The Guardian

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24 aprile 2015

 

Non sono più salito sul barcone per l’Europa

di Ali Sandid

Traduzione di Claudia Avolio

 

Circa un anno fa ho pensato di pagare un trafficante per salire su un barcone verso l’Europa.

 

Molta gente in Europa pensa che noi rifugiati non sappiamo che possiamo morire in mare, che non abbiamo visto le orribili immagini dei cadaveri dei rifugiati, che non sappiamo che decine di migliaia di persone sono state sepolte sulle coste europee.

Ma io guardo i telegiornali ogni giorno e avevo visto che oltre 500 persone erano morte a pochi chilometri dall’isola italiana di Lampedusa nell’ottobre 2013. Conoscevo le statistiche, conoscevo i rischi. Avevo anche perso degli amici, che sono alcuni dei “rifugiati senza volto e senza nome”, come li definiscono i media. Eppure, così come molti rifugiati siriani che, insieme agli eritrei, costituiscono circa la metà dei rifugiati che hanno viaggiato sui barconi verso l’Europa nel 2014, ho pensato che questa fosse la mia unica possibilità.

Sono un rifugiato siriano del campo palestinese di Yarmuk a Damasco. Quando ero piccolo, mia nonna ci raccontava come si era sentita quando era stata costretta a scappare in Siria dalla sua casa in Palestina nel 1948, e quanto sperasse che i suoi figli e i suoi nipoti non dovessero mai provare come ci si sente a essere un rifugiato. Ma l’abbiamo provato. Sono nato rifugiato palestinese e quasi tre anni fa sono diventato rifugiato un’altra volta, quando io e la mia famiglia siamo dovuti scappare dalla guerra siriana fino in Libano.

La nostra casa, il campo palestinese, si è trovato sotto l’assedio più duro che si possa immaginare. Sono ancora in contatto con famigliari e amici che non hanno potuto lasciare il campo di Yarmuk. Per un’assurda crudeltà, a volte hanno Internet, ma non hanno cibo. Molti di loro sono morti per la fame o perché non hanno accesso a farmaci o a cure mediche.

I miei amici e la mia famiglia mi hanno sempre considerato una persona molto ottimista. Amo la vita, amo la gente. Lavoravo a Cipro e anche quando non potevo tornare a casa nella mia amata Siria perché la guerra era già cominciata, gettare la spugna era l’ultima cosa che avessi in mente. In Libano ho iniziato a sostenere gli altri siriani e siro-palestinesi. Avevano bisogno di me e i loro sorrisi e il loro apprezzamento mi ha fatto andare avanti. Mi svegliavo ogni mattina per lavorare come volontario della DPNA (Development for People and Nature Association), una organizzazione partner di CARE.

Ma più o meno un anno fa, non riuscivo più a sostenere la situazione. Sentivo la sofferenza dei rifugiati – quella dei siriani, dei palestinesi, dei siro-palestinesi. Sentivo la loro tristezza, le loro speranze e i loro sogni distrutti. E ho pensato anche alla mia vita, al mio futuro. Avevo perso la speranza. Prima che iniziasse la guerra in Siria, avevo tutta la vita davanti. Poi però, a 27 anni, la mia vita così com’era allora si è bruscamente interrotta. Non potevo più esercitare in modo legale la mia professione di ingegnere. Avevo studiato, avevo soldi, un buon lavoro. D’un tratto, mi ritrovavo lì senza nulla in mano. Essere un rifugiato significa anche perdere il tuo futuro, i tuoi sogni.

Non sono salito sul barcone per andare in Europa. Dopo lunghe discussioni con la mia famiglia e i miei amici, sono ancora in Libano, e sto ancora aiutando i miei compagni rifugiati.

Sto guidando un progetto per formare altri volontari ora. I rifugiati hanno bisogno di sostegno umanitario. I rifugiati con cui lavoro erano ingegneri come me, erano dottori, insegnanti, agricoltori e operai. Avevamo vite normali e, per quanto noi rifugiati possiamo apprezzare l’Europa per quel che è, non è il “paradiso in terra” per noi.

Come me, la maggior parte dei rifugiati sogna di tornare a casa, di tornare in Siria. Ma se non viene riportata la pace e i Paesi vicini continuano a lottare col fardello dell’accoglienza di quattro milioni di rifugiati siriani, l’Europa per alcuni sembra essere l’unica opzione per vivere una vita con dignità. Noi esseri umani siamo tutti piuttosto simili: amiamo i nostri amici, le nostre famiglie, la nostra casa. Non vi rinunciamo facilmente. Ma bombe e proiettili ci tengono lontani dal luogo che amiamo di più.

Seguo i telegiornali, seguo i dibattiti. Sento politici parlare della necessità che l’Unione Europea ripristini le sue missioni di salvataggio, parlare del garantire asilo ai siriani e ad altri rifugiati prima che debbano viaggiare in acque non sicure.

Sono sinceramente toccato dal fatto che così tante persone nel mondo gridino la nostra sofferenza, che alla gente nel mondo importi. Capiscono che non ho scelto di nascere palestinese o siriano, così come voi non avete scelto di nascere europei. Non auguro la mia situazione a nessuno.

Ma spererei che potessimo rendere questo momento della Storia un momento di cambiamento. Gli europei hanno attraversato un dolore simile solo poche generazioni fa. Anche gli europei sono stati rifugiati, sono stati la ragione per la quale sono stati innanzi tutto redatti grandi progetti di diritto internazionale come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la convenzione del rifugiato del 1951. Spero davvero che in Europa ci si possa ricordare del legame dell’umanità che connette tutti noi e che resta la medicina più forte contro la disperazione e l’impotenza.

Ma più di tutto spero che i leader europei e gli altri leader del mondo riprendano i loro sforzi nel fare pressione per colloqui di pace. Alla fine, la maggior parte dei rifugiati spera che si possa smettere di chiamarli rifugiati, che nei loro Paesi si ricostruisca la pace e che possano tornare ai luoghi che amano di più: le loro case.

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