Osservatorio Iraq

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8 dicembre 2015

 

Sinjar, quale liberazione?

di Joseph Zarlingo

 

La liberazione della città è più complessa di come è stata raccontata. La realtà sul campo, i timori della gente, gli interessi delle parti coinvolte e la fragilità dello Stato mostrano un caos da cui sembra impossibile uscire. 

 

“Anche per Bashiqa sembra essere arrivata l’ora. Ma sai una cosa? Sono molto, molto preoccupato”. R. non avrebbe forse reagito così fino a qualche mese fa, di fronte alla notizia di una imminente liberazione della sua cittadina di origine, a nord di Mosul.

R. vive lontano dalla sua casa, da un anno e mezzo. Il freddo inverno della città in cui risiede, Duhok, nell’omonima provincia occidentale della regione del Kurdistan iracheno, l’ha già vissuto una volta, ma spera che questa sia l’ultima.

“Ma chissà dove saremo l’anno prossimo. L’Europa è l’ultimo dei pensieri, ma la mia famiglia inizia a pensarci. E anche questo mi preoccupa”. Le paure di R. sono condivise da buona parte degli altri 850mila iracheni della provincia di Ninive rifugiati nella regione curda in seguito all’avanzata di Daesh, il gruppo islamista che da un anno e mezzo a questa parte controlla un terzo del territorio di Siria e Iraq.

Al suo contrario, circa 190mila di loro, soltanto a Duhok, al posto di una casa hanno una tenda, o al meglio un caravan, in un campo per sfollati. Ce ne sono 16 in tutta la provincia, gestiti dal governo con il supporto del coordinamento umanitario delle agenzie delle Nazioni Unite e di numerose ONG locali e inernazionali. Certamente le condizioni di vita non sono affatto “normali”, ma al tempo stesso ad un anno dalla loro costruzione un miglioramento c’è stato, come spiega T. “I servizi di base tutto sommato ci sono, le ONG sono presenti e si è creato in qualche modo un senso di comunità. Per lo meno non ti senti solo”.

T. è originario di Sinjar, città a sud di Duhok, situata lungo il confine orientale della Siria.

La sua famiglia è composta da lui e sua moglie, tutti gli altri sono andati in Europa, attraversando per mare o terra illegalmente i paesi e le frontiere che la separano dall’Iraq, rischiando ovviamente la vita. Da quando è scappato nel Kurdistan ha vissuto nel campo di Khanke, ma dopo aver trovato un lavoro più stabile con una ONG ha deciso di trasferirsi a Duhok. I problemi psicologici della moglie, ma anche il passaggio per loro cruciale da un’area rurale come Sinjar a una urbana come Duhok, li hanno convinti che “in fin dei conti, si stava meglio a Khanke”.

“Ma ora che siamo tornati qui, l’incognita più grande rimane il futuro, e negli ultimi tempi neanche queste tende sembrano sicure”. Eppure, i tempi di cui T. parla corrispondono proprio alla liberazione di Sinjar.

 

Liberazione di chi? Da cosa?

Il 13 novembre scorso, su uno sfondo montuoso e da un piccolo leggio affollato di microfoni, Massud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, annunciava la liberazione di Sinjar.

“Senza alcun dubbio, questa vittoria avrà un impatto positivo sulla liberazione di altre aree”, dichiarava con soddisfazione, complimentandosi con i “protagonisti dell’operazione”, i suoi soldati, i peshmerga, e ringraziando l’aviazione internazionale guidata dagli Stati Uniti.

L’annuncio e la narrazione di fondo sono stati subito riportati dai media internazionali, che già da due giorni rilanciavano le notizie che arrivavano dal fronte, dai pochissimi media autorizzati a seguire i militari sul terreno delle operazioni.

In primis Rudaw, emittente multimediale che trasmette in tutte le regioni curde, la cui sede è basata ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, e nota per essere vicina al partito del presidente Barzani, il partito democratico del Kurdistan (PDK). E in secondo luogo Kurdistan 24 (K24), canale h24 i cui programmi e servizi di news avevano visto per la prima volta la luce solo qualche giorno prima, ad inizio novembre.

