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6 maggio 2015

 

Yemen, l’ombra di un nuovo Iraq

di Veronica Murzio

 

L’Arabia Saudita è uno dei Paesi che più hanno influenzato lo Yemen, nel bene e nel male. Le sue decisioni politiche, nel recente passato in particolare, la rendono corresponsabile della situazione attuale. 

 

DAL PRINCIPIO AD OGGI – Secondo un articolo pubblicato nel lontano 1898 dal New York Tribune, “l’ordine in Yemen sarebbe arrivato solo dall’estero” e “solo con la conquista straniera lo Yemen avrebbe conosciuto una vera pace”. Questo era falso allora e lo è anche oggi. Dopo un mese di bombardamenti, gli obiettivi della Coalizione Saudita, quali il ritiro degli Houthi da Aden e il ritorno del presidente Hadi a Sana’a, non sono stati raggiunti. Il risultato più evidente che si è conseguito è la distruzione d’infrastrutture civili e la morte di più di mille persone. Il rapporto trionfalistico con cui i Sauditi affermavano il raggiungimento degli scopi che si erano prefissi indica secondo alcuni il vero scopo dell’intera operazione, ovvero assicurare la sicurezza del Regno.

Secondo molti yemeniti, anche quelli non legati ai ribelli Houthi,  il fine di ogni azione saudita è sempre stato quello di tenere lo Yemen debole e dipendente alla mercé del ricco e potente vicino.

 

LE INTERFERENZE – Sia chiaro, la situazione yemenita non ha come unica causa l’intromissione straniera, ma l’influenza, in particolar modo economica e politica, saudita ha peggiorato problematiche preesistenti.

L’influenza politica saudita può essere considerata una delle principali cause della caduta del governo Hadi. Quando nel 2011, con l’inizio delle proteste nella capitale yemenita, il potere di Saleh cominciò a vacillare fu il GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo) con a capo l’Arabia Saudita a intervenire con una strategia che preferì la stabilità al cambiamento. Il patto, oltre a concedere la completa immunità sia a Saleh sia alla sua famiglia permettendogli di rimanere nel Paese, fu sottoscritto esclusivamente dal gotha governativo senza tenere in debita considerazione gli altri attori politici (all’opposizione) quali gli Houthi, il movimento di protesta di Sana’a e l’Hirak (movimento per l’indipendenza del Sud). Il passaggio di potere a Hadi, fino ad allora vicepresidente, fu interpretato dalle forze di opposizione yemenite come una nuova imposizione, in quanto l’elezione con un unico candidato, stabilito all’estero, aveva ben poco della maggiore rappresentatività/rappresentanza che veniva richiesta a gran voce. La presenza del clan di Saleh nel Paese, inoltre, ha indebolito l’abilità del nuovo Presidente di portare avanti le riforme a causa di continue interferenze. Questo ha spianato la strada all’occupazione da parte degli Houthi della capitale in nome di un vero cambiamento.

 

CONSEGUENZE – La reazione Saudita a quest’ultimo sviluppo, cioè l’accusa all’Iran d’interferenze negli affari interni yemeniti mentre proseguivano i raid aerei, ha portato a una nuova destabilizzazione del Paese. Inoltre, l’indifferenza dimostrata verso le vittime tra la popolazione e la distruzione mirata di obiettivi civili ha provocato malumori all’interno della coalizione: Egitto e Pakistan, che avrebbero dovuto fornire truppe di terra, si sono tirati indietro –  le truppe che domenica pare abbiano preso parte ai combattimenti ad Aden sono Sudanesi e anche il Senegal ha confermato l’invio di 2100 uomini- mentre un membro del parlamento Kuwaitiano, dopo aver condannato pubblicamente gli attacchi aerei, è stato denunciato per aver “insultato il Regno Saudita”.

Altro punto critico è l’attacco verso l’Arabia Saudita dell’ex-inviato per lo Yemen, Jamal Benomar, che nel suo ultimo rapporto ha affermato che all’inizio dei bombardamenti si era sul punto di raggiungere un accordo e che almeno due altri Paesi arabi quali Qatar – che godeva della fiducia yemenita – e Marocco si erano offerti come sede per la ripresa dei negoziati. Come prevedibile, tutto è andato in fumo con l’inizio degli scontri. La situazione attuale avvicina sempre di più lo Yemen agli scenari iracheno e afghano, Paesi che hanno ricevuto in eredità dagli interventi esterni una frammentazione politica strutturale. Nello specifico, episodi come la presa di Mukalla da parte di gruppi legati ad AQAP che hanno fatto man bassa di armi e saccheggiato le banche, ricordano per molti aspetti la presa di Mosul e l’inizio dell’ascesa dell’ISIS in Iraq.

 

LE OMBRE SUL FUTURO – A questo punto, la fine dei bombardamenti e il ritiro delle truppe non produrrebbero molti effetti: i combattenti (Houthi, Hirak e tribù sunnite) non deporranno semplicemente le armi. L’Esercito yemenita, diviso tra i fedeli di Saleh e di Hadi e provato dalle perdite causate da raid aerei e dai gruppi jihadisti, non è in condizione di combattere efficacemente. Manca, inoltre, un Governo legittimo che potrebbe appellarsi all’unità: nonostante quanto concordato con il GCC (un Governo ad interim con scadenza biennale, fino a fine Febbraio 2014), quando Hadi si rifugiò ad Aden il suo mandato era finito da 11 mesi. Inoltre, agli occhi degli yemeniti, qualunque legittimità avesse è finita nel momento in cui è apparso in pubblico e ha ringraziato i Sauditi per aver bombardato i propri concittadini. Molti analisti concordano che, affinché i negoziati possano riprendere, Hadi dovrà farsi da parte: a questo si oppone l’Arabia Saudita, che perderebbe così la sua principale pedina.

Quando e come una trattativa potrà ripartire dipenderà da due fattori: la pressione estera guidata da Stati Uniti e Russia e i timori dei Paesi del Golfo (ad esempio l’adiacente Oman) di ritrovarsi con uno scenario simil-Iracheno prossimo ai loro confini. A ciò si aggiungono gli effetti della “rivolta” di palazzo occorsa in questi giorni a Riyadh, dove terzo in linea di successione è ora Muhammad bin Salman, figlio del sovrano e fautore dell’attuale politica in Yemen. Tale promozione fa pensare che il suo approccio non verrà sconfessato nel breve termine. A meno che la guerra sul campo non prenda una piega negativa lungo il confine meridionale del Regno – oltre che ad Aden – dove le incursioni Houthi oltre il confine sono già iniziate.

Nel complesso, la situazione sta peggiorando ulteriormente. Per la popolazione yemenita ridotta alla fame ma anche per l’Arabia Saudita, che pur vincendo ogni battaglia rischia di perdere la guerra. L’approccio attuale, che fa affidamento quasi esclusivamente su rapporti di forza, si sta rivelando inadeguato a stabilizzare il Paese. Piuttosto, il suo operato acuisce le fratture e le disparità che già caratterizzavano il contesto socio-politico yemenita. Di questo passo Riyadh si ritroverà presto a gestire un nuovo Iraq lungo la sua frontiera.

 

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