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22/04/2015

 

“Il blocco navale non servirà a nulla: il problema è politico”

di Marco Cesario

 

I rimedi proposti non basteranno. Secondo Katy Booth, responsabile della FIDH, l’Europa non può più respingere persone che rischiano di morire

 

Le tragedie del Mediterrano, sempre più un cimitero a cielo aperto, al di là delle ciniche manipolazioni in chiave politica ed oltre le letture pietistiche e semplicistiche necessitano di un’analisi più approfondita del fenomeno. Sui barconi ci sono in maggioranza migranti subsahariani che fuggono a loro volta da altre catastrofi, altre guerre, altre persecuzioni.

 

La Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH), che ha sede a Parigi, ha pubblicato recentemente un rapporto sulla situazione dei migranti che provengono dalla Libia, che in realtà transitano da questo paese e provengono da regioni subsahariane ancora più povere e disastrate. In Libia subiscono detenzioni, torture, violenze. L’ultima tappa è quella del viaggio verso le coste Nord del Mediterraneo per trovare un’insperata salvezza. È questa una delle chiavi per leggere i drammi di questi giorni. Ne abbiamo parlato con Katy Booth, responsabile dell’ufficio migrazione della Federazione Internazionale Diritti Umani (FIDH) che ha sede a Parigi.

 

Ennesime tragedie nel Meditterraneo. Tragedie annunciate e a fronte dispositivi inefficaci. La situazione diventa oggi giorno sempre più drammatica.

La cosa che colpisce è che le reazioni che si hanno oggi sono le stesse che si sono avute l’anno scorso nelle circostanze del naufragio dell’ottobre 2013 al largo di Lampedusa, quando morirono 366 migranti. Si ha l’impressione di essere in un ciclo infernale di ripetizioni, in cui ci si sorprende delle catastrofi come se cadessero dal cielo. I dirigenti europei esprimono il proprio dolore, lo shock e l’indignazione, vengono introdotte misure inadeguate o addirittura ciniche e poi il ciclo continua. La conclusione è una sola: la politica adottata dall’Europa è la causa di queste tragedie. Non si tratta di fatalità, di eventi accidentali. La politica europea di chiusura adottata da diversi anni costringe le persone che fuggono da guerre e persecuzioni a rischiare la propria pelle invece di aspirare a richiedere una protezione che è invece prevista dal diritto internazionale.

A Bruxelles non esiste né la volontà né la progettualità per salvare le migliaia di persone che muoiono in mare

 

Da Mare Nostrum a Triton la situazione è notevolmente peggiorata. Da gennaio 2015 si sono registrati quasi 1600 morti.

L’operazione Triton non punta a salvare le vite in mare, si tratta di un dispositivo di sicurezza. Molto più efficace, invece, l’operazione Mare Nostrum, condotta dall’Italia, la quale tra l’altro aveva chiesto aiuto per poterlo «perennizzare», ma l’Europa ha rifiutato con la giustificazione che il dispositivo Mare Nostrum avrebbe incoraggiato le migrazioni di massa. Dopo queste ultime tragedie ci si rende conto che a Bruxelles non esiste né la volontà né la progettualità per mettere a punto un dispositivo per salvare le migliaia di vite umane che periscono ogni giorno nel Mediterraneo. La soluzione che ritorna è sempre la stessa, ovvero rafforzare i mezzi di Frontex. Ricordiamo che Frontex non è un agenzia di salvataggio, è un’agenzia di sorveglianza, di controllo delle frontiere. La politica europea si riduce oramai a questo: impedire alle persone di attraversare le frontiere. Noi ci aspetteremmo un grande dispositivo di salvataggio in mare, solidale con gli stati frontalieri come l’Italia e la Grecia che non possono far fronte a questi drammi da soli. La Ue brilla per latitanza. Ma in fondo anche un’operazione di salvataggio non sarebbe altro che un cerotto su una piaga che è stata creata dagli stessi attori ai quali si chiede oggi di avviare dispositivi per salvare vite in mare.

Non cercano l’Europa perché la considerano un Eldorado. La verità è che non hanno scelta. Non sono migranti economici

 

Quali sono le motivazioni che spingono centinaia di persone a rischiare la propria vita su barconi carichi fino all’inverosimile?

Dimentichiamo il concetto che l’Europa sia un Eldorado. La situazione reale è che queste persone non hanno scelta. Il concetto cinico che si tratti di «migranti economici» non regge. Basta guardare alle persone che popolano questi barconi. Basandosi sulle cifre del 2014, confermate anche dalle tendenze del 2015, per il 25% si tratta di cittadini siriani che fuggono da guerra e persecuzioni e che potrebbero richiedere lo statuto di rifugiati in Europa, per il 20% di eritrei, anch’essi in fuga da persecuzioni e guerre. Questi popoli dovrebbero ricevere protezione internazionale perché fuggono da una morte certa. Poi ci sono somali, sudanesi, centroafricani, nigeriani, maliani, tutti popoli che fuggono da guerre e persecuzioni nei propri paesi. Insomma qui si tratta per la maggioranza di rifugiati. Non si può continuare a trattare il problema come se si trattasse di migrazioni economiche, dunque di mera soveglianza e controlli di frontiera.

 

Cosa si deve fare, allora?