“Cosa ne è stato di casa nostra lo sappiamo solo da questo schermo”, diceva K., sfollato di Sinjar che oggi vive nel campo di Berseve 1, nel distretto di Zakho (Duhok), mentre in tv scorrevano immagini di esplosioni riprese in lontananza, intervallate da grafiche in alta risoluzione e spot celebranti “la vittoria dei peshmerga”.

In sostanza, secondo questo tipo di narrazione, i peshemerga sarebbero stati i primi ad entrare nella città con la copertura dell’aviazione internazionale. R. non ci sta: “E’ un perfetto spettacolo mediatico, un grande show di Barzani”.

La mattina dei giovedì 12 novembre, alle 7.30 circa, una sua chiamata a Osservatorio Iraq avvisava di un altro tipo di dinamiche. Da Ovest e da Nord, dai monti del Sinjar, le milizie delle YPG (Unità di Protezione del Popolo, ala armata del PYD, il Partito curdo-siriano dell’Unione Democratica), del PKK (Partito curdo-turco dei lavoratori) e delle HBS (Unità della Resistenza del Sinjar, che unisce diverse milizie ezide) erano già dentro una Sinjar abbandonata, di cui Daesh aveva lasciato solo macerie, mine e morti.

Le tre formazioni militari sono presenti nella regione da tempo. Le prime due sin dall’inizio della crisi del Sinjar, nell’agosto 2014, quando Daesh sferrò l’attacco decisivo invadendo e conquistando città e villaggi. Bloccati tra le montagne, decine di migliaia di sfollati furono tratti in salvo dalle YPG/PKK, che aprirono un corridoio diretto in Siria, da cui in seguito le persone rientrarono a Duhok.

Anche in quel caso la guerra si è combattuta anche ad altri livelli, politici e mediatici.

Ufficialmente, i peshmerga ebbero un ruolo decisivo nel “contenere” Daesh, limitandone l’avanzata verso nord, ma in questa narrazione non vi è mai stata traccia della ritirata dei curdi-iracheni.  A dicembre scorso un altro annuncio televisivo in grande stile di Barzani, accompagnato da gente in festa per le strade: “Sono lieto di poter offrire il successo dei peshmerga agli ezidi nel giorno della loro festa del digiuno. Questo successo è il premio più appropriato che posso offrire loro”, dichiarava il presidente, omettendo che in realtà la situazione era più complessa.

L’unica parte strappata al controllo di Daesh era molto più a nord, dove circa 20mila ezidi si rifugiavano nelle montagne, e dove risiedono ancora oggi.

Da allora nell’area di Sinjar la situazione si è mantenuta più o meno stabile, con i bombardamenti internazionali tendenzialmente costanti, la linea del fronte dei peshmerga alquanto ferma, mentre i combattimenti all’interno della città e nei dintorni sarebbero avvenuti tra Daesh da una parte e YPG, PKK e varie milizie ezide, tra cui la principale HPS, le forze di protezione del Sinjar, sorte spontaneamente tra gli ezidi rifugiati sulle montagne.

Ad aprile, il fondatore delle HPS, Hayder Shesho, esule ezida iracheno in Germania dal 1990, rientrato in patria per difendere la sua città di origine, è stato arrestato dalle autorità del Kurdistan iracheno, accusato ufficialmente di aver creato una milizia illegale, mentre altre fonti (1 e 2) parlano apertamente del suo rifiuto di allearsi con il PDK di Barzani.

Probabilmente, da quel momento, il risentimento verso le autorità curde-irachene ha accelerato l’alleanza tra le milizie ezide con le YPG e PKK.

In questo quadro, non va dimenticata anche la presenza minore, a Sinjar, di combattenti cristiani e turcomanni.

Dal punto di vista militare, l’operazione di novembre, al di là delle “guerre di bandiere”, ha coinvolto circa 8mila combattenti, ma non risultano morti o feriti, se non da mine o bombe inesplose. Nell’ambito della più ampia guerra contro Daesh, ha comportato due importanti risultati.

Il primo riguarda l’interruzione dell’autostrada 47, snodo principale che collega direttamente Mosul e Raqqa, città siriana, considerata la capitale di Daesh in Siria.

