Originale: TomDispatch.com

http://znetitaly.altervista.org

23 novembre 2015

 

Saranno gli scacchi, e non le corazzate, il gioco del futuro in Eurasia?

di Pepe Escobar

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Gli Stati Uniti sono inchiodati al loro circo elettorale multimiliardario. L’Unione Europea è paralizzata dall’austerità, dalla paura dei profughi e ora dalla Jihad senza quartiere nelle strade di Parigi. Dunque l’occidente può essere scusato se ha a malapena colto gli echi della versione cinesi di “All I Have to Do Is Dream” [Tutto ciò che devo fare è sognare] di Roy Orbison. E quel nuovo sogno cinese è addirittura accompagnato da un piano d’azione.

Il cantore è il presidente Xi Jinping e tale piano d’azione è l’ambizioso Tredicesimo Piano Quinquennale appena rivelato o, nella versione video popolare, lo Shisamwu. Dopo anni di espansione economica esplosiva esso consacra il “nuovo normale” minor tasso di crescita del prodotto interno lordo del 6,5% l’anno almeno fino al 2020.

Consacra anche una formula economica aggiornata per il paese; basta con un modello basato sulla produzione a basso salario di merci per l’esportazione e via allo shock del nuovo, cioè della versione cinese della terza rivoluzione industriale. E mentre la dirigenza cinese è concentrata sulla creazione di un futuro da classe media alimentato da un’economia di consumi, il suo presidente sta dicendo a chiunque sia disposto ad ascoltare che, nonostante le paure dell’amministrazione Obama e di alcuni dei paesi confinanti, non c’è motivo perché ci sia mai all’ordine del giorno una guerra per Stati Uniti e Cina.

Considerato l’allarme a Washington riguardo a ciò che è propagandato come una Pechino che persegue silenziosamente l’espansionismo nel Mar Cinese Meridionale, Xi è stato notevolmente franco, ultimamente, sul tema. Né Pechino né Washington, insiste, dovrebbero farsi prendere nella trappola di Tucidide, la convinzione che prima o poi una potenza crescente e il potere imperiale dominante del pianeta siano condannati a entrare in guerra tra loro.

E’ stato solo due mesi fa a Seattle che Xi ha dichiarato a un gruppo di pesi massimi dell’economia digitale: “Non esiste nel mondo qualcosa come la cosiddetta trappola di Tucidide. Ma se grandi paesi dovessero di nuovo commettere gli errori di calcoli strategici sbagliati, potrebbero crearsi tali trappole da sé”.

Può essere sostenuto – e Xi è pronto a farlo – che Washington, che dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, si è conquistato una notevole reputazione quanto a “calcoli strategici sbagliati” nel ventunesimo secolo, potrebbe farlo di nuovo. Dopotutto documenti della strategia militare statunitense e figure di vertice del Pentagono hanno cominciato a etichettare molto pubblicamente la Cina (come la Russia) da “minaccia” ufficiale.

Per arrivare a capire perché Washington stia cominciando a considerare la Cina in quel modo, tuttavia, si devono spostare per un momento gli occhi dal Mar Cinese Meridionale, spegnere Donald Trump, Ben Carson e il resto della banda, e considerare il vero modificatore del gioco – oppure la “minaccia” – che scuote i nervi dei circoli del potere a Washington quando si tratta del nuovo Grande Gioco in Eurasia.

 

Il libro sul comodino di Xi

Stormi di turisti cinesi appiccicati all’iPhone e che comprano tutto ciò che è in vista nelle maggiori capitali dell’occidente prefigurano già un futuro eurasiatico strettamente legato e ancorato a una turbo-carica economica cinese in direzione di tale terza rivoluzione industriale. Se tutto andrà secondo il piano, imbriglierà ogni cosa, dalla connettività totale e dalle infrastrutture ad alta tecnologia, all’espansione di centri energia pulita verde. Centrali solari nel deserto del Gobi, magari?

Sì, Xi è un lettore del teorico economico e sociale Jeremy Rifkin, che per primo ha concepito una possibile terza rivoluzione industriale alimentata sia da Internet sia da fonti energetiche rinnovabili.

