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13 aprile 2015

 

Quarant’anni di amnesia

di Giorgia Grifoni

 

 

Nell’anniversario dello scoppio della guerra civile, torna a farsi spazio la questione dei desaparecidos libanesi. Tra famiglie che vogliono la verità e il governo che insabbia ogni tentativo di portare alla luce il destino dei suoi 17 mila figli inghiottiti nel nulla, la storia di un Paese che non vuole fare i conti con il proprio passato

 

Roma, 13 aprile 2015, Nena News –

 

Quarant’anni fa scoppiava la guerra civile libanese. Oggi, dopo 15 anni di combattimenti, oltre 150 mila morti e la riabilitazione dei signori della guerra, circa 17 mila persone risultano ancora “scomparse”. Uomini e donne, ma soprattutto mariti, padri e figli che erano usciti di casa per cercare del cibo mentre fuori infuriavano i combattimenti o che erano stati arrestati durante i rastrellamenti casa per casa. E che non sono mai più tornati. Nel quarantesimo anniversario dello scoppio del conflitto, i loro cari continuano a tenere viva la memoria dei desaparecidos, consci del fatto che non riceveranno alcun aiuto dal governo libanese.

Le storie che sfilano oggi, come ogni 13 aprile, sulla stampa araba, sono sempre le stesse: voci di mogli che chiedono giustizia, di anziane madri che, accampate al sit-in permanente allestito 10 anni fa davanti agli uffici Onu del centro di Beirut, sollevano cartelli con le foto dei loro figli scomparsi. Cori di organizzazioni non governative e associazioni di vittime che puntano il dito contro il governo, reo di aver calato il silenzio sui fatti della guerra civile e di aver voltato pagina così velocemente da dare l’impressione che il conflitto sia avvenuto su un altro pianeta.

E’ l’intero Parlamento del Paese dei Cedri a essere additato e accusato di aver abbandonato i propri cittadini. Lì, infatti, siedono fianco a fianco i capi delle milizie responsabili dei sequestri che una legge del 1991 ha amnistiato e avviato verso una brillante carriera politica. Un precario equilibrio tra fazioni nemiche-amiche pronto a esplodere in qualsiasi momento: dagli scontri del maggio 2008 alle tensioni per la vicina guerra siriana, ogni minimo sibilo di accuse reciproche rischia di infiammare il Paese dei Cedri. Figurarsi rendere pubblico l’elenco dei sequestri per mano di questa o quella milizia nel 1982, dare istruzioni sul luogo delle fosse comuni e ammettere che, un tempo, chi ora siede al proprio fianco nell’emiciclo, tentò di assassinarlo a più riprese.

Le organizzazioni internazionali la chiamano “amnesia collettiva”: “Bisogna ricordare che i principali responsabili delle decisioni in questo paese – ha spiegato ad al-Jazeera Justine di Mayo Houry, direttrice dell’ong ACT che si occupa dei desaparecidos – sono tutti responsabili per le uccisioni, perché erano quelli incaricati delle milizie al momento. Essi adottano una politica di “amnesia” quando si tratta di affrontare la guerra civile. Hanno paura di aprire vecchie ferite o riaccendere le tensioni”.

La volontà di non riaprire le ferite ha portato l’esecutivo di Beirut a sacrificare i propri figli con delle azioni discutibili: fino al 2005, complice l’occupazione trentennale del Paese dei Cedri da parte della Siria – nelle cui carceri c’erano centinaia di libanesi di cui si ha notizia fino allo scoppio della guerra nel 2011 – l’esecutivo ha addirittura negato l’esistenza di persone scomparse liquidandole come morte. Con una legge approvata nel 1995, infatti, il governo stabiliva che trascorsi quattro anni una persona scomparsa può essere considerata deceduta. Nel 2000, invece, sotto la pressione degli attivisti, Beirut aveva creato una commissione d’inchiesta che, dopo sei mesi di “ricerche” e due paginette di rapporto aveva ammesso la presenza di fosse comuni nella capitale, guardandosi bene dal dare informazioni più specifiche in merito.

Nel 2001 il governo aveva poi provato a istituire un’altra commissione d’inchiesta, incaricata di investigare sui libanesi nelle carceri siriane: Damasco aveva però rifiutato la questione, negando ogni coinvolgimento nonostante la presenza di prigionieri libanesi, come testimonia il portale Middle East Online, in numerosi rilasci tra il 1976 e il 2000. Nel 2005, dopo il ritiro delle truppe di Damasco, Beirut aveva proposto una commissione congiunta con le autorità dell’ex occupante: le famiglie avevano stilato una lista completa dei propri cari scomparsi, ma la questione era morta lì per il rifiuto dei siriani a collaborare.

L’aiuto alle famiglie impegnate nella ricerca della verità arriva principalmente dalla Croce Rossa Internazionale, che dal 2012 tiene un database accurato contenente le informazioni sui vari sequestri. La Croce Rossa sta lottando per far approvare alle autorità libanesi la pratica del prelievo della saliva dei parenti degli scomparsi per usarlo in futuro in possibili analisi del DNA. E, sebbene lo scorso anno il Consiglio della Shura abbia approvato una sentenza storica che ha riconosciuto “il diritto di sapere” alle famiglie degli scomparsi, quando queste hanno avuto poi accesso ai faldoni della Commissione di inchiesta istituita nel 2000 non hanno trovato nulla che già non sapessero.

L’International Center for Transitional Justice (ICTJ), una ong libanese che da anni fornisce assistenza alle famiglie dei desaparecidos, giura che una proposta di disegno di legge redatta assieme ai parenti delle vittime per una commissione di inchiesta che includa forze di polizia, archeologi e antropologi è in Parlamento in attesa di essere approvata. Ma, visti i precedenti, è altamente improbabile che riesca a passare. Tra le madri di Beirut, però, il coro è sempre lo stesso: “Non vogliamo mandare in prigione i leader politici. Vogliamo solo la verità per riconciliarci con il passato”. Nena News

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