In questo modo gli islamisti dovrebbero vedersi considerevolmente ridotte le furniture e gli scambi tra i due centri. L’altro risultato è indubbiamente legato alla città stessa di Sinjar, che con la sua area circostante permette di strappare al controllo di Daesh una fetta importante di territorio.

Ciò che non è chiaro è legato però alla fase post-liberazione.

Cosa succede ora che la città è stata liberata? Qual’è la strategia militare e politica per la ricostruzione della città e per garantire la sicurezza dell’area?

 

A ciascuno il suo Iraq (e il suo Kurdistan)

Rispondere a queste domande non è semplice. La differenza tra le diverse narrazioni non può essere letta senza considerare il quadro più complesso delle tensioni infra-curde, a loro volta inserite nell’intricatissimo scacchiere siriano e iracheno.

In Iraq, la liberazione di Sinjar arriva in un momento molto delicato per la regione semi-autonoma del Kurdistan, che dallo scorso agosto attraversa una crisi politica legata al mandato del presidente Barzani.

Nonostante quest’ultimo avrebbe dovuto rimettere i poteri al Parlamento regionale, il suo partito e i suoi sostenitori hanno insistito per mantenere lo status quo, giustificato dalla particolare situazione di guerra, che con un avvicendamento di simile portata sarebbe stato troppo rischioso. Oltre 14 incontri tra principali partiti al governo e all’opposizione non hanno portato a nulla di concreto, se non ad alimentare le tensioni, culminate con dimostrazioni di piazza di Sulaymaniyah, la terza provincia della regione al confine con l’Iran, legate anche alla crisi budgetaria che sta ritardando da diversi mesi il pagamento dei salari dei dipendenti pubblici.

Considerata bastione del PUK, l’Unione patriottica del Kurdistan, storico rivale del PDK e di impostazione idelogica affine al PKK/YPG, e del Gorran, il Movimento per il “cambiamento”, la città si è letteralmente infiammata, con scontri tra polizia e dimostranti che hanno provocato la morte di 5 persone.

Il culmine si è raggiunto con l’estromissizione dei deputati del Gorran, tra cui lo speaker del Parlamento, dagli uffici governativi di Erbil. La contemporanea chiusura degli uffici dei canali satellitari KNN e NRT, vicini al Gorran e al PUK, ha completato il quadro, da alcuni definito un vero e proprio “colpo di Stato”.

Simili fatti hanno indubbiamente messo sotto una diversa luce, a livello internazionale, la reputazione del Kurdistan iracheno, da anni una regione in via di sviluppo, capace di offrire maggiore stabilità rispetto al resto del paese, e dal giugno 2014 diventato un fedele alleato nella guerra contro Daesh dagli Stati Uniti e da diversi Stati europei, tra cui l’Italia, che supportano il governo di Barzani con armi ed expertise militare.

Tuttavia, le tensioni interne non sembrano aver influenzato questo tipo di supporto, e di certo la “liberazione” di Sinjar così presentata contribuisce a rafforzare il ruolo e l’immagine del leader del PDK.

Va da sé che di questa “liberazione” però non possono far parte le YPG, il PYD, il PKK e di conseguenza anche le milizie ezide, loro alleate.

Le prime due compagini, note sulla scena internazionale per il loro ruolo nell’indebolire Daesh nel nord della Siria, nei cantoni di Jazire, Kobane e Afrin (racchiusi nell’entità denominata Rojava), e protagoniste a loro volta anche nella settarizzazione della Siria, come denunciato recentemente da Amnesty International, hanno un background storico, politico e sociale nettamente diverso da quello del PDK, che nonostante governi in coabitazione con altri partiti è riuscito a plasmare la regione con uno sviluppo che ha unito gli elementi di islamismo moderato e capitalismo.

Il modello a cui Barzani se è ispirato è quello turco, a cui la regione è legata anche da un accordo commerciale e politico che di fatto risale al 2005, ma messo per iscritto, senza rivelarne i contenuti, nel 2013. Una simile alleanza non poteva far altro che inasprire i rapport fra PYD e PKK da un lato e PDK dall’altro.