Risulta che la dirigenza cinese non abbia alcun problema con l’idea di controllare potenza morbida occidentale d’avanguardia ai propri fini. Di fatto sembra convinta che nessuno strumento possibile dovrebbe essere trascurato quando si tratti di far progredire il paese al prossimo stadio del processo che il Piccolo Timoniere cinese, l’ex leader Deng Xhiaoping, designò decenni fa come l’era in cui “diventare ricchi è splendido”.

Aiuta avere 4 trilioni di dollari di riserve in valuta estera e massicce eccedenze di acciaio e cemento. E’ il genere di cosa che consente di passare alla “costruzione della nazione” su scala pan-eurasiatica. Di qui l’idea di Xi di creare il genere di infrastrutture che potrebbero, alla fine, collegare la Cina all’Asia Centrale, al Medio Oriente e all’Europa occidentale. E’ ciò che i cinesi chiamano “Una Regione, Una Via”; ciò il raccordo della Regione Economica della Via della Seta con la Via della Seta Marittima del Ventunesimo Secolo.

Da quando Xi ha annunciato la sua politica di “Una Regione, Una Via” in Kazakistan nel 2013, la PricewaterCoopers di Hong Cong stima che lo stato abbia immesso più di 250 miliardi di dollari nei suoi progetti orientati alla Via della Seta, estesi dalle ferrovie alle centrali elettriche. Contemporaneamente ogni protagonista economico cinese significativo è a bordo, dal gigante delle attrezzature delle telecomunicazioni, Huawei, al mostro del commercio elettronico Alibaba (fresco del successo commerciale in rete della sua Giornata dei Singoli). La Banca di Cina ha già fornito 50 miliardi di dollari di crediti a miriadi di progetti collegati alla Via della Seta. Il maggior produttore di cemento della Cina, Anhui Conch, sta costruendo almeno sei cementifici giganti in Indonesia, Vietnam e Laos. Il lavoro mirato a legare insieme la parte asiatica dell’Eurasia sta procedendo a un ritmo impressionante. Ad esempio le ferrovie Cina-Laos, Cina-Tailandia e Giacarta-Bandung – contratti del valore di più di 20 miliardi di dollari – devono essere completate da imprese cinesi prima del 2020.

Con gli affari che salgono alle stelle, oggi la terza rivoluzione industriale in Cina pare sempre più uno scatto da matti verso una nuova forma di modernità.

 

Una “guerra al terrore” eurasiatica

Il piano “Una Regione, Una Via” per l’Eurasia si estende ben oltre l’espressione coniata da Rudyard Kipling nel diciannovesimo secolo “il Grande Gioco, che ai suoi tempi intendeva descrivere il torneo nell’ombra tra britannici e russi per il controllo dell’Asia Centrale. Al centro del Grande Gioco del ventunesimo secolo c’è la moneta cinese, lo yuan, che entro il 30 novembre potrebbe aderire al paniere della valuta di riserva dei Diritti Speciali di Prelievo del Fondo Monetario Internazionale. In tal caso ciò significherà la totale integrazione dello yuan, e dunque di Pechino, nei mercati finanziari globali, con un insieme extra di paesi che lo aggiungeranno alle proprie disponibilità di valute estere e i conseguenti cambi di valuta potrebbero ammontare all’equivalente di trilioni di dollari USA.

Accoppiate il progetto “Una Regione, Una Via” con la Banca Asiatica per gli Investimenti Infrastrutturali, fondata recentemente e a guida cinese con il Fondo Infrastrutturale della Via della Seta di Pechino (40 miliardi di dollari stanziati sinora). Aggiungeteci uno yuan internazionalizzato e avrete le fondamenta su cui le imprese cinesi potranno aprirsi con una carica turbo la via a una frenesia pan-eurasiatica (e persino africana) di costruzione di strade, ferrovie ad alta velocità, reti di fibre ottiche, porti, oleodotti e griglie elettriche.

Secondo la Banca Asiatico per lo Sviluppo (ADB), dominata da Washington, attualmente c’è un mostruoso vuoto di 800 miliardi di dollari di finanziamenti dello sviluppo di infrastrutture in Asia fino al 2020 e brama di essere colmato. Pechino sta ora entrando in quella che promette di essere un’abbuffata da cambio di paradigma di sviluppo economico.

