Piccole Note
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9 aprile 2014

Erdogan freme per attaccare la Siria
di Renato Piccolo

Pare che a Erdogan manchi solo un pretesto. Che il premier turco sia pronto a tutto pur di rovesciare il governo siriano di Bashar al Assad non è una novità. Negli ultimi tempi, però, sembra che i preparativi per un intervento militare della Turchia in Siria abbiano fatto un salto di qualità.

Il 30 marzo scorso, la sera stessa della sua impressionante vittoria nelle elezioni amministrative (col 44% dei consensi), Recep Tayyip Erdogan ha annunciato alla folla festante sotto la sede del suo partito che «oggi la Siria è in guerra contro di noi». Da Damasco, inutile dirlo, non è arrivata nessuna dichiarazione ufficiale di guerra. Al contrario, il governo di Assad non ha reagito all’abbattimento di un suo Mig da parte dell’aviazione turca. Era il 23 marzo, e secondo Ankara il caccia siriano aveva sconfinato di un chilometro all’interno dello spazio aereo turco. Una circostanza che Damasco nega categoricamente, forte anche del fatto che il jet è precipitato sul suolo siriano. Se c’è stato sconfinamento, ammettono anche gli osservatori turchi, non dev’essere durato più di qualche decina di secondi. Piuttosto è chiaro che Erdogan vuole tenere alta la tensione ai confini meridionali, fino a «mettere in piedi una crisi».

Un ruolo turco nell’attacco chimico di Damasco?

Questa strategia si sarebbe ormai consolidata da diversi mesi. Lo sostiene Seymour Hersh – tra le più autorevoli firme del giornalismo investigativo americano, dai tempi del Vietnam a oggi – in una lunga inchiesta apparsa il 4 aprile sulla London Review of Books. Grazie alle confidenze di un ex agente dei servizi di intelligence americani, Hersh è andato a scavare nella vicenda dell’attacco chimico dell’agosto 2013 a Ghouta, periferia di Damasco.

Secondo il giornalista, già nei giorni immediatamente successivi all’attentato l’intelligence britannica sarebbe entrata in possesso di un campione dell’agente nervino utilizzato a Ghouta: «Il campione non combaciava con le scorte note nell’arsenale chimico siriano». A partire da quella e da altre prove, spiega l’ex spia a Hersh, «ora sappiamo che l’attacco è stato un’operazione sotto copertura organizzata da quelli di Erdogan per spingere Obama oltre la sua “linea rossa”», cioè per spingerlo ad attaccare la Siria. «I vertici del nostro esercito sono stati informati dalla Dia (il servizio segreto militare) e da altre agenzie che il sarin è arrivato dallaTurchia, e che può esserci arrivato solo grazie al sostegno della Turchia».

Perché allora il governo americano non ha reso pubbliche queste informazioni? – chiede Hersh. «Da quando l’attacco alla Siria è stato annullato – risponde la fonte – la Casa Bianca non ha prodotto nessun documento sul coinvolgimento siriano nell’attacco col sarin. Ma visto che abbiamo dato la colpa ad Assad, ora non possiamo rimangiarci la parola e accusare Erdogan».

A caccia del casus belli

Sulla vicenda dell’attacco chimico a Damasco è stato scritto molto, a favore e contro la tesi della colpevolezza di Assad. Ma anche al di là dell’inchiesta di Hersh, ci sono prove in abbondanza sul fatto che il governo turco stia provando a legittimare un attacco alla Siria.

È una strategia che si è resa manifesta da almeno un anno. L’11 maggio 2013 due autobombe fecero 52 morti a Reyhanli, cittadina turca nella provincia dell’Hatay, al confine con la Siria. Erdogan annunciò di avere le prove che il mandante della strage era il governo siriano. Il 27 marzo scorso, però, l’ambasciatore turco all’Osce Tacan Ildem ha ammesso che dietro quell’attentato c’erano dei terroristi di al Qaeda, non il governo di Damasco.

Nel maggio del 2013 la Turchia non aveva ancora riconosciuto pubblicamente il pericolo per la stabilità regionale rappresentato da alcune delle forze anti-Assad. La situazione oggi è cambiata e anzi ad Ankara c’è chi pensa di giustificare un intervento militare proprio col pretesto del contenimento degli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (organizzazione nota con l’acronimo inglese Isis).

Lo stesso giorno in cui l’ambasciatore Ildem rievocava l’attentato di Reyhanli, su YouTube appariva la registrazione di una telefonata tra il premier Erdogan, Hakan Fidan, il potentissimo capo dei servizi segreti turchi (Mit), e Feridun Sinirlioglu, un sottosegretario al ministero degli esteri. L’autenticità del nastro non è stata messa in discussione dal governo, che al contrario, per evitarne la diffusione, ha bloccato per diverse ore l’accesso al sito.

Nel corso della telefonata Sinirlioglu spiega che «un’operazione contro l’Isis ha la legittimità internazionale. Diremo che è al Qaeda. Nessuno contesta lo schema su al Qaeda. E quando si tratta della tomba dello scià Solimano è una questione di difesa del territorio nazionale». La tomba cui fa riferimento il politico è un sacrario posto in territorio siriano, a una trentina di chilometri dalla frontiera, ma appartenente alla Turchia e difeso da una piccola pattuglia di soldati di Ankara: si tratta infatti della tomba di un avo del fondatore dell’impero ottomano.

Già alcune settimane fa il leader dell’opposizione turca, Kemal Kilicdaroglu, aveva accusato il governo di voler usare la tomba di Solimano come casus belli. La conferma arriva dalla voce di Hakan Fidan: «Se proprio ci deve essere una giustificazione (all’attacco) – dice il capo del Mit nella telefonata con Erdogan – mando quattro uomini dall’altro lato (del confine). Gli faccio sparare otto missili in un campo deserto. Non è un problema. La giustificazione può essere costruita».

Le resistenze

A guastare i piani di Fidan è arrivata la fuga di notizie a mezzo YouTube. E l’attacco è stato rinviato ancora, come era accaduto nel settembre del 2013, quando l’accordo tra l’amministrazione Usa e Vladimir Putin (e le preghiere della Chiesa) avevano fermato l’intervento occidentale contro Assad. In molti, in Turchia, hanno attribuito la diffusione della telefonata ai seguaci di Fetullah Gülen, il filosofo e finanziere già alleato di Erdogan, oggi suo principale oppositore. E il presidente della repubblica Abdullah Gül, considerato un alleato di Gülen, non ha nascosto le sue remore sul modo il cui il premier sta gestendo la vicenda siriana.

Ad agosto Erdogan punta a sostituire Gül alla presidenza della repubblica. Gül (che alcuni mesi fa aveva pubblicamente parlato della necessità di una pacificazione dell’area) potrebbe prendere il posto del primo ministro, ma solo dopo essersi fatto eleggere in parlamento (e potrebbero volerci alcuni mesi). Sarà una fase di transizione complicata, che Erdogan potrà gestire insieme a Gül o contro di lui. Anche da questo potrebbero dipendere le sorti della guerra in Siria.

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