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07.01.14

L'imperialismo non perde un colpo, la solidarietà tra i popoli?
Collettivo PalestinaRossa

Analisi ed approfondimenti sulla
"nuova" aggressione sionista a danno dei palestinesi e del mondo

Da giorni siamo di fronte all'ennesimo scempio sionista, un'aggressione della popolazione civile palestinese da parte di un esercito di soldati equipaggiati con mezzi corazzati, carri armati, elicotteri apache, droni e quant'altro. Un abuso della forza che ha solo uno scopo: umiliare e punire collettivamente un intero popolo, ma non solo.

Israele nasce e si fonda ponendo il resto del mondo, ricattato ed egemonizzato dal potere delle lobby ebraiche che sostengono il sionismo, dinnanzi a “fatti compiuti”. La storia di questo "stato" (senza né confini dichiarati, nel rispetto dei paesi adiacenti, né costituzione che tuteli il diritto di uguaglianza tra i suoi cittadini) è disseminata di casi in cui prima si condanna e poi, al limite, si giudica; questo non solo in una logica del tipo "il fine giustifica i mezzi", ma anche per imporre al mondo la sua autonomia d'azione (determinata non tanto dall'audacia dei suoi leader quanto dai flussi di dollari USA e dall'appoggio incondizionato degli stati occidentali ed imperialisti) per creare un fattore deterrente nella regione basato sulla sua forza militare dal carattere spietato. A nostro avviso però, prima ancora della complicità di governi e media, è assordante il silenzio dei popoli che non riescono più ad esprimere il disappunto per le politiche di guerra e di repressione che, seppur con dinamiche ed incisività diversificate, trasversalmente colpiscono tutte le classi subalterne delle varie nazioni. Le ragioni potrebbero essere facilmente valutate e, pur non essendo scopo di quest'articolo analizzarle e senza rischiare di banalizzare troppo, possiamo quantomeno affermare che le politiche dei governi si riflettono inevitabilmente sulla società. I palestinesi non sono esenti da tali meccanismi: pur riscoprendo una popolazione che dimostra di poter continuare a resistere anche dopo oltre sessant'anni di martirio - a differenza di altre esperienze storiche durate al più pochi decenni – in essa si iniziano ad intravedere le logiche sociali derivanti da politiche neoliberiste implementate ed imposte dalla dirigenza. Da diverse generazioni i palestinesi mostrano al mondo un grado di resilienza collettiva mai riscontrata prima, che rischia tuttavia di essere intaccata non da “stanchezza” o altro, bensì da logiche economiche che, inevitabilmente, metteranno sempre più i palestinesi gli uni contro gli altri (la competitività dei mercati altro non è che conflitto sociale) fino a perdere il loro interesse comune se non altro di fronte alla più feroce forma di aggressione coloniale ed imperialista che punta ad annullare ogni loro diritto sia collettivo sia individuale. Tuttavia nel “mondo della solidarietà” i palestinesi rappresentano un caso a parte: non devono essere criticati perché subiscono un'occupazione come popolo, quindi anziché decidere di schierarsi apertamente con la resistenza palestinese, che anzi è l'espressione antagonista alle logiche della corruzione e della "svendita dei diritti", meglio una dirigenza che cerca di portare allo sfacelo la lotta di resistenza (che però non stenta a cedere, basti pensare all'ennesimo sciopero della fame dei prigionieri politici palestinesi contro l'uso e l'abuso della detenzione amministrativa da parte dell'esercito di occupazione). Questo è l'atteggiamento dell'Autorità Nazionale Palestinese senza alcuna autorità né rappresentanza. A prescindere dalle cause della scomparsa del tre coloni ebrei, l'ANP non solo ha lasciato completamente campo libero all'esercito più immorale e vigliacco che esista ma ha anche promesso la massima collaborazione per il ritrovamento dei coloni e dei colpevoli, probabilmente senza iniziare dalle proprie fila, quelle sioniste. Quanto ancora dovrà passare (e cosa altro dovrà succedere) prima che si converga sul fatto che in Palestina non servono governi reazionari piegati all'imperialismo, come altri nella regione araba, ma piuttosto una leadership che difenda i diritti del popolo che rappresenta e che ne sostenga la lotta nel segno dell'unità nazionale basata sulla resistenza contro l'occupazione? Quanto ancora si dovrà aspettare prima di convincersi che non saranno l'Europa, gli USA o altri padrini locali a fare pressioni su Israele affinché rispetti il diritto internazionale ed i diritti di autodeterminazione dei palestinesi? I vari Obama, Bush, Clinton e chi per essi “vanno e vengono”; chi resta sono invece le varie AIPAC, AJLI ed altre lobbies influenti (se non determinanti) sulla politica americana ed internazionale che non cambieranno mai le loro regole economiche, diktat con i quali tengono sotto scacco governi e stati.

