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Giovedì 30 Aprile 2015

 

Madri-?coraggio o madri-?disperazione? Come ti stravolgo la realtà

 

Le copertine dei giornali degli scorsi giorni, le principali testate online, gli editorialisti di punta di tutte le redazioni non hanno dubbi: il modo migliore per raccontare gli avvenimenti dei Baltimore Riots è quello di focalizzarsi sull'ormai arcinota scena della madre che si accorge che il proprio figlio è in prima linea negli scontri, decidendo quindi di andarlo a riprendere e non lesinando schiaffi per raggiungere il proprio obiettivo. E' ormai un tormentone da Festivalbar, ripetuto in maniera compulsiva a rete e canali mediatici unificati, secondo una modalità di cui altre volte avevamo già visto anticipazioni (basti pensare ai poliziotti che si levarono il casco a Torino durante una manifestazione indetta - ma eterogeneamente attraversata- dai "forconi", o per rimanere in tema, all'abbraccio tra il poliziotto e il bambino a Ferguson..)

 

L'immagine (fotografica o video), come al solito, è il medium più immediato per comunicare una lettura: basta tagliarla, estrapolarla dal contesto o costruirne uno adeguato attorno ad essa. E non pare vero ai tanti retori delle “madri-coraggio” di cui possiamo leggere le bestialità sui giornali, di poter offrire in questo modo una sorta di suggerimento implicito alle tanti madri che magari hanno proprio pensato qualche volta ad un comportamento del genere, sulle ali della sacrosanta paura di perdere il proprio figlio. Perchè la paura di morire è viva dove la recita della vita quotidiana è infranta, interrotta dalla storia nuda e cruda, dall'evidenza per l'occhio, dal durare del razzismo e della violenza dei poteri costituiti.

 

“E' il mio unico figlio maschio!” si lamenta poi la donna davanti alle telecamere, portandoci ad alcune considerazioni: inanzitutto sull'importanza dell'aggettivo “maschio”, che supera la dimensione dell'”unico figlio” riportandoci alla dimensione della povertà e soprattutto della valorizzazione possibile, basata sul genere e sulle possibilità differenziate a partire dal genere. Nell'America più povera, dove sono tante donne sicuramente forti e coraggiose a portare avanti nuclei familiari orfani della figura maschile per via di disimpegno o di guai giudiziari, come valutiamo il fatto che sembra resistere la necessità della sopravvivenza di quell'”unico figlio maschio” per riuscire a salire sull'ascensore sociale che porta fuori dalle miserie del ghetto?

 

Le scene di madri così dipendenti dalla sorte del proprio “unico figlio maschio” ricordano più la storia della Cina, dell'India, dell'Afria, dei cosiddetti "paesi in via di sviluppo" piuttosto che di uno stato ricco e potente come l'America, dove evidentemente però il peso del genere è ancora centrale nella gerarchia sociale ed economica. I retori delle “madri-coraggio” dovrebbero chiedersi, invece di sottolineare l'eroismo di chi non cede alla violenza anche se parte della comunità nera, se quella madre si scagli contro la violenza del figlio o se piuttosto non cerchi di evitare che la perdita di suo figlio non significhi il definitivo abbandono della speranza di un'elevazione sociale. Per noi resta il fatto che quella donna non ha difeso la polizia dalle pietre, ma il figlio dal piombo della polizia. E questo fa tutta la differenza del mondo.

 

O si dovrebbero chiedere se più che la reprimenda al figlio per i suoi gesti non ci sia la paura che il proprio stesso figlio diventi un nuovo Freddie Gray visto che i dati dicono che ciò potrebbe tranquillamente succedere. Del resto lo sappiamo che ormai è quasi un'abitudine per le madri della comunità afroamericana perdere i propri figli, è successo in centinaia di casi negli ultimi mesi..ma questo non interessa, agli alfieri delle madri-coraggio. Alfieri che sono gli stessi che da un lato si stupiscono del fatto che Baltimora, che ha un sindaco donna e nero, possa vivere ancora momenti di questo tipo: ma la lezione di Obama, o della Merkel presidente, ben ci avevano già fatto capire che il posizionamento rispetto alla linea del colore e del genere va sempre considerato nell'ambito di quello di classe.

 

Un posizionamento di classe che si rispecchia anche nella geografia urbana e sociale delle città: leggiamo da un testo di Massimo Gaggi sul Corriere della Sera che le madri-coraggio per cui si esalta lo stesso quotidiano sono quelle che hanno cresciuto i loro figli “nell'abbandono degli slum, in famiglie spesso devastate, con molti di loro non hanno mai conosciuto l'autorità paterna.” Farebbero male a ribellarsi? La colpa di quella devastazione sociale è loro o di condizioni politiche ed economiche che secolarmente hanno messo i neri ai margini della società?

 

A questa domanda pare rispondere, dalle colonne di Repubblica, Vittorio Zucconi, in un passaggio stranamente condivisibile rispetto alle opinioni medie del quotidiano su cui è pubblicato:”Nella disperazione del sentirsi condannato al fondo del barile sociale, per propria o per atrui responsabilità non importa, ogni contatto con l'espressione più dura e immediata del potere, la polizia, il braccio armato del “Man”, del padrone, questi profughi e naufraghi della rivoluzione etnica trovano la conferma della iniquità, ormai affidata anche a coloro che sembrano, ma non sono più, “brothers and sisters”, fratelli e sorelle di colore. Tra la sfacciata, impunita brutalità della polizia, che non è solo bianca, e la certezza della propria condanna a vita a restare sull'ultimo gradino sociale, l'assalto al minimarket, il saccheggio delle bottiglierie, le molotov, lo scambio di proiettili, le cariche e le controcariche diventano l'unica forma di espressione”.

 

Insomma, come già avvenne per gli UkRiots del 2011, o in precedenza per i riots di Ferguson, o tornando ancora più indietro nei riots di LA che seguirono all'omicidio di Rodney King, anche questa volta pare confermarsi l'assunto di Martin Luther King che casualmente quasi mai viene ricordato tra i pensieri del grande lottatore per i diritti civili americani. “A riot is the language of the unheard”, la rivolta è il linguaggio di chi non ha voce.   Ma soprattutto è il linguaggio di chi il coraggio lo mette nello stare sulla prima fila della barricata, in una lotta che non è contro la propria famiglia, ma che è intesa come l'unico mezzo di riscatto di questa.

 

Va rifiutata con forza la significazione di quel video come esempio del trionfo del “ruolo della madre”, veicolo ideologico e niente più, educatrice e dispensatrice di Verità Costituite per l'ingenuo, scapestrato, traviato adolescente. Preferiamo pensare ad un'altra significazione, ma più che altro sperare in essa, ovvero nella “Madre” di Brecht (opera teatrale del 1932 tratta dal libro di Gorki del 1907). La Madre non vuole che il figlio Pavel faccia agitazione in fabbrica, ma la polizia le devasta la casa, Pavel viene fucilato..allora lei raccoglie la bandiera rossa di Pavel e la porta in spalla fino alla vecchiaia inoltrata. La sua grande famiglia, lì dove è ascoltata come una maestra (sdegno e tenacia, scienza e ribellione), è ora la rivoluzione. Da "schiaffeggiatrice" a bolscevica.

 

Non ci è dato sapere se la madre di Baltimora sarà un'altra Pelagia Vlassova, ma certamente vuole più bene al figlio che alla polizia. Ed è tutt'altro che da biasimare...

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