Esempi a tal proposito abbondano, e vanno dal consentire all’aviazione turca di bombardare le postazioni del PKK nel Kurdistan iracheno, da parte di Barzani, al bando del PYD per l’emittente Rudaw di operare in Rojava, denunciato anche dal “Committee to Protect Journalists”.

I fatti di Sinjar rappresentano solo uno degli ultimi episodi di contrasti infra-curdi, a cui ne sono seguiti altri due recenti.

Mentre Barzani reclamava vittoria, il PYD emanava un comunicato con il quale richiedeva l’autonomia della regione del Sinjar e invocava, insieme al PKK, anche la presenza sul terreno delle temibili milizie sciite Hashd al-Shaabi.

Queste ultime, supportate dall’Iran e legate all’ex-premier iracheno Nouri al-Maliki, combattono contro Daesh in diverse zone dell’Iraq, tra cui il sud-ovest, nella provincia di Anbar, ma anche a nord, in particolar modo attorno alle città di Kirkuk e Tikrit.

Temibili perché si sono macchiate anche di distruzione indiscriminata di villaggi a maggioranza araba, e si sono scontrate violentemente anche con i peshmerga a Tuz Khurmatu, area prevalentemente curda a sud di Kirkuk.

In questa complessità così delineata fa molto rumore l’assenza di un attore che in teoria dovrebbe avere tutt’altra natura nella riconquista del territorio iracheno dalle mani di Daesh. Dove sono l’esercito iracheno, e il suo organo politico, il governo di Baghdad?

Sotto pressione per le proteste contro la corruzione e la richiesta di migliori servizi pubblici in corso dallo scorso luglio e incapace di sferrare l’attacco decisivo per riconquistare Ramadi, nonostante le condizioni sembrino favorevoli, la debolezza del premier al-Abadi risulta evidente.

Le sorti del paese sembrano in mano più agli interessi esterni di Stati Uniti e Iran, intenzionate a riequilibrare il potere in Iraq secondo linee identitarie e religiose, nei quali i numerosi conflitti tribali sul terreno contribuiscono a una generale condizione di caos.

 

Il paradigma Sinjar

Caos ben visibile proprio a Sinjar, nelle vicende che circondano la sua liberazione e tra le sue stesse macerie.

Contro la narrativa predominante, la ritirata di agosto e le “bugie” di dicembre 2014 le ricordano molto bene sia T. che K. Oggi molti ezidi di Sinjar, come loro rifugiati a Duhok, mettono insieme i puntini, collegando i fatti di un anno fa (“l’ennesimo genocidio nei nostri confronti”) con la “liberazione” di oggi.

“Come faccio a non vedere quello che ci raccontano oggi con quanto i miei occhi e la mia pelle hanno vissuto in prima persona?”, si domandano.

T. non ci gira attorno, sospira, e rassegnato ricorda “gli uomini del PDK che in borghese la sera prima dell’arrivo di Daesh porta per porta raccomandavano cautela e ci dicevano di star tranquilli, che il pericolo era lontano”.

E oggi, quando sente dire che la gente in alcuni campi non si sente libera di parlare, o neanche di mettere un “like” su Facebook, giunge alla conclusione che “qui in Iraq, non c’è alcuna speranza”.

Anche per K. la liberazione di Sinjar non è stato un momento di festa. “Qui nel campo  non ci sono stati grandi festeggiamenti, anzi. Ora viene la parte difficile, a Sinjar ci sono solo macerie, polvere, bombe e distruzione. Non c’è un piano di ricostruzione, le ONG sono tutte qui in Kurdistan. Chi riporterà i servizi nelle città, chi ricostruirà le nostre case?”.

K. ha paura anche perché “se non viene liberata anche Mosul tutto questo rumore non servirà a nulla, perché saremo nella trappola dei fanatici musulmani”.

Inoltre, K. non nasconde il desiderio di vendetta che circola, neanche troppo velatamente, tra la comunità ezida nei confronti di quella musulmana. “Il genocidio nei nostri confronti non può rimanere impunito”.

Y., curdo, vive a Duhok da vent’anni, ma una parte di vita l’ha sempre spesa a Sinjar. La sua famiglia ha vissuto lì fino all’agosto 2014, e lui la visitava spesso, dopo averla lasciata quando era giovane. Da allora non vi tornava, e due settimane fa ha voluto toccare con mano cosa rimaneva dei suoi ricordi.

