Originale: teleSUR English

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2 settembre  2015

 

Perché perdiamo?

di Michael Albert

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

Colonialismo  finanziarizzato   in Grecia. Imperialismo sofisticato in America Latina.  Sorveglianza di tipo  fascista negli Stati Uniti. Acque che si innalzano dappertutto. Perché il tanto discusso arco della storia non ha raggiunto una destinazione auspicabile?

I difensori del sistema hanno armi, denaro, avvocati, media e università, e usano spietatamente i loro immensi beni per dividere e distruggere incessantemente le persone che cercano un vero cambiamento. Cosa ancora peggiore, le pressioni della vita quotidiana, come prima cosa, precludono quasi il dissenso. Di solito la gente non ha tempo e si sente troppo isolata per ribellarsi.

 

Perché, tuttavia, non siamo capaci di  organizzarlo  per ottenere, comunque, un mondo migliore?Otteniamo un sacco di risultati, alcuni molto importanti, ma un decennio dopo l’altro non sembrano accumularsi per formare movimenti sempre più grandi, attivismo, impegno e poi un mondo cambiato. Perché?

Pensare a “perché perdiamo” è troppo deprimente, troppo astratto, troppo accademico, troppo auto-flagellante, troppo difficile, troppo irrilevante, troppo disgustoso, troppo tutto, sia chiederlo che rispondere, vuol dire ignorare il focus più importante che dobbiamo affrontare per vincere, e i nostri difetti.

Non viene richiesto alcun dottorato di ricerca: non si guadagneranno applausi per la genialità retorica che persegue questo. Rivestire la domanda o le risposte  con un linguaggio eccentrico sarà controproducente. Rispondere alla domanda in maniera semplice, chiara, costruttiva può contribuire a vincere.

 

Qui sotto ci sono 20 domande interconnesse che possono aiutare a spiegare il fatto che non abbiamo ancora ottenuto un nuovo mondo. Queste sorgono in gran parte da esperienze nei paesi dli lingua inglese e in Europa. Pensate che le venti risposte siano valide nel vostro paese e anche in base alla vostra esperienza personale? Certamente non tutte lo saranno, ma forse alcune sì.

 

                       I progetti e i movimenti di sinistra sono tutti troppo spesso impigliati in cicli di preoccupazione finanziaria, di infinite raccolte di fondi, di pianificazione di stanziamenti limitati, e di spilorceria generalizzata, e tuttavia non vediamo i modi di finanziare collettivamente l’intera sinistra. Ogni progetto di sinistra preso separatamente ce la fa da solo. Molti danno grande potere ai no-profit e ai grossi donatori. Molti si allontanano anche dalla pianificazione strategica. Pochi, quasi nessuno, cercano di affrontare il problema nel suo complesso.

                       Collettivamente, troppi progetti e movimenti della sinistra fanno troppo poco per affrontare l’impatto paralizzante della paura riguardo a un’iniziativa. In effetti, sembra che la nostra retorica e i nostri scritti spesso fanno di più per alimentare la paura che per superarla. Cerchiamo di spaventare le persone per farle agire? Non vediamo che questo produce invece depressione e apatia?

                      Un altro problema che sorge è che in molti luoghi e periodi troppo spesso siamo più rapidi a denunciare che a sostenere. Castighiamo invece che allearci. Non mostriamo alcuna compassione per gli assassini di massa, sensatamente, ma poi talvolta ci abituiamo talmente a quel livello di ostilità che questo si diffonde fino a non mostrare compassione per la gente comune, o anche ai nostri alleati attivisti.

                       Al contrario, se qualcuno critica le nostre azioni, anche in questo caso, troppo spesso ci sentiamo attaccati e rifiutiamo le critiche in maniera riflessiva. Non consideriamo le critiche come opportunità per un’attenta chiarificazione o per un miglioramento costruttivo. Desideriamo ardentemente parlare male degli altri più di quanto desideriamo operare con gli altri?

                       Molte persone di sinistra ideologicamente impegnate troppo spesso screditano persone che cercano qualcosa di meno della trasformazione del sistema. Troppo pochi operano per superare una sistemazione immediata oppressiva, mentre allo stesso tempo danno la priorità a fornire informazioni stimolanti che potrebbero “arruolare” le persone in tentativi sempre più profondi e di portata maggiore.

                       Analogamente, molti di noi parlano e scrivono in lingue radicali. Sputiamo fuori quello che le persone conoscono già con modi che le annoiano e le irritano, spingendoli fuori dalle nostre finestre in modo più rapido di quanto siano entrati attraverso le porte. Non sempre, non tutti, naturalmente, ma è abbastanza dominante da rappesentare la nostra immagine pubblica.

                       Considerati collettivamente, siamo troppo frammentati in troppi tentativi legittimi in ognuno dei quali ci sono troppe poche persone coinvolte. Tutti ci lamentiamo di questo, ma raramente cerchiamo di sviluppare connessioni organizzative e di strutture omnicomprensive per permettere e ampliare l’aiuto reciproco, anche mentre naturalmente ci occupiamo di tutti gli interessi diversi.

