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27 ott 2015

 

Hotovely: “Il mio sogno è sventolare la bandiera israeliana sul Monte del Tempio”

di Roberto Prinzi

 

La dichiarazione della vice ministra israeliana mostra il doppio binario su cui viaggia il governo Netanyahu: alle rassicurazioni del premier alla comunità internazionale per il mantenimento dello status quo sulla Spianata delle moschee, si contrappone l’anima più vera dell’esecutivo israeliano che è contraria a qualunque compromesso con i palestinesi

 

Roma, 27 ottobre 2015, Nena News – Si potrà dire e scrivere di tutto sulla vice ministra degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely tranne che non sia sincera. Ieri la parlamentare del Likud (il partito del premier Netanyahu) ha dichiarato che il suo “sogno è vedere sventolare la bandiera israeliana sul Monte del Tempio [Spianata delle moschee per i palestinesi, ndr]. Una affermazione da non sottovalutare soprattutto nelle ore in cui il primo ministro prova a tranquillizzare la comunità internazionale affermando di voler mantenere lo status quo sul sito religioso. “Penso che [il monte del Tempio] sia il centro della sovranità israeliana, il luogo più sacro per il popolo ebraico” ha detto la vice ministra intervistata dal canale del parlamento israeliano. “Se dovessi dire al premier cosa sia giusto [fare], [direi che] non trovo assolutamente appropriato vedere le bandiere dello Stato islamico e di Hamas lì. E’ una disgrazia” ha aggiunto.

Sarebbe da ingenui considerare la sua dichiarazione come una “gaffe” o come una “voce fuori dal coro”. Le sue parole, infatti, mostrano i due piani su cui si muove l’esecutivo di estrema destra israeliano: se da un lato Netanyahu, per l’importanza istituzionale che ha, deve vestire i panni del moderato (a dire il vero con risultati modesti) con la comunità internazionale mostrandosi dialogante e favorevole al negoziato, dall’altro sono i ministri ad avere il compito di esprimere la vera natura del suo governo. Molti commentatori tendono spesso ad affermare che l’estremismo dell’attuale esecutivo è relegato a Casa ebraica (“il partito dei coloni”) dimenticando, però, che parlamentari come Hotovely, Danon, Levin, ad esempio, noti per essere assolutamente contrari a qualunque stato palestinese, provengano proprio dalle file del Likud, la compagine politica del premier.

All’interno di questo quadro di riferimento, va da sé che le dichiarazioni di Hotovely devono essere lette come assolutamente normali, quasi scontate, e frutto di un pensiero politico ampiamente condiviso nella maggioranza governativa. Da quando è stata scelta lo scorso marzo a rivestire la prestigiosa carica istituzionale, la parlamentare è passata alle cronache in più circostanze per la sua netta chiusura nei confronti dei palestinesi. Secondo Hotovely, agli “arabi” non va assolutamente consentito di fondare uno stato e la “Giudea e la Samaria” [i territori occupati cisgiordani, ndr] dovrebbero essere annessi da Israele senza se e senza ma. Le sue argomentazioni politiche, sostenute da richiami a passaggi biblici, sono lo specchio del cambiamento in atto ormai da anni all’interno della società israeliana dove le voci laiche vanno sempre più ad affievolirsi di fronte alle grida, spesso sguaite, di rappresentati politici (non solo di destra) che strumentalizzano la religione ebraica per giustificare la loro contrarietà a qualunque compromesso storico con i palestinesi.

In questo contesto, Hotovely è forse la migliore rappresentante del mutamento in corso nella società ebraica d’Israele. E’ la cartina al tornasole attraverso cui leggere i cambiamenti accaduti post Oslo e la deriva sempre più religiosa che il conflitto con i palestinesi sta assumendo. Negli ultimi anni la vice ministra ha più volte “pubblicamente visitato” (secondo il linguaggio israeliano) la Spianata delle Moschee accompagnata da diversi colleghi di estrema destra ribadendo la sua contrarietà alla presenza di osservatori internazionali nel luogo santo perché, a suo dire, violerebbero la sovranità israeliana.

Le parole di ieri di Hotovely hanno suscitato subito polemiche nel Paese destando in alcuni (palestinesi) timori che lo status quo sul terzo luogo sacro dell’Islam possa essere modificato da Tel Aviv. A provare a calmare gli animi e a spegnare sul nascere una eventuale ramanzina da Washington o Bruxelles, ci ha pensato , come sempre avviene in questi casi, il primo ministro. Ieri in una nota rilasciata dal suo ufficio, il premier ha affermato che “niente è cambiato” e che, pertanto, “i membri del governo devono agire secondo le direttive del governo”. Che tradotto vuol dire: mantenere lo status quo. Richiesta che Hotovely ha subito accettato. Le sue, ha detto poche ore dopo aver rivelato il suo sogno proibito, erano solo “opinioni personali che non rispiecchiano la politica del governo” chiarendo che “è impegnata a rispettare quanto ha detto il premier sullo status quo”.

E mentre l’esecutivo ha taciuto (acconsentendo) alle parole della vice ministra israeliana, timidamente si sono fatti sentire gli oppositori (più presunti che reali) del Campo sionista. “La messianica Hotovely continua ad infiammare l’intero Medio Oriente” ha attaccato duramente Yoel Hasson. “Ogni tanto esorta a sventolare la bandiera israeliana sul Monte del Tempio, come se già la situazione non fosse di per sé esplosiva” ha aggiunto chiedendo le sue dimissioni. Hasson farebbe bene però a non esporsi così tanto: se dovessero andare, infatti, in porto i negoziati sottobanco che da tempo vanno avanti tra il suo partito e il premier, il Campo sionista potrebbe ritrovarsi nella coalizione di destra e, di conseguenza, Hotovely sarebbe un’alleata. Iniziare con il piede sbagliato una eventuale partnership governativa non converrebbe né a Netanyahu, né all’impacciato leader di Campo sionista Hertzog.

Intanto, intervistato domenica dal Canale 2 israeliano, il Gran Mufti di Gerusalemme shaykh Mohammed Hussein ha alimentato il clima di tensione.  Secondo il religioso, infatti, non è mai esistito un tempio ebraico sulla Spianata delle Moschee perché “la Moschea al-Aqsa è una moschea islamica sin da quando il mondo è stato creato e non è stata nient’altro che questo”. Shaykh Hussein è stato eletto mufti dal presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas nel 2006. Le sue dichiarazioni, inopportune soprattutto considerando l’alta tensione nei Territori occupati palestinesi, sono un regalo gradito per tutti coloro che, a partire dal premier, screditano Abbas ritenendolo l'”istigatore delle violenze” di questo mese. Ma l’attacco a Ramallah è solo il primo passo di una offensiva di più ampia portata che vede nell’intero popolo palestinese tout court, e non solo in un anziano leader rinunciatario, dei “seminatori d’odio”. Nena News