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31 agosto, 2015

 

Il fumo di Londra si dissolve sui fantasmi di un’Unione ancora da costruire

di Daniele Priori

 

L’altolà del Governo inglese alla migrazione comunitaria svela quanto la falla nei sistemi nazionalisti sia più grave e profonda della stessa emergenza profughi. Al momento ad un’Europa che o è unita o non è, rispondono i nazionalismi che si fanno forti dell’assenza di reali politiche comuni: per esempio sul lavoro, che resta il primo passaporto per la speranza anche per i giovani migranti italiani.

 

Il fumo di Londra si va dissolvendo. Mantenere i nostri sogni, il mito dell’eurolost generation che parte per lo Uk, costa troppo persino per le casse dei sudditi di Sua Maestà che del resto – perfino tra le battute di Mary Poppins – ricordano che se crolla la Banca d’Inghilterra crolla tutta l’Inghilterra. Poi se a sognare sono giovani concittadini europei, anche italiani, al Governo di Downing Street interessa poco. Basta zaino in spalla e paghetta di mamma per andare a cercare fortuna Oltremanica. Da qui in avanti si rischierà ogni giorno di più di poter raggiungere le città del Regno Unito solo per andare in vacanza, a fare un corso di lingua al massimo o a lavorare, ma con un’occupazione già lì ad aspettarci a braccia aperte.

I numeri e i conseguenti costi sono d’altra parte davvero ragguardevoli. Parlando di nostri connazionali: nell’ultimo anno sono partiti per Londra in 57mila, +37% rispetto all’anno precedente. Un autentico esercito di oltre 250mila ragazzi italiani, spesso di valore, ma ancor più spesso solo in cerca di fortuna, avventura, speranza (come normalissimi migranti, insomma…) che dal 2010 hanno scelto di salpare verso la perfida Albione. Più di noi, in quella direzione, si sono mossi solo polacchi e rumeni.

Numeri che hanno rafforzato il convincimento delle correnti più conservatrici del governo Uk a iniziare la partita a Risiko! con l’Ue a mezzo stampa, un editoriale sul Sunday Times, in una tranquilla domenica di fine agosto, periodo propizio all’inizio di una nuova stagione (non) lavorativa per molti giovani mediterranei o mitteleuropei, nel quale magari pensare di partire, sognando il futuro. Bene, anzi no. Perché secondo il ministro degli interni inglese, Theresa May, alla lunga non si potrà più fare.

Una minaccia che mina il concetto stesso di libera circolazione delle persone in Europa? Certamente. E poco importa al governo di Cameron che continua a tenere sul filo proprio l’Ue con la promessa/minaccia di un referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea stessa. E’ stato proprio questo, d’altra parte, uno degli argomenti cardine con i quali, astutamente, alternando bastone e carota, il premier inglese ha rivinto le recenti elezioni ottenendo una significativa conferma.

Così, giacché Londra si è accorta di rischiare grosso pure lei, in un clima economico-finanziario costantemente a rischio di pericolosissimi contagi internazionali, il governo ha individuato uno dei punti del vulnus, forse quello più conveniente da affrontare in termini di consenso elettorale: l’immigrazione. Ma non è di profughi in questo caso che parliamo, piuttosto di europei, come anche gli inglesi dovrebbero essere (sia pure senza l’euro in tasca). Insomma, per farla breve, parlano proprio di noi e dopo aver condiviso – ma ottimamente ammortizzato – con tutti gli altri Paesi europei e Usa il prezzo caro di una crisi economica e sociale intercontinentale; dopo essere riusciti nell’impresa complessa, seguendo la solita rotta, quella americana, ad arginare la recessione che ha coinvolto invece l’eurozona, mettendo soldi freschi, cartamoneta sul mercato e tenendo bassa la barra del rigore, continuando ad elargire benefit sociali per i più disagiati (molti dei quali immigrati, anche europei), ora è giunto il momento di girare la vite.

Gli ingredienti: euroscetticismo (una costante oltremanica, specie in zona Tory sin dai tempi dell’Iron Lady, Margaret Thatcher) e una stretta sull’immigrazione. Costi quel che costi.

Un giro di vite che in realtà, a fronte delle spinte nazionaliste e xenofobe sempre più contagiose persino in Paesi tipicamente accoglienti come quelli mediterranei, rischia di diventare un boomerang per tutti.

L’Unione europea, però, questa volta pare abbia capito la lezione. Checché ne dicano gli inglesi, infatti, con le loro proverbiali prese di posizione tipiche di chi ha la fortuna di vivere in un’isola, l’Europa unita è un fenomeno irreversibile che non sussiste senza la storia di Atene e ha bisogno del fumo di Londra per continuare ad esistere come quel sogno che non si è ancora del tutto realizzato, ma prima o poi succederà perché dovrà succedere. E che però, paradossalmente, per realizzarsi ha bisogno di passare per isole e speranze.

Disperazioni e sogni. Lavoro e solidarietà senza confini. Dove nessuno può rimanere realmente isolato. E i cittadini di isole con storie così diverse, come la Gran Bretagna a nord e Lampedusa all’estremo sud, si dovranno guardare in faccia, affrontando problemi di migrazioni per ragioni che hanno le radici agli antipodi ma qualche punto in comune: su tutti il diritto alla speranza, alla libertà, alla felicità, ovunque si trovi. Che tuttavia, in molti casi, fanno rima con la parola lavoro che l’economia europea, anche inglese, il sistema delle banche e gli Stati sovrani tutti insieme dovranno trovare il modo di ridisegnare, a partire da regole che abbiano i confini solo come limite geografico. Non politico e meno che mai elettorale.

 

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