Noi come Federazionale Internazionale dei Diritti Umani chiediamo che l’Europa, in primo luogo, riconosca che siamo di fronte a un enorme problema di rifugiati, che la risposta a questa situazione non sia la distruzione dei barconi, la lotta contro la criminalità o le misure restrittive per impedire alle persone di attraversare le frontiere del Nord Africa per richiedere una domanda di asilo in Europa. La risposta dell’Europa dovrebbe considerare la questione dal punto di vista del diritto internazionale, partendo dalla constatazione che queste persone fuggono da persecuzioni e guerre e che dunque avrebbero diritto ad una protezione secondo le norme del diritto internazionale. Dal 2011 in poi in Siria sono fuggiti almeno 4 milioni di persone. In Europa sono giunti appena 120.000 siriani. Non mi sembrano cifre cosi allarmanti se si considera che si tratta di 28 paesi. Insomma, 4 milioni di persone che hanno trovato rifugio soprattutto nei paesi vicini i quali sono a loro volta in difficoltà ed in preda a grandi instabilità.

 

Molte persone che tentano la traversata provengono da regioni subsahariane. Anche la Libia, in preda all’instabilità politica, è diventata un Paese di transito per popolazioni che fuggono da altre guerre più a Sud.

La Libia anche nel recente passato non era un paese di transito ma un paese d’arrivo. Centinaia di migranti fuggivano da situazioni difficili nei propri Paesi e una volta giunti in Libia avevano la possibilità di trovare un lavoro, una situazione più o meno stabile. Grazie alle sue risorse petrolifere, ad una certa ricchezza, la Libia poteva offrire lavoro a molti. In Europa si continuava a credere che i migranti giunti in Libia volessero arrivare necessariamente in Europa ma non era cosi. Sono stata più volte in Libia per incontrare rifugiati e migranti e la grande maggioranza non aveva intenzione di arrivare in Europa. Cercavano solo lavoro. Tra l’altro queste persone rappresentavano una grande fetta della forza lavoro della Libia.

In Libia i migranti subsahariani continuano a essere vittime di tortura, violenze, anche a danno di bambini e donne incinte

 

Dopo la caduta di Gheddafi la situazione dei migranti subsahariani è notevolmente peggiorata.

In realtà si sono susseguite tre fasi. La prima, durante la guerra civile, in cui tutte le persone di colore venivano considerate come mercenari lealisti che sostenevano le milizie di Gheddafi ed erano vittime di violenze da parte della popolazione. Molti di questi hanno cercato di fuggire tentando la traversata nel Mediterraneo. Non potevano tornare ai loro paesi d’origine e non potevano rimanere là.

Nel 2012 c’è stata una seconda fase in cui le cose si sono un po’ stabilizzate. Come FIDH in loco abbiamo assistito al ritorno di molte persone che erano fuggite nella prima fase del conflitto. Queste persone ricordiamolo avevano vissuto in Libia per decenni, ed erano dunque ritornate per riprendere la propria vita, il proprio lavoro.

Con l’inizio della terza fase la situazione è diventata sempre più instabile, le violenze si sono moltiplicate. Molte persone di origine non libica sono divenute ancora vittime di violenze e soprusi.

 

Una situazione che è sempre stata difficile, la loro.

Sì, la situazione dei migranti subsahariani è stata sempre difficile ma peggiora di giorno in giorno. Anche quando era un po’ più stabile venivano arrestati arbitrariamente da milizie e gruppi armati e poi erano ammassati in campi sparsi per tutta la Libia. Bisognava porre fine all’idea «panafricana» di Gheddafi di accogliere altre popolazioni africane, di pulire e spazzare via gli stranieri dal paese. Queste persone, che erano in Libia chi da 10, chi da 15, chi da 20 anni non avevano nemmeno permessi ufficiali, documenti, nulla, veri e propri sans papier senza diritti. Era facile arrestarli e imprigionarli nei campi.

 

E cosa succede lì?

Secondo le associazioni che lavorano in loco, e con le quali siamo in stretto contatto, sappiamo che continuano ad essere vittime di tortura, violenze, anche a danno dei più deboli come bambini e persino donne incinte. Sappiamo che vivono in condizioni insalubri, nella malattia e nell’abbandono più totale. I più fortunati, coloro che hanno messo qualcosa da parte, possono riuscire a corrompere una guardia che li fa fuggire clandestinamente dal campo ma una volta fuggiti sono in una terra di nessuno, in un paese che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra e che non riconosce lo statuto di rifugiato, senza soldi e mezzi, malvisti dalla popolazione già stremata dalla guerra civile e non hanno altra scelta che cercare di partire verso l’Europa. Altri sono venduti ai gruppi jihadisti e alle milizie locali come combattenti. Altri ancora sono venduti come schiavi per lavorare nei pozzi petroliferi o nell’agricoltura. Insomma in Libia c’è una situazione drammatica, un problema enorme che l’Europa continua a non voler vedere. Bombardare i barconi, chiudere ancora di più le frontiere, rafforzare la sorveglianza non servirà a nulla. Cosi l’Europa si fa complice di gravi violazioni dei diritti umani. Sa benissimo che queste persone se restano in Libia sono spacciate, vittime delle peggiori atrocità. La traversata lungo il Mediterraneo è soltanto l’ultima tappa di un calvario pieno di orrori.