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11 luglio 2015

 

Ritorno a Srebrenica tra i sopravvissuti che non dimenticano

di Adriano Sofri

 

Venti anni fa il massacro di 8000 musulmani. Oggi il mondo si ferma per commemorare le vittime

 

Nemanja Zekic ha 27 anni, è il presidente del Centro Giovanile di Srebrenica, ed è, con suo fratello Zarko, un volontario dell’Associazione “Adopt Srebrenica”, ispirata ai pensieri e alle azioni di Alexander Langer. È nato a Srebrenica, ma non c’era nel luglio del 1995, perché dal 1991 la sua famiglia era riparata in Serbia, e quando tornò tutto era successo. Infatti Nemanja è serbo-bosniaco, ed è cresciuto nel culto nazionalista che insegna a esaltare le violenze vittoriose contro il nemico e a negare i crimini troppo orrendi per essere rivendicati.

 

Non c'era fonte serba che non negasse lo sterminio di Srebrenica come una montatura e una cospirazione contro il popolo serbo. Ancora all'università Nemanja partecipava di questo sentimento, e tuttavia si disponeva ad ascoltare quelli che avevano perso la famiglia, a interrogarsi sulle prove. La propaganda, dice, non cede il passo, da ogni versante, e bisogna fare da soli, o quasi. Perfino in famiglia, all'inizio, è difficile venir fuori: si dà scandalo, si provoca dolore. Fra i propri connazionali si passa per traditori.

 

A Srebrenica alcuni superstiti, giovani anche loro, diventarono suoi amici e interlocutori, come Muhammed Avdic, 32 anni. Una volta erano stati invitati insieme a raccontare Srebrenica a Bolzano, ma Muhammed all'ultimo non potè venire. Mentre parlava, Nemanja si accorse di stare raccontando la Srebrenica di Muhammed, che è musulmano osservante, e che ci aveva perso il padre. Di essere entrato nei suoi panni, salvo tornare nei propri.

 

Nevena Medic, 26 anni, anche lei serbo-bosniaca, fu sfollata con la famiglia a Sarajevo, e sperimentò insieme la città assediata e il rancore dei vicini musulmani. È diventata una studiosa di diritti umani, sa che torti e ragioni non sono tutti sullo stesso piano, ma tiene a che siano ricordate tutte.

 

Il “tradimento” di questi giovani è diventato via via meno isolato. Chiedo: c’è qualche ragazzo serbo che si è innamorato di una ragazza musulmana, o viceversa? Un po’ di silenzio, poi: «Almeno uno c’è: Nemanja ». Che è innamorato della sua Jasmina. Io alla fine sono un uomo migliore, dice Nemanja, ma è un cammino da fare insieme, bisogna fare la pace con la storia del proprio popolo. Fare la pace, senza invitare a scordare il passato.

 

Domani, dicono, guarderemo a Belgrado, dove è stata indetta una manifestazione senza precedenti davanti al parlamento: in 7 mila si sdraieranno per terra a fare il morto per ricordare Srebrenica. Ci riusciranno? Glielo lasceranno fare? Nel pomeriggio arriva la notizia che il governo serbo ha vietato tutte le manifestazioni legate a Srebrenica.

 

Anche in “Adopt”, dove impegno e amicizia sono tutt’uno, la parola genocidio, pronunciabile, pronunciata, è il punto più delicato. Fuori, per i grandi e i piccoli della terra che oggi gremiranno Srebrenica, la Republika Srpska ha costellato la strada di manifesti con la faccia di Putin: il Grande Amico, che tutti lo vedano. Alla vigilia, è stato il suo veto a impedire che le Nazioni Unite chiamassero le stragi di Srebrenica col loro nome. Il nome di genocidio scava un fossato incolmabile –una infinita fossa comune- tra il popolo bosniaco-musulmano e il popolo serbo.