                       Troppo spesso, specialmente al Nord, esprimiamo rabbia, e mostriamo la nostra energia, la creatività personale, o l’impegno, a detrimento dell’aprire un dialogo con le persone e di organizzarle e specialmente di creare rapporti e organizzazioni durature. Ho sentito definire questo come “l’uso dell’espressione al di sopra di quello della strategia.” Come per tutti questi problemi, ci sono molte eccezioni, ma il punto è che il troppo che non è così buono surclassa il troppo poco che è molto buono.

                       Quando cerchiamo davvero risultati possibili da raggiungere, come pronunciare richieste e cercare di ottenerle, spesso non riusciamo a farlo in modi attentamente concepiti per assicurarci che coloro he combattono continueranno a combattere per raggiungere altri risultati dopo averli ottenuti. Non diamo la priorità allo sviluppo di condizioni migliori e alla consapevolezza di alimentare il seguito della lotta. Il risultato è che, anche quando vinciamo, la maggior parte delle persone coinvolte se ne andranno.

                       Talvolta creiamo movimenti ai quali si deve essere pronti a rinunciare vivendo una vita per aderirvi, movimenti che hanno tempo o spazio insufficiente per persone che hanno responsabilità e impegni che non possono o non vogliono ridurre. In questi casi  riusciamo a essere quasi incuranti delle necessità dei genitori, di persone con più lavori, di giovani e vecchi, di persone con pochi mezzi materiali e di persone con problemi di salute e, sì, anche emotivi, cioè praticamente di quasi tutti nelle nostre società oppressive che distruggono l’anima. Molti movimenti e progetti si cimentano con questo fatto e alcuni lo fanno molto bene, ma  in modo ovvio  e osservato tramite tutti  i tentativi progressisti,  questa non è forse una tendenza importante?

                       Anche noi spesso creiamo movimenti e processi politici e spazi che non rendono i loro membri, più contenti, più fiduciosi, più ottimisti e più soddisfatti e responsabilizzati. Le nostre scelte troppo spesso non migliorano la vita delle persone oggi e non forniscono loro una reale speranza per il domani.  I battibecchi e il voler   controbattere e specialmente la noia troppo spesso limitano l’impegno o lo consumano, specialmente considerati tutti i tempi stretti  che la gente deve tollerare dall’esterno. Per forza non siamo abbastanza grandi da vincere. Per forza il sostegno oscilla ma non continua soltanto a salire.

                       Particolarmente al Nord, troppo spesso denigriamo un gran numero di scelte considerandole compromesse perché non sono all’altezza dei nostri standard. Se gli operai vanno da McDonalds, molti che evitano McDonalds (questi spesso hanno una sicurezza finanziaria) pensano che coloro che pranzano lì sono ignoranti o anche che hanno tradito la loro causa. Quando, però, noi attivisti onoriamo Facebook che mette dei link per tutte le nostre iniziative, reclamizzando così la più vasta agenzia spionistica del mondo, la consideriamo astuta e anche geniale. Se gli operai leggono la pagina sportiva del tabloid locale per piacere e per avere informazioni precise, molti che evitano gli sport pensano che i tifosi vengono raggirati. Ma se noi attivisti quotidianamente esaminiamo con attenzione il giornale principale della nostra città, che mente in abbondanza su ogni cosa sostanziale, ci consideriamo bene informati. Se gli operai guardano la TV (naturalmente diversa da quello che guardiamo noi), o vanno in chiesa, in particolare per poter socializzare con la loro comunità, troppo spesso gli attivisti considerano coloro che vanno in chiesa e coloro che guardano la TV pigri e creduloni, complici nel riprodurre il sistema. Se, d’altra parte, leggiamo gli stessi pochi scrittori che dicono ripetutamente le stesse cose, confermando ciò che già crediamo, in modo da poter socializzare con una comunità in cui tutti parliamo e ci vestiamo allo stesso modo – e diversamente dagli altri – ci consideriamo profondamente intelligenti. Non ci dovrebbe meravigliare che in questi casi i lavoratori percepiscano dei pregiudizi contro la classe operaia e/o da snob e paternalisti, ma non molta solidarietà e comprensione nei nostri atteggiamenti.

                       Al di là dei piccoli circoli, ammesso che succeda, non abbiamo una visione condivisa convincente di istituzioni di valore per una nuova società e, mancando questa, non possiamo rispondere alle persone che si domandano: “Perché preoccuparsi? Dato che non sentono alcuna risposta convincente alla loro domanda onesta, non si preoccupano. L’idea che non ci sia alcuna alternativa è pervasiva e persuasiva. Lo scetticismo che alimenta l’apatia e che di questa si nutre è diffusa. Implorare e scongiurare le persone di impegnarsi nell’attivismo non può sostituire l’offerta di una visione convincente degli obiettivi a lungo termine. L’incoerenza annulla le suppliche.