E non si dimentichino i bonus che concepibilmente potrebbero far seguito a tali sviluppi. Dopotutto, almeno nei piani sbalorditivamente ambiziosi della Cina, il suo progetto eurasiatico finirà col coprire non meno di 65 paesi in tre continenti, potenzialmente interessando 4,4 miliardi di persone. Se avesse successo anche solo in parte, potrebbe togliere vigore al jihadismo in stile al-Qaeda e ISIS influenzato dal wahabismo nella provincia cinese dello Xinjiang, ma anche in Pakistan, Afghanistan e in Asia centrale. Immaginatelo come un nuovo genere di guerra eurasiatica al terrore le cui “armi” sarebbero il commercio e lo sviluppo. Dopotutto i pianificatori di Pechino si aspettano che il volume del commercio annuale del paese con i partner della regione-e-via superi il 2,5 trilioni di dollari entro il 2025.

Contemporaneamente si sta realizzando un altro genere di legante geografico – quello che da tempo chiamo il Pipelineistan, la vasta rete di condotte [pipelines – n.d.t.] energetiche che attraversa la regione, trasportando in Cina forniture dei petrolio e di gas naturale. Si sta già estendendo attraverso il Pakistan e il Myanmar, e la Cina sta progettando di raddoppiare i propri sforzi in questo tentativo di rafforzare il suo abbandono della strategia degli Stretti di Malacca. (Quel collo di bottiglia è ancora un punto di transito per il 75% delle importazioni cinesi di petrolio). Pechino preferisce un mondo in cui la maggior parte di quelle importazioni di energia non sia trasportata via mare, e dunque alla mercé della marina statunitense. Più del 50% del gas naturale della Cina arriva già via terra da due “-stan” dell’Asia Centrale (Kazakistan e Turkmenistan) e tale percentuale non farà che aumentare una volta che entrino in funzione le condutture per portare in Cina il gas naturale siberiano prima della fine del decennio.

Naturalmente l’idea dietro tutto questo, che potrebbe essere espressa dallo slogan “andare a ovest (e a sud) è magnifico”, potrebbe indurre una svolta tettonica nelle relazioni eurasiatiche a ogni livello, ma ciò dipende da come finirà per essere considerata dalle nazioni coinvolte e da Washington.

Mettendo per un momento da parte l’economia, il successo dell’intera impresa richiederà abilità propagandistiche sovrumane da parte di Pechino, cosa che non è sempre è in evidenza. E ci sono molti altri problemi da affrontare (o da evitare); essi includono il complesso di superiorità dell’etnia Han di Pechino, non sempre esattamente il massimo presso altri gruppi etnici minoritari o stati confinanti, nonché una spinta economica che è spesso considerata dalle minoranze etniche cinesi di vantaggio solo per gli Han cinesi. Metteteci dentro un crescente ondata di sentimento nazionalista, l’espansione dell’esercito cinese (compresa la marina), conflitti nei mari meridionali e una crescente ossessione per la sicurezza da parte di Pechino. Aggiungeteci un campo minato della politica estera che opererà contro il mantenimento di un rispetto calibrato per la sovranità dei vicini. Buttateci dentro il “fulcro” in Asia dell’amministrazione Obama e la sua urgenza di formare alleanze anticinesi di “contenimento” e di rimpolpare la sua potenza navale e aerea in acque prossime alla Cina. E, infine, non dimenticate la burocrazia, un elemento base dell’Asia centrale. Tutto questo si somma in un formidabile pacchetto di ostacoli al sogno cinese di Xi e a una nuova Eurasia.

 

Tutti a bordo del treno della notte

Il risveglio della Via della Seta è iniziato da una modesta idea del Ministero del Commercio cinese. L’obiettivo iniziale consisteva in niente di più che ottenere “contratti [extra] all’estero per le imprese di costruzione cinesi”. Quanto in là si è spinto il paese da allora! Partendo da zero nel 2003 la Cina ha finito col costruire non meno di 16.000 chilometri di ferrovie ad alta velocità; più del resto del pianeta messo insieme.

E questo è solo l’inizio. Pechino sta ora negoziando con 30 paesi per costruire altri 5.000 chilometri di ferrovie ad alta velocità per un investimento totale di 157 miliardi di dollari. Il costo, ovviamente, la fa da padrone; una rete ferroviaria ad alta velocità “made in China” (velocità massima 350 chilometri l’ora) costa circa da 17 a 21 milioni di dollari al chilometro. Costo europeo paragonabile: da 25 a 39 milioni di dollari al chilometro. Nessuna meraviglia, dunque, che i cinesi stiano concorrendo all’asta per un progetto da 18 miliardi di dollari che collega Londra con l’Inghilterra settentrionale e per un altro che collega Los Angeles a Las Vegas, surclassando nel frattempo l’offerta di imprese tedesche per stendere binari in Russia.

