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25 lug 2015

 

Colonie israeliane, l’Unione europea vuole superare lo status quo

di Rosa Schiano

 

L’Ue, scrivono gli esperti del Consiglio Affari Esteri dell’Unione, deve agire ulteriormente e più velocemente per garantire che gli insediamenti israeliani non traggano in alcun modo benefici dai rapporti bilaterali con lo Stato ebraico

 

Roma, 25 luglio 2015, Nena News –

 

Proseguendo sulla strada intrapresa con la pubblicazione delle linee guida della Ue che prevedono l’etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dalle colonie in Cisgiordania, mercoledi il Consiglio Affari Esteri della UE ha pubblicato un documento sulla politica di differenziazione descritta come uno degli strumenti più adatti a contrastare il mantenimento dello status quo voluto da Tel Aviv, a preservare la possibilità di una soluzione due popoli due stati ed aiutare a creare le condizioni per una ripresa dei negoziati.

Secondo il documento, i capi europei dovrebbero difendere tale politica di differenziazione dai tentativi della classe politica israeliana di rappresentare erroneamente le azioni della UE come boicottaggio di Israele. La differenziazione infatti, specifica il documento, non mira ad isolare Israele ma intensificare i legami tra l’UE e lo stato ebraico e allo stesso tempo rispettare i propri obblighi legali. Legami che sono storicamente forti, si afferma nel documento, così come forte è la convinzione europea sulla soluzione del conflitto basata sui due Stati. Allo stesso tempo, il testo sottolinea che l’UE ed i suoi Stati membri, come il resto della comunità internazionale, non riconoscono alcuna sovranità israeliana, legale o de facto, sui Territori Palestinesi Occupati. Si tratta di un dovere di non riconoscimento basato sul diritto internazionale, e risultante nell’ obbligo legale di differenziare chiaramente tra Israele e le sue attività al di fuori della Linea Verde (la “Green Line”, facendo riferimento ai confini Israeliani entro le linee del 1967) nell’ambito delle relazioni bilaterali. Le attività israeliane al di fuori delle linee del 1967 che delimitano l’area di giurisdizione territoriale israeliana e che sono considerate la base per un futuro accordo di pace basato sui due Stati non possono quindi essere parte dei rapporti bilaterali EU–Israele. Lo stesso sistema di controllo israeliano all’interno dei Territori Palestinesi Occupati risulta essere incompatibile con una futura soluzione dei due Stati.

Tra gli esempi di questa nascente politica di differenziazione, nel luglio 2013, la pubblicazione da parte della Commissione Europea delle linee guida sui finanziamenti dell’Unione Europea e i requisiti sulla partecipazione di Israele a Horizon 2020, il programma europeo di ricerca e sviluppo, anche se, si afferma nel documento, la politica di differenziazione non è stata sufficientemente compresa o implementata.

La condanna europea degli insediamenti e delle violazioni del diritto internazionale nei Territori Palestinesi Occupati è stata ampiamente ignorata dai governi israeliani con il passare degli anni. Alcuni politici israeliani hanno addirittura equiparato la differenziazione ad una manifestazione di antisemitismo europeo che cerca di delegittimare Israele. Secondo gli esperti europei, consentendo a Israele di definire negativamente la politica di differenziazione, l’Europa perde l’opportunità di chiarire che essa non è una misura discriminatoria ma la conseguenza legale dei tentativi israeliani di includere gli insediamenti illegali nei rapporti economici con l’Europa.

Il documento quindi intende evidenziare cosa fino ad ora è stato fatto in tema di differenziazione e quali passi possono ancora essere fatti per applicarla in maniera più coerente.Con riferimento ai legami con l’Europa, il documento specifica che Israele ha ricevuto 13.5 millioni di dollari tra il 2007 e il 2013 come parte dell’ European Neighbourhood and Partnership Instrument (ENPI), il principale strumento finanziario europeo per sostenere programmi di cooperazione allo sviluppo con i paesi vicini mentre sarebbero 900 milioni di dollari i fondi per la ricerca che Israele dovrebbe ricevere nell’ambito di Horizon 2020.

Il governo israeliano tuttavia ha finora continuato a estendere i propri insediamenti coloniali e connetterli allo Stato ebraico: una rete di strade solo per israeliani attraverso la Cisgiordania collega gli insediamenti israeliani con Israele e tra di essi attraversando i popolati centri palestinesi. Gli insediamenti, nel frattempo, sono completamente integrati nella rete elettrica nazionale israeliana, mentre i coloni comunicano usando usando i servizi e le infrastrutture, incluso installazioni come le antenne, delle quattro principali compagnie di telecomunicazione sono israeliane. Gli insediamenti occupano quindi un ruolo all’interno società israeliana come ogni altra città all’interno della Linea Verde, afferma il documento. La colonia di Ariel, per esempio, ospita una delle otto università israeliane. Ancora, cinque squadre di calcio delle colonie (Ma’aleh Adumim, Ariel,Kiryat Arba, Bik’at Hayarden, e Givat Ze’ev) attualmente giocano nel campionato nazionale israeliano, che è membro della UEFA. Ad una prima occhiata, si legge nel testo, gli insediamenti contribuiscono solo al 4% del PIL e a meno dell’1% delle esportazioni israeliane verso la UE (circa 230 milioni di dollari).Tuttavia essi sono una componente cruciale dell’attuale sistema dell’occupazione e controllo della Cisgiordania e ostacolano la creazione di uno Stato palestinese.

