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05 settembre 2015

 

Migranti, la strage infinita, la forza delle immagini, il rimosso

di Annamaria Rivera

Versione ampliata e aggiornata dell’editoriale del manifesto del 4 settembre 2015

 

Quest’ecatombe ha responsabili politici ben definiti, e  i “trafficanti” sono solo l’ultimo anello della catena del proibizionismo. Eppure c’è chi non vorrebbe essere disturbato. Nemmeno da una foto.

 

Lo sappiamo bene: ricorrere a lemmi come genocidio o Shoah per nominare altre stragi di esseri umani rischia di avallare o alimentare il revisionismo. Eppure le istantanee più recenti a riprova del trattamento dei profughi e della loro interminabile ecatombe contengono segni che evocano la semiotica del genocidio: la proliferazione di muri e fili spinati; i mucchi di cadaveri di asfissiati durante trasporti da bestie da macello; la marchiatura di massa degli esuli, bambini compresi, a rendere letterale la loro stigmatizzazione; i campi per migranti irregolari, con topografia, routine e violenza quotidiane simili a quelle dei lager, come mostra il caso esemplare del Cie di Ponte Galeria…

 

La più straziante delle immagini, quella del corpicino, esanime sulla spiaggia, di un bimbo di tre anni – Aylan Kurdi, come poi avremmo saputo –, vestito di tutto punto come per un viaggio di piacere, è non solo l’icona della vittima assoluta, ma anche la ricapitolazione potente di una strage spesso banalizzata o ridotta a singole cifre ed episodi, sia pur seriali.

Quest’ecatombe ha responsabili politici ben definiti, che non sono certo in primis i “trafficanti”, ultimo anello della catena del proibizionismo. Essa è, infatti, il frutto di un disegno, sia pur da apprendisti stregoni. I quali, mentre sempre più facevano dell’Europa una fortezza, contribuivano a destabilizzare e devastare ampie aree del mondo con politiche di sfruttamento neocoloniale, guerre e altri interventi militari: senza calcolarne le conseguenze in termini di esodi di massa obbligati.

 

Quella foto – scattata, insieme ad altre, da Nilufer Demir, giornalista turca – ha fatto il giro del mondo, suscitando eco vastissima e scuotendo le coscienze, nonché le cattive coscienze, di persone comuni come di massimi leader europei. Eppure v’è ancora chi vorrebbe non essere disturbato nell’opera di rimozione dell’Unheimlich, del perturbante. Infatti, certuni – non pochi cittadini italiani – invece di esprimere empatia e pietas, hanno protestato, tramite radio e web, per “l’intento ricattatorio” di chi, compiendo una scelta coraggiosa, aveva voluto pubblicare le immagini del bimbo annegato: “Vogliono costringerci ad accettare l’invasione”, ha commentato in diretta l’ascoltatore di una radio nazionale, dando prova di un cinismo ripugnante nella sua mediocrità.

 

E’ come dire che Robert Capa avrebbe fatto bene a tener nascosta la fotografia della morte del miliziano durante la guerra civile spagnola. E si sarebbe dovuto cestinare la foto, scattata nel 1943 nel ghetto di Varsavia, del bambino con berretto a visiera, cappotto corto, calze al ginocchio, che solleva le mani mentre un soldato tedesco gli punta alle spalle un fucile automatico. Così, anche il vietnamita Nick Ut avrebbe fatto bene a tenersi nel cassetto l’altrettanto celebre immagine del 1972 che, comparsa sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, gli sarebbe valsa un premio Pulitzer: quella dei bambini, una di loro completamente nuda, che fuggono da un attacco al napalm compiuto dall’esercito statunitense. Né si sarebbe dovuta render pubblica l’istantanea, scattata nel 2004, che mostra la soldatessa americana Lynndie England mentre, nella prigione-lager di Abu Ghraib, trascina al guinzaglio il corpo di un prigioniero iracheno, oscenamente de-umanizzato: anch’egli nudo e col volto visibile.

 

Insomma, per quanto scioccanti, vi sono immagini che compendiano con efficacia il senso di eventi della cui portata storica non tutti, in quel momento, sono consapevoli. L’immagine straziante del piccolo Aylan Kurdi è una di queste. Essa sintetizza dolorosamente la tragedia degli esuli dal disastro provocato in gran parte dall’Occidente e ci ammonisce su un rischio incombente: quello della disfatta morale dell’Europa che volle federarsi all’insegna di valori quali il rispetto assoluto dei diritti umani.

Essa, invece, si è finora illustrata per due primati. E’ la meta più migranticida al mondo. E’ stata incapace di distribuire equamente, fra i ventotto Paesi federati, finanche la quota irrisoria di trentaduemila richiedenti-asilo: lo 0,0063 per cento in rapporto alla popolazione dell’UE.

 

Dopo lo choc provocato da quelle immagini, la Commissione europea ha deciso di elevare a centoventimila quel numero ridicolo. E la Germania – dando prova, essa, di una certa consapevolezza circa il rischio che il cattivo passato, mai sufficientemente elaborato, finisca per riemergere – si spinge fino a dichiarare che accoglierà ottocentomila rifugiati.

C’è da sperare, senza eccesso d’illusioni, che il sacrificio del piccolo Aylan – come di sua madre e del suo fratellino, come delle almeno duemilasettecento vittime della Fortezza Europa, da gennaio a oggi non sia presto annegato nel mare della realpolitik; – che valga, anzi, a segnare una svolta.

 

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