Su un altro fronte, anche se non parte diretta della nuova pianificazione della Via della Seta cinese, non ci si dimentichi dell’Accordo Iran-India-Afghanistan di Cooperazione al Transito e ai Trasporti Internazionali. Questo progetto indiano-iraniano per sviluppare strade, ferrovie e porti è particolarmente concentrato sul porto iraniano di Chabahar, che deve essere collegato a nuove strade e ferrovie fino alla capitale afghana di Kabul e poi a parti dell’Asia centrale.

Perché Chabahar? Perché questo è il corridoio preferito di transito dell’India all’Asia centrale e alla Russia, poiché il Passo di Khyber sul confine afgano-pachistano, il punto tradizionale di collegamento per questo, resta troppo volatile. Costruito dall’Iran, il corridoio di transito da Chabahar a Milak sul confine tra Iran e Afghanistan è ora pronto. Per ferrovia, Chabahar sarà allora collegata al confine uzbeco a Termez, il che si traduce nel fatto che i prodotti indiani possono raggiungere l’Asia centrale e la Russia.

Consideratelo la Via Meridionale della Seta, che collega l’Asia meridionale con l’Asia centrale e alla fine, se tutto andrà secondo i piani, l’Asia occidentale con la Cina. Fa parte di un piano tremendamente ambizioso per un Corridoio di Trasporti Nord-Sud, un progetto congiunto India-Iran-Russia lanciato nel 2002 e collegato allo sviluppo del commercio inter-asiatico.

Naturalmente non sarete sorpresi dal sapere che, anche qui, la Cina è profondamente coinvolta. Imprese cinesi hanno già costruito una linea ferroviaria ad alta velocità dalla capitale iraniana Teheran a Mashad, presso il confine afgano. La Cina ha anche finanziato una linea di metrò dall’aeroporto Imam Khomeini al centro di Teheran. E vuole utilizzare Chabahar come parte della cosiddetta Via Ferrata della Seta, che è programmata per attraversare un giorno l’Iran ed estendersi sino alla Turchia. Come se non bastasse, la Cina sta già esaminando l’aggiornamento di porti turchi.

 

Chi ha perso l’Eurasia?

Dai leader cinesi il piano “Una Regione, Una Via” – una “mappa di partenariato economico con anelli multipli collegati l’uno all’altro” – è considerato come una via d’uscita dal Consensus di Washington e dal sistema finanziario globale incentrato sul dollaro che lo accompagna. E mentre si tirano fuori le “armi”, il “campo di battaglia” del futuro, come lo vedono i cinesi, è essenzialmente economico globale.

Da un lato ci sono mega-patti economici promossi da Washington – il Partenariato Trans-Pacifico e il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti – che dividerebbero l’Eurasia in due. Dall’altro che l’urgenza di un nuovo programma di integrazione pan-eurasiatica che sarebbe concentrato sulla Cina e includere, come protagonisti maggiori, Russia, Kazakistan, Iran e India. Lo scorso maggio la Russia e la Cina hanno concluso un accordo per coordinare l’Unione Economica Eurasiatica (EEU) a guida russa con i nuovi progetti della Via della Seta. Come parte del loro sviluppo di una collaborazione strategica, la Russia è già il fornitore numero uno di petrolio della Cina.

Con il destino dell’Ucraina tuttora in bilico c’è, al presente, scarso spazio per il genere di serio dialogo economico tra l’Unione Europea (UE) e la EEU che possa un giorno fondere Europa e Russia nella visione cinese di una integrazione a tutto campo di dimensione continentale. E tuttavia affaristi tedeschi, in particolare, restano concentrati e affascinati dalle possibilità infinite dell’idea della Nuova Via della Seta e del modo in cui potrebbe proficuamente collegare il continente.