Gli Accordi di Oslo del 1995 e gli accordi che ne sono conseguiti alla fine degli anni ’90 hanno diviso il territorio della Cisgiordania in tre aree: l’Area A (17.2%), sotto il controllo dell’Autorita Palestinese, l’ Area B (23.8%), sotto il controllo congiunto dell’amministrazione civile palestinese e sicurezza israeliana e palestinese, ed Area C (59%), sotto completo controllo israeliano. Il controllo che Israele esercita sull’Area C consente allo Stato ebraico accesso esclusivo a importanti risorse naturali della Cisgiordania, incluso le falde acquifere. Agli imprenditori palestinesi ed alle aziende agricole è impedito l’accesso a queste risorse. Inoltre , continua il documento, in quanto potenza occupante Israele non può ricavarealcun beneficio economico o finanziario dai territori occupati, come previsto dal diritto internazionale incluso dalla Corte Internazionale di Giustizia, e dalla Corte Europea di Giustizia, una posizione condivisa altresì dagli Usa e da ogni altro paese al mondo ad eccezione di Israele.

 

Il documento riporta che, a partire dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi nel 1967, ogni governo di Tel Aviv ha continuato a promuovere la costruzione di insediamenti. Sotto il primo ministro Netanyahu dal 2009, la spesa sugli insediamenti è salita di un terzo. Allo stesso tempo, gli insediamenti godono di investimenti economici preferenziali incluso indennità fiscali. Anche i ministeri dell’agricoltura e del turismo hanno incoraggiato gli imprenditori a operare dentro il territorio della Cisgiordania e a sviluppare al suo interno progetti agricoli. Gli esperti europei affermano che nulla di ciò sarebbe possibile senza il ruolo delle banche israeliane come Bank Hapoalim, Bank Leumi, e Bank Mizrahi Tefahot, che forniscono ipoteche per le abitazioni dei coloni e finanziano le imprese per la costruzione di infrastrutture per gli stessi insediamenti, come la Jerusalem Light Rail, un treno che ha lo scopo di connettere piu saldamente gli insediamenti a Israele.

Il documento riferisce che l’Unione Europea è obbligata ad assicurare la coerente applicazione della legislazione sulla protezione del consumatore e l’etichettatura dei prodotti per permettere ai consumatori europei di fare una scelta consapevole nell’acquisto dei prodotti, incluso quelli israeliani o degli insediamenti. Tuttavia l’emanazione delle linee guida europee è stata ripetutamente rinviata in primo luogo per “considerazioni politiche” non volendo interferire nei negoziati di pace israelo-palestinesi o nelle elezioni israeliane. In assenza di qualsiasi processo diplomatico, e con l’inserimento del nuovo governo israeliano, la possibilità di emanare le linee guida per l’etichettatura si è da poco nuovamente avvicinata. Nel frattempo alcuni Stati membri hanno perseguito la propria politica nazionale in tema di etichettature: finora, il Regno Unito (2009), la Danimarca (2012) ed il Belgio (2014) hanno introdotto le proprie linee guida nazionali. Inoltre, sedici Stati membri UE, incluso i tre citati, lo scorso mese di aprile hanno pubblicamente sostenuto l’introduzione di linee guida europee sulla questione (i paesi sono Francia, Inghilterra, Spagna, Italia, Belgio, Svezia, Malta, Austria, Irlanda, Portogallo, Slovenia, Ungheria, Finlandia, Danimarca, Olanda, Lussemburgo). Diciassette Stati membri UE hanno anche emanato avvisi sulle conseguenze legali e finanziarie alle quali potrebbero far fronte in caso di rapporti commerciali con enti legati all’occupazione israeliana. E così nel 2014 l’olandese PGGM, tra i principali gestori di fondi pensione in Europa, ha venduto le azioni di 5 istituti di credito israeliani decidendo quindi di tagliare i rapporti con queste banche perché hanno filiali in Cisgiordania e “finanziano gli insediamenti coloniali nei territori palestinesi occupati”, si legge nel comunicato pubblicato dal fondo pensioni. Alla mossa olandese ha fatto seguito quella del fondo pensione statale del Lussemburgo FDC che ha escluso nove grandi banche e imprese israeliane a causa del loro coinvolgimento negli insediamenti israeliani e nelle violazioni dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. In Danimarca, Danske Bank ha messo in lista nera la più grande banca israeliana, Hapoalim, a causa del suo coinvolgimento nel finanziare la costruzione di colonie: sul proprio sito si legge che Bank Hapoalim è coinvolta in attività in conflitto con il diritto umanitario internazionale. Ancor più significativa la decisione di KLP Kapitalforvaltning, la maggior compagnia assicurativa norvegese, che ha interrotto i rapporti con le due maggiori compagnie internazionali di materiale da costruzione proprietarie di sussidiarie che operano nell’ Area C della Cisgiordania. Sul sito della compagnia si legge che “KLP esclude le compagnie Heidelberg Cement e Cemex poiché sfruttano risorse naturali nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania. Per KLP, questa attività costituisce un inaccettabile rischio di violazione delle fondamentali norme etiche”. Lo sfruttamento di risorse naturali nei territori palestinesi occupati favorisce il prolungamento del conflitto, secondo la compagnia KLP.