                       Mancando di una visione, a sua volta piantiamo soltanto a parole i semi del futuro nel presente, ma non siamo d’accordo, almeno oltre le generalizzazioni, neanche su quali sono i semi. Tuttavia, senza prefigurare un futuro, i nostri progetti soccombono ad abitudini e modelli passati che provocano tensioni interne e dissoluzione. Ciò che creiamo, spesso tristemente ripugna e crolla, ancora di più di quanto ispiri e persista.

                       Mancando, tuttavia, di una convincente visione istituzionale condivisa troppo spesso manchiamo anche di una strategia che vada oltre obiettivi a breve termine. A volte, mancando di strategia, non possiamo efficacemente mettere in ordine i nostri sforzi o motivare le persone che sanno che le vittorie a breve termine col tempo saranno annullate o ridotte, a meno che non conseguiamo protezioni a più lungo termine per il fatto che sono incomplete.

                       Noi ampiamente e giustamente rifiutiamo l’autoritarismo, ma non comprendiamo il suo opposto lungimirante: l’autogestione. Di conseguenza spesso annientiamo l’iniziativa ed evitiamo la disciplina collettiva e la coerenza. Talvolta non vediamo di buon occhio neanche il rispetto reciproco e la creazione di organizzazioni che comprendono delle responsabilità. Pensiamo che tutta la disciplina e la responsabilità sia autoritaria piuttosto che vedere che tutta quella disciplina e responsabilità sono essenziali per superare l’autoritarismo?

                       Sappiamo di mancare dei mezzi per aprire un dialogo con un vasto pubblico, e tuttavia non tentiamo spesso di cambiare collettivamente la nostra carenza di media creando o anche soltanto sostenendo la creazione di media di vasta portata. Questo assicura che messaggi veramente scadenti predominino e proliferino.

                       Parliamo dei nostri movimenti che sono utili agli oppressi, ma invece le nostre scelte spesso replicano internamente le oppressioni che ci circondano piuttosto che le visioni che cerchiamo. Non riguarda soltanto il razzismo, il sessismo, e l’omofobia (e in tutte e tre queste aree abbiamo avuto importanti successi e c’è molta consapevolezza), ma anche il classismo, dove la replica dei mali della società all’interno dei nostri movimenti e progetti è incontrollata e profonda, e tuttavia questo problema non viene quasi mai sollevato. Creiamo strutture che assumono e riproducono le relazioni sociali aziendali e il nostro agire resta indiscusso anche se porta scompiglio nella nostra concentrazione, impegno, comprensione, creatività, morale, e presenza.

                       Troppo spesso facciamo in modo che le persone e anche noi stessi credano che ogni sforzo che intraprendiamo deve ottenere tutto o non otterrà nulla. Dal momento che nessuno sforzo otterrà tutto subito, molti hanno la sensazione che ogni sforzo non ottiene nulla e che nuova gente tende ad andare via, sconfortata. Arraffiamo la sconfitta dalle grinfie della vittoria.

                       Infine, e forse più importante di tutte, a livello profondo troppi tra di noi non credono che posiamo ottenere un mondo nuovo. Cerchiamo di ottenere modesti successi, ma non li colleghiamo a piani di azione a lungo termine perché non ne abbiamo alcuno. Invece, nell’occhio della nostra mente, il lungo termine appare tetro    e quindi  non ci  preoccupiamo di una visione o una strategia a lungo termine. Non cerchiamo di avere progetti per movimenti, strutture, incontri,  scritti, discorsi e specialmente strutture e pratiche nel campo dell’organizzazione che trattino tutti i suddetti argomenti come interessi prioritari. Invece consideriamo una priorità i  dibattiti senza fine su argomenti a malapena rilevanti.

 

Se nessuna delle suddette ragioni per cui non abbiamo ottenuto un mondo nuovo  è vera, e se nessun altra delle nostre scelte riguardo al movimento è una ragione per no ottenerlo, che cosa significherebbe?

Risposta: sarebbe una notizia orribile perché  vorrebbe dire che non abbiamo nulla da fissare.  Significherebbe che abbiamo fatto e stiamo facendo del nostro meglio. E questo vorrebbe dire che siamo del tutto  fottuti   e che lo è anche l’umanità perché le fonti del nostro fallimento sarebbero completamente esterne alle nostre decisioni e a noi.

 

Se la n.1, 2, e 3  prima, seconda terza e molte  delle  suddette ragioni per cui non abbiamo ottenuto un mondo nuovo fossero  vere – naturalmente non applicandole a tutti gli attivisti e agli scrittori di sinistra, ma a un numero sufficiente  per fare parte  del motivo per cui perdiamo – che cosa significherebbe?

Risposta: sarebbe una notizia molto positiva  perché vorrebbe dire che possiamo sviluppare migliori modi di organizzarci, di aumentare la consapevolezza, di ampliare le abilità, di badare agli errori, e specialmente di creare organizzazioni durature.  Significherebbe che possiamo strutturalmente mitigare gli effetti negativi delle nostre tendenze socialmente distruttive anche mentre lentamente ma con sicurezza introduciamo pratiche  e mentalità nuove e migliori. Significherebbe che possiamo vincere.

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znet/article/why-do-we-lose