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19 Gen 2014

Le Olimpiadi di Sochi e la “Syria connection” degli attentati in Russia
di Andrea Glioti

L'ombra delle monarchie del Golfo, finanziatrici di al Qaeda in Siria, dietro la nuova ondata di attentati nel sud della Russia

Il 17 gennaio un nuovo attentato ha causato il ferimento di 14 persone a Makhachkala, in Russia, nella repubblica meridionale del Dagestan, una delle roccaforti degli insorti islamici caucasici insieme all’Inguscezia e alla Cecenia. L’attacco fa seguito alla doppia esplosione di Volgograd (29-30 dicembre), che ha causato la morte di 33 persone e 85 feriti. Il tutto a ridosso dei giochi olimpici invernali in programma a Sochi dal 7 febbraio.

La maggioranza degli analisti riconducono gli attentati alla posizione della Russia sul conflitto in corso in Siria: in particolare, i sospetti puntano in direzione di un coinvolgimento saudita, sulla base degli incontri avvenuti tra agosto e dicembre tra Vladimir Putin e il capo dell’intelligence saudita Bandar Bin Sultan. Secondo quanto è stato rivelato al quotidiano libanese As-Safir il 21 agosto scorso, i tentativi del principe Bandar di porre fine al sostegno russo del regime di Bashar al Assad sarebbero infatti falliti, nonostante le offerte economiche, militari e politiche comprendessero la neutralizzazione di una rete di ribelli ceceni finanziata dalla petromonarchia.

Gli attentati di Volgograd sembrerebbero pertanto il colpo di coda di un’Arabia Saudita isolata, tradita dall’alleato storico statunitense, venuto meno alle sue promesse d’intervento militare in Siria a seguito dell’uso di armamenti chimici in agosto e riconciliatosi con l’arcinemico di Riyad, l’Iran, tramite l’accordo sul nucleare siglato a novembre.

Tuttavia, gli attentati di Volgograd e del Dagestan giocano paradossalmente a vantaggio di Mosca e Damasco. Sebbene alla Russia non fosse dispiaciuto “delocalizzare” il conflitto caucasico in Siria, divenuta catalizzatore di centinaia di mujahidin russi unitisi alle file dei ribelli, il Cremlino aveva di certo tenuto in conto il ritorno in patria dei combattenti.

In un editoriale del caporedattore del quotidiano panarabo Al-Quds al-Arabi, Abdul-Bari al ‘Atwan, pubblicato il 2 gennaio sul sito Ra’i al-Yawm (L’Opinione del Giorno), si sottolinea come l’opposizione siriana esca indebolita dagli attentati di Volgograd: la priorità degli imminenti negoziati di Ginevra II (22 gennaio) è infatti diventata la guerra al “terrorismo” piuttosto che la deposizione di Bashar al Assad, in un contesto regionale dominato dagli attentati di matrice qaedista in Libano, dalla persistente influenza dei qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis l’acronimo inglese) nel nord della Siria e dalla loro recente conquista della città di Fallujah, nell’Iraq occidentale.

Ciò significa che la visione di Mosca e Damasco sulla rivoluzione siriana, ridotta a destabilizzazione della sicurezza regionale finanziata da varie potenze internazionali, potrebbe avere la meglio al tavolo dei negoziati. Come suggerito da ‘Atwan, lasciando supporre un coinvolgimento di forze alleate al regime siriano, «chi ha pianificato la realizzazione degli attentati potrebbe aver tenuto questo [danno inflitto all'opposizione siriana] in considerazione».

Al di là dell’identità dei perpetratori, nota esclusivamente alle sfere dell’intelligence internazionale, gli attacchi verificatisi in Russia ricordano la stretta connessione tra il separatismo caucasico e la posizione del Cremlino sulla Siria. Come già osservato dalla studiosa Fiona Hill della Brookings Institution, in un articolo pubblicato da Foreign Affairs a marzo del 2013, Putin guidò la repressione della seconda insurrezione cecena (1999-2009) spinto dalla convinzione di lottare contro la balcanizzazione della Russia. Ai suoi occhi, la Siria non è poi così diversa: necessita il sostegno di Mosca per preservare l’integrità territoriale e reprimere una rivolta guidata da “terroristi” islamici.

Il 29 febbraio 2012, a Istanbul, Europa aveva appreso da ‘Ammar al Qurabi, uno dei volti televisivi più noti dell’opposizione siriana, come la Georgia – e quindi il Caucaso in generale – fossero cruciali ai fini di un cambiamento della posizione russa sulla Siria già dal 2011: nel corso di un incontro con Qurabi del novembre 2011, la delegazione della Duma aveva infatti posto tra le condizioni la fine delle interferenze statunitensi in Georgia.

Tra Cecenia e Siria, non sfuggono poi le somiglianze nella radicalizzazione religiosa dei ribelli. L’ortodossia wahhabita – corrente ultraconservatrice dell’islam nata in Arabia saudita – non era affatto diffusa nella repubblica caucasica finché le monarchie del Golfo non hanno iniziato a sostenere la causa dei mujahidin: la Siria e la Cecenia erano al contrario terreni fertili di numerose correnti moderate di sufismo.

Attualmente, stando a quanto riportato da uno dei massimi esperti di Siria, il professor Joshua Landis, il principale comandante ceceno attivo in Siria, l’emiro dell’Isis Abu ‘Omar al Shishani, viene finanziato dal predicatore salafita kuwaitiano Hajaj bin Fahad al ‘Ajmi. Il regime siriano sembra poi aver trovato una fonte d’ispirazione anche nelle tecniche repressive adoperate da Mosca: alle famiglie cecene veniva infatti impedito di seppellire i familiari uccisi dall’esercito russo, pena la morte incombente dai cecchini appollaiati sui tetti.

Il 16 giugno 2012, il regista siriano Haytham al Haqqi ha scritto in un articolo pubblicato dal quotidiano panarabo Al-Hayat che basterebbe sostituire il termine “siriano” con “ceceno” nelle dichiarazioni sulla Siria del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov per accorgersi di come si tratti dello stesso vecchio discorso: «L’esercito è legittimato a intervenire per salvare i civili dai terroristi».

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