molti Palestinesi, la Palestina ha i suoi eroi, resistenti, donne e uomini che stanno incidendo una loro propria leggenda a Gaza e nel resto della Palestina.
In quanto a coloro che hanno alacremente fatto la domanda: dove è il Gandhi palestinese?, è molto più efficace che usino le loro energie per bloccare le spedizioni di armi a Israele che fanno i loro governi, armi che fino al 6 agosto hanno ucciso quasi 1.900 persone e che ne hanno ferite oltre 9.500, la maggior parte dei quali sono civili.
La foto mostra un momento della Seconda Intifada.



Ramzy Baroud ha un dottorato in Storia del popolo all’Università di Exeter E’ caporedattore del sito web Middle East Eye. E’ un opinionista che scrive sulla stampa internazionale, consulente nel campo dei mezzi di informazione, scrittore e fondatore del sitoPalestineChronicle.com. Il suo libro più recente è: My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story(Pluto Press, Londa). [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia di Gaza che non è stata raccontata].



Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org


Fonte: http://zcomm.org/znet/article-on-heroes-and-preachers


Originale: non indicato


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