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mag 9th, 2015

 

Perché Tripoli e Tobruk non vogliono i bombardamenti dei barconi. L’Ue vuole la ripartizione

di Enrico Oliari

 

L’immigrazione dal nord della Libia non è soltanto una miniera d’oro per le bande criminali di trafficanti, per le mafie e per i jihadisti. E’ anche un formidabile elemento di pressione a cui sono ricorse le due fazioni, il governo islamista “di Tripoli”, riconosciuto da Qatar e Turchia e con a capo Omar al-Hassi, e il governo “di Tobruk”, riconosciuto dalla comunità internazionale e guidato da Abdullah al-Thani.

A ben guardare i flussi migratori attraversano il settore controllato dal governo “di Tripoli”, e prima di giungere sule coste del Mediterraneo i vari canali portano alla città centro-occidentale di Sebha, in pieno deserto. Lì a gestire il traffico dei migranti sono bande criminali di tuareg e le milizie di Misurata, le stesse che nell’agosto 2014 hanno strappato Tripoli ai miliziani della tribù di Zintan, costringendo i deputati eletti in giugno e il governo a rifugiarsi a Tobruk.

Non è un caso quindi se, davanti alla proposta formulata dal ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano e dal premier Matteo Renzi di distruggere i barconi vuoti sul terreno libico, a Tripoli qualcuno sia schizzato come una cavalletta. Ad esempio il ministro degli Esteri “di Tripoli” Muhammed El-Ghirani ha affermato nelle ore successive al vertice europeo del 23 aprile che non vi sono state consultazioni da parte dell’Ue di nessun genere e che “Abbiamo fatto del nostro meglio per indurre l’Europa a collaborare con noi sull’immigrazione illegale, ma loro continuano a rispondere che non siamo il governo riconosciuto dalla comunità internazionale”. Ha quindi aggiunto che “Ora loro non possono decidere di lanciare queste azioni, devono parlare con noi”.

Si tratta, per farla breve di un ricatto tutto politico: se la comunità internazionale riconosce il governo “di Tripoli”, l’immigrazione verrà fermata, altrimenti i barconi continueranno a partire per l’Italia. E di sciacallaggio, se si pensa che il dramma dell’immigrazione è costato quasi 1800 morti nel mare dall’inizio dell’anno, senza contare i migranti che hanno perso la vita nel Sahel e in Libia.

Non è quindi un caso se l’inviato dell’Onu Bernardino Leon, sempre impegnato ad organizzare incontri su incontri fra le parti coinvolte nel conflitto libico, stia collezionando una serie di insuccessi: l’elemento immigrazione serve alle fazioni in lotta per obbligare la comunità internazionale a, da una parte, riconoscere il governo “di Tripoli”, dall’altra a togliere il blocco alle forniture di armi al governo “di Tobruk”, per così attaccare definitivamente la Tripolitania.

E difatti anche l’ambasciatore libico all’Onu (quindi del governo “di Tobruk”) Ibrahim Dabbashi è intervenuto in merito all’idea di bombardare i barconi lamentando che “Non ci hanno mai consultati, non accetteremo mai militari sul terreno”.

Intanto l’Italia continua a fare pressing per trovare il consenso necessario alle Nazioni Unite e quindi ottenere il mandato utile a far decollare i propri caccia, misura necessaria per evitare che l’azione si trasformi in una dichiarazione di guerra.

Di buono c’è (finalmente) la decisione della Commissione europea di chiedere ai vari paesi l’introduzione della ripartizione fra i Ventotto dei profughi, e di considerare l’asilo politico e le relative domande in chiave europea. Verrebbe così di fatto sospeso il trattato di Dublino, il quale obbliga ogni paese a farsi carico degli immigrati e dei profughi giunti sul proprio territorio.

 

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