“Mi mancava troppo, e sono crollato emotivamente quando ho visto che della casa in cui sono cresciuto è rimasta intatta solo qualche mattonella.”

Racconta con il nodo in gola e gli occhi lucidi, ma ha voglia di farlo, dice. “Non si sa nulla di quanto succede lì, e non so cosa possa succedere ora”.

Dopo la liberazione della città l’accesso ai civili, compresi i media, è stato più flessibile, ma per ragioni di sicurezza si può entrare solo accompagnati dai peshmerga o dalle forze di sicurezza, gli assahij. Y. ha un nipote volontario tra le file dei primi, e così ha deciso di andare Sinjar.

Oltre questa condizione ce n’è un’altra: non parlare arabo“.

A Sinjar, racconta Y.,“ci sono macerie ovunque, tre quarti della città sono in queste condizioni. Dinamiti, bombe e mine possono essere dappertutto, non ci si può muovere facilmente. Anche perché ora c’è una divisione netta in 4 parti: ognuna sotto il controllo di peshmerga, YPG, PKK o delle milizie ezide”.

Cosa fanno, in che modo si relazionano? “Aspettano, si lavora per ripulire la città dagli esplosivi, si scava sotto le macerie e si scoprono fosse comuni”.

Y., musulmano, non ci vuole credere, ma ha paura del clima di vendetta che si respira tra gli ezidi riguardo il ritorno a Sinjar. La sua visita alla città è stata un’occasione per rivedere anche alcuni suoi vicini di casa, ezidi. Si sono salutati, hanno visitato il quartiere insieme, si sono abbracciati e hanno condiviso la speranza di un ritorno alla normalità.

“Ma non prima di 5 anni, almeno. La mia famiglia è sempre stata in ottimi rapporti con ezidi, cristiani e shabak, e per secoli a Sinjar le diverse comunità hanno vissuto in pace. Ma dopo Daesh sembra esserci solo odio e violenza.”

T. concorda, scuotendo la testa. Quando parla di “gente che non è non libera di parlare o di mettere un ‘like’”, si riferisce a quanto ha raccolto dalle persone nel campo di Chamishku, a Zakho, e nell’insediamento informale di Khanke, antistante l’omonimo campo. “Alcune persone sono state interrogate dagli assahij senza preavviso per aver messo un like ad una pagina o a un post su Facebook che a loro non piaceva. Si sentono doppiamente traditi dai curdi, non vedono altra speranza se non quella di fuggire in Europa”.

Ancor più gravi sono i racconti che T. riporta di alcune persone minacciate perché “alcuni membri della famiglia, tra i monti del Sinjar, si sono arruolati o hanno connessioni con YPG e PKK”.

“Se volete tornare a Sinjar in questo modo”, gli assahij hanno detto, “è meglio che vi troviate un’altra casa in Turchia”.

T., che aveva lasciato Khanke per la città di Duhok, per poi tornarvi perché la riteneva più sicura, si é ricreduto dopo questi racconti, e dopo aver visto con i propri occhi rimuovere alcune scritte inneggianti a Daesh. Difficile capire cosa ci sia dietro, ma diversi residenti di Khanke hanno raccontato ad Osservatorio Iraq che gli autori sarebbero dei curdi della vicina città di Semel, come atto per spaventare gli ezidi di Khanke.

In particolare, l’obiettivo da intimorire sarebbe la comunità di Qaposi, villaggio a sud-est di Sinjar, dove c’è stata di recente una rivolta della popolazione locale contro i peshmerga, rei di non aver combattuto contro Daesh, e addirittura di aver facilitato l’accesso di alcuni islamisti in Kurdistan*.

T. non sa più cosa pensare. “Se vuoi capire cosa succede qui in Iraq, chiedi alla gente se si fidano ancora di qualcuno. Avrai la risposta”.

 

Fatti relativi agli scontri di Qaposi sono stati riportati anche dal quotidiano britannico Telegraph. Le foto sono di Y., scattate a Sinjar durante la sua visita.

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