Israele non vuole trovare un accordo con i palestinesi (semmai ha bisogno e si serve di una classe di palestinesi che gli agevoli il compito); il suo progetto prevede la cancellazione etnica degli abitanti che hanno abitato quella terra prima dell'avvento del sionismo. Israele chiede ai palestinesi di essere riconosciuto come stato ebraico: in pratica vorrebbe che i palestinesi stessi (che lui non riconosce come popolo e quindi come interlocutori, ma che devono “essere rappresentati” da Egitto, Stati Uniti, etc) liquidassero i propri legittimi diritti. Israele non vuole la pace nella regione, è l'elemento cardine di una continua guerra e destabilizzazione, con tutto quello che questo comporta sulla popolazione civile. Se la solidarietà (almeno nel mondo della sinistra) perdesse il carattere internazionalista ed una lettura di classe del conflitto (fenomeno molto diffuso, ahimè, nella sfera dell'antimperialismo) ovunque e comunque si presenti, avrebbe perso in partenza la sua efficacia ed i suoi obiettivi. Ecco perché basta ascoltare la voce dei prigionieri, la voce dei profughi, la voce degli ultimi – anche di un popolo occupato – e la voce di quanti ancora lottano per capire da che parte stare e l'importanza della chiarezza con cui schierarsi. Altrimenti ascolterem(m)o la voce dell'imperialismo. Quest'ennesima aggressione sionista contro i palestinesi (e contro un senso di giustizia globale) cui stiamo assistendo necessita di una forte risposta popolare che sia in grado di mettere in discussione, a partire dalla realtà in cui si esprime, i modelli di produzione e di sfruttamento, i rapporti di forza tra capitale e lavoro, le politiche liberiste e capitaliste intente ad egemonizzare il globo, ma non passando attraverso le nazioni, bensì attraverso le loro classi. Facciamo nostre le parole di un compagno (Nidal Abu Aker) arrestato pochi giorni fa durante questo raid sionista in atto su tutta la Cisgiordania: “Ogni colpo inferto al capitalismo italiano, europeo o americano è un colpo al nemico sionista...e viceversa”. Questo a testimonianza del fatto che quest'operazione non serviva a ritrovare i tre colini scomparsi (pensavano mica di ritrovarli vivi con un'operazione del genere, invadendo le strade, le città ed i campi profughi della Cisgiordania con migliaia di soldati e blindati, o bombardando case e civili a Gaza?) e neanche per “sconfiggere” Hamas, la vera natura e ragione è sempre la solita: colpire la resistenza, fare piazza pulita dei suoi leader. Un intervento necessario ormai anche per quella che continua a dichiararsi un'Autorità sui Territori palestinesi: sgomberare il campo da personaggi scomodi e dissidenti che ultimamente avevano fatto “troppi” passi avanti. Infine, oltre ad analizzare e comprendere le dinamiche in atto per capire gli obiettivi dell'operazione, è necessario ricordare al mondo e a quanti (anche nella sfera della solidarietà con la Palestina) delegittimano quella che invece potrebbe essere una strategia per avere maggiori rapporti di forza all'interno di una lotta anticoloniale, ossia fare prigionieri, che non erano (almeno non solo) “ragazzi” ma “coloni”. Nella società gli uomini hanno dei ruoli: chi sceglie di essere soldato, chi di rappresentare la chiesa e cristo, chi di colonizzare, etc. E chi si trova costretto a resistere per non perdere la propria dignità. Ora, ogni ruolo ha delle conseguenze, prevede dei rischi: chi colonizza rischia di morire per mano dei colonizzati, chi aggredisce rischia di morire per mano degli aggrediti. Difendere la vita non vuol dire rispettare la morte di un ruolo allo stesso modo, ma combattere contro coloro che (nel loro ruolo) determinano una società in conflitto; altrimenti non si farebbe altro che avallare le strategie di uomini e governi spietati, pronti ad architettare terrore per scatenare terrore. Questo perché, prima del neocolonialismo, i popoli hanno subito la neo-cultura colonialista, quel moralismo che parla di violenza e non violenza, che esclude i violenti dai non violenti. Se di fronte ad un sequestro legittimo ci si indigna e lo si taccia di atto terroristico, il potere avrà terreno fertile su cui costruire le basi per aggressioni ed oppressioni sostenute dall'opinione pubblica, “culturalmente”. Noi continuiamo a vedere palestinesi rapiti, quando non ammazzati, quotidianamente, mentre oggi tutto il resto del mondo ha saputo di tre colini ebrei ritrovati morti per chissà quale causa (alla peggio, erano coloni!) Invitiamo a partecipare a tutti i presidi e le manifestazioni che, in questi giorni ed in futuro, condanneranno i crimini israeliani, augurandoci che ogni iniziativa messa in campo possa avere la capacità di far intraprendere un percorso verso una lettura della situazione che chiarisca la strada da percorrere per sostenere davvero i diritti del popolo palestinese, mettendo da parte interessi ed ideologie (tipicamente occidentali) che invece minano il nostro percorso e quello dei palestinesi.

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