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Venerdì 11 dicembre 2015

 

Razzisti di razza

di Marco Aime

 

Il Premio Nobel per la Medicina del 1965, François Jacob, disse: «Il concetto di razza non solo ha perso ogni valore operativo, ma ormai non serve altro che a paralizzare la nostra visione di una realtà in continuo movimento; il meccanismo della trasmissione della vita è tale che ogni individuo è unico, che gli individui non possono essere classificati secondo un ordine gerarchico, che l’unica ricchezza possibile è collettiva: è fatta di diversità. Tutto il resto è ideologia».

Sarebbe bello poter parlare della razza e soprattutto del razzismo al passato, pensare che dopo tanti danni fosse un concetto archiviato nei polverosi scaffali della storia; purtroppo non è così. Se la razza è stata messa alla porta dalla scienza, il razzismo no. Non è sufficiente convincere la gente che la razza è un concetto irrilevante e incoerente, perché il razzismo scompaia.

Il rapporto tra razza e razzismo, infatti, non è lo stesso che corre tra materia e materialismo o idee e idealismo. In questi casi tendiamo a pensare i primi termini come radici e i secondi come derivati. Nel caso del razzismo il rapporto si inverte: è il razzismo la causa scatenante, che spinge a teorizzare o più semplicemente a concepire la razza.

La razza non è la causa del razzismo, ma il suo pretesto, il suo alibi. La razza non è una pura e astratta idea, ma un “concetto iconico”, una parola e una nozione che funzionano come un talismano carico di magia. Al punto di fare scrivere a Jean-Paul Sartre, che l’antisemitismo, come il razzismo in generale è soprattutto una passione, che viene nutrita fino a diventare una concezione del mondo.

La razza è tanto una illusione quanto una realtà, che resiste alle demolizioni critiche e ai tentativi di rimpiazzo con concetti come etnicità, nazionalità, civiltà o cultura. Come sostiene William J. Mitchell: «La verità è che non c’è nient’altro al mondo o nel linguaggio che possa fare tutto ciò che chiediamo alla razza di fare per noi».

Espulsa dall’ingresso principale, l’idea di razza è così rientrata dalla finestra, assumendo nomi e forme diverse, ma mantenendo nella mente dei nuovi razzisti lo stesso spirito classificatorio e gerarchizzante. A sostituire il paradigma biologico del pensiero razziale e razzista è subentrato un nuovo quadro di riferimento: quello culturale. La nostra, infatti, è un'epoca post-razziale (ma non post-razzista) caratterizzata però da nuove dinamiche di razzializzazione basate non solo sui vecchi cliché delle “essenze” razziali o su segni visibili come colore della pelle o tratti somatici, ma soprattutto nella riconfigurazione delle relazioni parentali, dello status di cittadino e della dislocazione spaziale.

Per lo scrittore afroamericano W. E. B. Du Bois la razza è una sorta di velo che media le percezioni degli altri rendendo possibile un “secondo sguardo”, quello del razzismo: «è una densa e invisibile, ma orribilmente tangibile lastra di vetro attraverso cui la gente può vedere, ma non sentire o toccarsi». Le nuove linee della discriminazione, tracciate dai sempre più diffusi partiti o movimenti localisti e xenofobi che stanno acquisendo forte visibilità in Europa – e l’Italia non fa eccezione con la Lega e Casa Pound – oggi corrono lungo delle presunte frontiere culturali.