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Lunedì, 27 Aprile 2015

 

Perché i migranti sfidano la morte per arrivare in Europa?

di Marco Cochi

 

I circa 1.700 migranti morti dall’inizio dell’anno nel disperato tentativo di attraversare il Mediterraneo inducono a numerosi interrogativi. Primo tra tutti, quali sono le cause che spingono questa moltitudine di esseri umani a intraprendere un lungo ed estenuante viaggio per raggiungere l’Europa, con la consapevolezza di mettere a repentaglio la loro vita.

 Le motivazioni che favoriscono le migrazioni possono essere divise in due grandi categorie: i fattori di spinta, cioè interni al Paese d’origine, e quelli di attrazione, presenti nei Paesi di destinazione, quindi considerati esterni. Di solito, i primi influenzano maggiormente i migranti più poveri, indotti a fuggire dai propri luoghi di origine da condizioni di indigenza estrema, causate da carestie, guerre e calamità naturali.

I fattori di attrazione influenzano invece i meno poveri, in grado sopportare la spesa di un lungo viaggio con la speranza di trovare un lavoro, che permetta di migliorare le proprie condizioni di vita, oppure di acquisire una professionalità, ovvero di accrescere la propria istruzione attraverso il proseguimento degli studi. E’ importante evidenziare che le persone costrette a fuggire dal proprio Paese d’origine per motivazioni politiche, etniche, religiose e di natura ambientale, sono considerati profughi.

La maggior parte dei migranti che tentano di arrivare sulle coste italiane e greche provengono dal Corno d’Africa, parliamo dunque di Somalia, Eritrea ed Etiopia, poi da Sudan, Nigeria, Mali, Malawi, Iraq, Siria e Palestina.

Per avere una maggiore contezza del consistente aumento, registrato negli ultimi anni, del fenomeno degli sbarchi verso le nostre coste, è necessario precisare che prima della destabilizzazione della Libia, la maggior parte di questi immigrati, non oltrepassava la costa nordafricana fermandosi soprattutto nella Grande Jamahiria. Solo una minoranza decideva di proseguire verso il Vecchio continente, scontrandosi con i meccanismi di controllo e di repressione messi in atto dai Paesi europei per contrastare la migrazione irregolare.

La Libia adesso è un Paese dove è in corso una guerra civile ed è divisa in tre parti: Tripoli in mano ai filo-islamici di Misurata, Derna e Sirte sotto il controllo dello Stato islamico e Tobruk luogo d’esilio del parlamento eletto nel giugno dello scorso anno. E poco dopo la caduta di Gheddafi, decine di migliaia di persone hanno cominciato ad abbandonare il Paese per fuggire da questa situazione, dopo aver subito ogni forma di abuso e tortura.

Purtroppo, ciò che avviene in territorio libico si ripete anche in altri dei Paesi sovra elencati. Primo tra tutti l’Eritrea, uno tra i luoghi di provenienza del maggior numero di migranti (nel 2014 quasi 40mila eritrei hanno chiesto asilo politico e stando ai dati dell’UNHCR ogni mese scappano in media 4mila persone dal Paese).

In questo Stato del Corno d’Africa la repressione è costante, il regime di polizia omnipervasivo, la durata del servizio militare indefinita; mentre arresti indiscriminati e detenzioni arbitrarie sono una consuetudine, senza contare le inumane condizioni detentive delle carceri.

Un’alta forma di violenza diffusa riguarda le donne, obbligate al servizio militare e spesso oggetto molestie e abusi sessuali all’interno dell’esercito. Inoltre, la censura sulla stampa è a dir poco pressante, come testimonia l’annuale classifica del Commettee for the Protection of Journalists.

Nella graduatoria, che sarà pubblicata integralmente oggi, l’Eritrea è posizionata al primo posto tra i Paesi più repressivi per ciò che concerne la libertà di stampa. Un infame primato dovuto anche ai ventitré giornalisti ancora detenuti nelle prigioni eritree.

Un altro nutrito gruppo di disperati che sfidano i flutti del Mediterraneo sulle barche della morte viene dal Mali, travagliato dal conflitto che ha devastato l’area settentrionale del Paese. Molti di essi sono scappati dalla guerra combattuta tra il 2012 e il 2013.

Alcuni sono scappati dopo gli attacchi e le azioni di violenza di matrice nazionalista contro i tuareg nel nord, ma il maggior numero ha abbandonato il Paese in seguito all’arrivo degli islamisti, che nelle zone occupate imposero il rigido codice della sharia. E nonostante l’intervento militare francese abbia riportato le città del nord sotto il controllo del governo maliano, molti profughi si sono rifiutati comunque di fare ritorno in Mali, motivati dal timore che l’esercito nazionale li identifichi come sostenitori dei tuareg ribelli, anche se gran parte di essi sono solo sfuggiti alle violenze.

C’è anche chi fugge dal disagio più assoluto, come i migranti che tentano di arrivare in Europa provenienti dal Malawi, uno dei paesi più poveri del mondo dove la maggior parte della popolazione ancora vive nelle capanne, non potendosi permettere un’abitazione in muratura. I malawiani sono spesso anche costretti a dover fare i conti con le piogge torrenziali che distruggono strade, ponti, scuole, infrastrutture di ogni genere e decine di migliaia di ettari coltivabili. Senza dimenticare, l’elevato aumento dei focolai di allevamenti di mosquito, vettori di malattie come la malaria, che contaminano l’acqua dei pozzi.

Da questi scenari di privazioni, vessazioni, miseria e repressione è facile intuire perché ogni anno centinaia di migliaia di persone preferiscono sfidare la morte piuttosto che rimanere nei loro Paesi. Ed è impossibile non accorgersi di come la migrazione sia diventata una dimensione strutturale delle società europee.