Secondo il documento degli Affari Esteri, inoltre, un’effettiva politica di differenziazione potrebbe favorire l’apertura di un dibattito all’interno della stessa società israeliana sulla sostenibilità dello status quo nei Territori Palestinesi Occupati ed i suoi effetti sui rapporti di Israele con l’Europa.

Tornando al ruolo delle banche israeliane, il documento sostiene che esse giocano quindi un ruolo cruciale nel finanziare il trasferimento di terra, la costruzione e le attività commerciali che sostengono gli insediamenti. Attraverso le transazioni bancarie con le banche israeliane e le società multinazionali attive nei Territori Palestinesi Occupati, le banche europee potrebbero infatti accrescere il capitale diretto a investimenti e attività negli insediamenti israeliani. Come chiarito dalla Commissione Europea nelle sue linee guida, i finanziamenti europei non dovrebbero essere diretti a enti israeliani operanti nei Territori Palestinesi Occupati. Secondo il Consiglio degli Affari Esteri, la Commissione Europea e i governi degli Stati membri dovrebbero quindi chiedersi se l’Unione Europea e i suoi stati membri possano permettersi di fornire fondi a banche europee senza accertarsi che tali fondi non siano diretti alla struttura del capitale di tali enti israeliani, e quindi, che le operazioni quotidiane tra banche europee e israeliane rispettino i requisiti UE di non fornire sostegno materiale all’occupazione. E ancora, dovrebbero chiedersi se le filiali europee delle banche israeliane possano essere autorizzate a accumulare depositi e attirare investimenti nell’UE senza garantire che i ricavi di queste operazioni non siano diretti agli insediamenti o usati per finanziare attività che contravvengono al diritto internazionale e sono illegittime secondo il diritto dell’Unione Europea. In generale, se gli investimenti in compagnie e istituzioni israeliane rispettino i requisiti della differenziazione dell’ Unione Europea tra enti israeliani dentro i confini del 1967 e quelli all’interno dei Territori Palestinesi Occupati.

Un’altra questione posta dagli esperti riguarda la validità di documenti legali e certificati prodotti all’interno degli insediamenti coloniali. Infatti, il non riconoscimento degli insediamenti implica anche il non riconoscimento degli enti ed istituzioni israeliane all’interno dei Territori Palestinesi Occupati e i loro atti. Quindi la Commissione Europea e gli Stati membri dovrebbero all’interno delle rispettive giurisdizioni rivedere la validità di certificati emanati da enti israeliani situati nei Territori Palestinesi Occupati. Ad esempio esse dovrebbero valutare se le istituzioni europee e i datori di lavoro debbano riconoscere i certificati di titoli di studio emanati da enti situati all’interno degli insediamenti, come ad esempio l’università Ariel. Allo stesso modo dovrebbero valutare se gli atti di proprietà realizzati da autorità israeliane in Cisgiordania e internazionalmente considerati illegittimi possano essere considerati validi dentro la UE e Stati membri.

Con riferimento a Gerusalemme est, il documento afferma che l’Unione Europea come il resto del mondo non riconosce la sua annessione e considera illegali gli insediamenti israeliani in quella parte della città. Ne consegue che la politica di differenziazione richiede a UE e Stati membri di evitare di riconoscere o cooperare con istituzioni, organizzazioni o compagnie israeliane nella parte occupata della città, incluso i ministeri della giustizia e della costruzione.

Il documento degli Affari Esteri affronta anche la questione dei cittadini che hanno doppia residenza in Israele ed Unione Europea e che vivono negli insediamenti. Molti cittadini israeliani infatti hanno un passaporto europeo, sia perché nati in Europa ed emigrati in Israele, sia perché la legge consente loro di chiedere un passaporto europeo in virtù di precedenti legami familiari. In questo senso, il documento propone alcune questioni in tema di riconoscimento, per esempio con riferimento alle transazioni che richiedono un attestato di residenza in Israele. Essenzialmente, la questione è come le autorità europee possano riconoscere un attestato di residenza in un insediamento, come esse possano riconoscere lo status di cittadino israeliano residente all’interno dei Territori Palestinesi Occupati. Nena News