 

A Srebrenica sono passati solo vent’anni. Ne sono passati cento fra Turchia e Armenia, e la fossa è ancora spalancata. Gli abitanti di Srebrenica sono rimasti in pochi, 5 mila, forse 7, e fra quei pochi l’odio non si è stancato, o si è rimpiattato dietro la rimozione. Però ci sono queste persone che a fare la pace si impegnano davvero. Donne soprattutto: scamparono grazie a quello spirito cavalleresco non solo serbo che insegna a sterminare gli uomini – tutti, dai 13 anni ai 70 e oltre - e a risparmiare le donne, dopo averle stuprate.

Le donne scamparono per testimoniare e per aspettare che fossero restituiti i frantumi dei loro cari. Si continua a ricomporli, estratti a volte da fosse distanti, dopo che furono stritolati e rimescolati per cancellarne le prove. Ogni anno, quella che per i più è una commemorazione è per alcune il primo funerale, la prima sepoltura tributata: 138, questa volta. Su 8.372 persone scomparse, sono stati rintracciati finora i resti di 7.100. Più di 1.200 mancano ancora. Vorrei accostare questa lunga impresa pietosa al recupero italiano delle salme degli annegati dello scorso aprile.

 

Anche le notizie uscite alla vigilia del ventennale sull’ Observer (Repubblica, 5 luglio) mettono scrupolosamente in fila una quantità di testimo- nianze, ma non sono rivelazioni. Si sapeva che Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Nazioni Unite avessero deciso di darla vinta ai serbi sulle “aree protette”. Pochi giorni prima lo stesso governo di Sarajevo aveva ritirato a Tuzla le truppe che avrebbero potuto resistere a Srebrenica e difendere le decine di migliaia di rifugiati inermi. Si sapeva perfino che le Nazioni Unite avevano fornito il carburante a Mladic e i suoi scherani. Si intuiva che si fossero augurati –tenendosi le mani pulite, eh!- una strage un po’ più sanguinosa delle altre, che commuovesse il mondo e offrisse il pretesto per firmare la pace e la carta geografica rifatta. Quanto “più sanguinosa” - qui intervenne la solita banalità.

 

Un vero effetto ce l’ha, l’elenco dei documenti sul modo in cui si arrivò all’11 luglio: i potenti avevano concordato che Srebrenica spettasse alla Republika Srpska, e l’avevano fatto alla vigilia del genocidio, e per così dire preparandolo. Tanto più oltraggioso è che la Srebrenica in cui oggi ci si raccoglie a commemorare il genocidio appartenga all’“entità”, lo Stato dei suoi autori.

Per il suo capo, Miloran Dodik, il genocidio di Srebrenica è «la più grande impostura del XX secolo». Se si trovasse un avanzo di dignità, Srebrenica dovrebbe ricevere uno statuto internazionale indipendente, come un patrimonio dell’umanità. Non per i suoi morti, ma per i suoi vivi.

 

Sentiremo oggi i potenti venuti a commemorare. Il più acquetato di loro, Bill Clinton, aspettò 4 anni a decidere che ce n’era abbastanza; e anche nella sua amministrazione ci fu chi benedicesse la consegna a Karadzic e Mladic delle zone solennemente protette e la deportazione dei rifugiati, lamentando poi di non aver previsto lo zelo ultimo dei deportatori. Clinton aspettò 4 anni: fra poco, Obama ne avrà aspettati 5 con la Siria.

 

Ho fatto un calcolo approssimato: Bosnia, 100 mila trucidati, due milioni di profughi; Siria, che è grande poco più del doppio, 240 mila trucidati, 4 milioni di profughi, 8 milioni di sfollati. Anche le differenze sono istruttive: a Srebrenica gli aggressori invasati erano cristiani, le vittime musulmane, di quell’islam europeo di cui c’è tanto bisogno.

 

A Dohuk, Kurdistan, i giudici che indagano sul genocidio jihadista degli yazidi mi hanno detto quanto desidererebbero che i genetisti delle ossa sparpagliate di Srebrenica trovassero il tempo anche per le loro fosse. Adesso, ogni volta che vedo un nuovo genocidio, penso già a come saranno le commemorazioni vent’anni dopo.

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