Se cercate un primo segnale futuro di schiarita al riguardo, tenete d’occhio ogni mossa della UE per impegnarsi economicamente con l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione. I suoi membri attuali: Cina, Russia e quattro “-stan” (Kazakistan, Uzbekistan, Kirzighistan e Tagikistan). India e Pakistan diverranno membri nel 2016 e l’Iran una volta che saranno revocate completamente le sanzioni. Un gigantesco secondo passo (non presto) sarebbe che questo dialogo divenisse il trampolino per la costruzione di una zona di una “regione unica” trans-europea. Ciò potrebbe aver luogo solo dopo che ci fosse una soluzione genuina in Ucraina e che le sanzioni UE contro la Russia fossero revocate. Pensate a questo come alla via lunga e tortuosa verso ciò che il presidente russo Vladimir Putin ha cercato di far accettare ai tedeschi nel 2010: una zona eurasiatica di libero scambio che si estenda da Vladivostok a Lisbona.

Ogni mossa simile, ovviamente, avrà luogo solo sul cadavere di Washington. Al momento nei circoli politici esclusivi di Washington i sentimenti spaziano dal compiacimento per la “morte” economica delle nazioni del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), la maggior parte delle quali affronta desolanti distacchi economici pur mentre la loro integrazione politica, diplomatica e strategica procede rapidamente, alla paura di una terza guerra mondiale, o all’anticipazione diretta di essa, e della “minaccia” russa.

Nessuno a Washington vuole “perdere” l’Eurasia a favore della Cina e della sua nuova Via della Seta. Su quella che l’ex Consigliere della Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski chiama “la grande scacchiera”, le élite dei circoli esclusivi di Washington e la gurucrazia che li segue, non si rassegneranno mai a vedere gli Stati Uniti relegati al ruolo di “equilibratore esterno”, mentre la Cina domina un’Eurasia in integrazione. Di qui quei due patti commerciali e quel “fulcro”, la rafforzata presenza navale statunitense in acque asiatiche, la nuova urgenza di “contenere” la Cina e la demonizzazione sia della Russia di Putin sia della minaccia militare cinese.

 

Alla faccia di Tucidide

Il che ci riporta al punto di partenza, alla cotta di Xi per Jeremy Rifkin. Non sbagliatevi: qualsiasi cosa Washington possa volere, la Cina è in effetti la potenza emergente in Eurasia e un magnete economico smisurato. Da Londra a Berlino ci sono segni nella UE che, nonostante così tanti decenni di fedeltà transatlantica, c’è anche qualcosa di troppo attraente per essere ignorato in ciò che la Cina ha da offrire. C’è già una spinta verso la configurazione di un’economia digitale di livello europeo strettamente collegata alla Cina. Lo scopo sarebbe uno spazio economico digitalmente integrato, in stile Rifkin, che copra l’Eurasia, che a sua volta sarebbe un mattone della terza rivoluzione industriale post carbonio.

Il G-20 si è tenuto quest’anno ad Antalya, in Turchia, ed è stato una faccenda insofferente, dominata dal jihadismo dello Stato Islamico nelle strade di Parigi. Il G-20 del 2016 si terrà ad Hangzhou, in Cina, che capita sia anche la città di Jack Ma e la sede della direzione di Alibaba. Non si può avere una terza rivoluzione industriale maggiore di quella.

Un anno è un’eternità in geopolitica. Ma se, nel 2016, Hangzhou offrisse davvero una visione del futuro, di un’abbondanza di vie della seta e di treni della notte dall’Asia centrale a Duisburg, Germania, un futuro verosimilmente dominato dalla visione di Xi? Egli è, al minimo, entusiasta di onorare il G-20 come meccanismo multipolare globale per coordinare un quadro comune di sviluppo. Al suo interno Washington e Pechino potrebbero qualche volta collaborare in un mondo in cui gli scacchi, non le corazzate, sarebbero il gioco del secolo.

Alla faccia di Tucidide.

 


Pepe Escobar è un analista politico indipendente che scrive per RT e Sputnik e collabora regolarmente con TomDispatch. Il suo ultimo libro è Empire of Chaos[Impero del caos]. Il suo prossimo libro esce questo mese. Seguitelo su Facebook.

Questo articolo è apparso in origine su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore di The End of Victory Culture e di un romanzo, The Last Days of Publishing. Il suo libro più recente è Shadow Government: Surveillance, Secret Wars and a Global Security State in a Single Superpower World (Haymarket Books).


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/will-chess-not-battleship-be-the-game-of-the-future-in-eurasia/

top